Che inganno il presidenzialismo
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 15 del 22/04/2023
C’è un male oscuro che affligge la democrazia italiana da molti anni, ma negli ultimi tempi si è alzata ancora di più la febbre che affligge il corpo politico. Il termometro per misurare questo malessere ce l’ha fornito l’ultimo turno delle elezioni politiche. Alle elezioni politiche del 25 settembre 2023 si è avuto il più basso tasso di partecipazione che si sia mai registrato nella storia della Repubblica italiana: ha votato meno del 64% degli aventi diritto. Il 36% del corpo elettorale si è astenuto dalla partecipazione alle elezioni. In termini assoluti, a fronte di circa 24 milioni di votanti, sono stati più di 16 milioni i cittadini italiani che hanno rinunziato allo strumento che in tutte le società democratiche consente di dare ingresso alle istanze dei cittadini nelle stanze del potere.
Anche coloro che si sono recati alle urne probabilmente non l’hanno fatto con grande entusiasmo poiché il sistema elettorale e la natura ademocratica dei partiti hanno sottratto agli elettori ogni possibilità di scelta delle persone che dovrebbero rappresentarli nelle assemblee elettive. Nella democrazia costituzionale il Parlamento è la stanza di compensazione fra la società e lo Stato. Quando la stanza di compensazione non funziona più, si verifica un crescente scollamento fra governanti e governati e si genera una diffusa sfiducia nelle istituzioni e nei partiti politici, di cui l’astensione dal voto è il sintomo principale. Questo malessere della democrazia è avvertito da tutti, ma non tutti i rimedi proposti aiutano il malato a guarire. Piuttosto il populismo nelle sue varie versioni cavalca l’insoddisfazione diffusa in ampi strati della popolazione per dirigerla verso obiettivi fasulli, com’è accaduto con la riforma costituzionale che ha ridotto il numero dei parlamentari, approvata a furor di popolo con il referendum del 20 e 21 settembre 2021. Il voto nel referendum sul taglio dei parlamentari ha consentito agli elettori di sfogare il rancore verso un ceto politico percepito come una casta, però non è servito a curare, semmai ad aggravare, la crisi della rappresentanza. L’opzione più pericolosa per la democrazia è quella che tende a sfruttare il disagio diffuso per la crisi della rappresentanza, creando l’illusione che i cittadini possano contare di più se venisse concessa loro la possibilità di eleggere il presidente della Repubblica che, investito del mandato popolare, potrebbe guidare una compagine di governo più salda e stabile.
Negli ordinamenti democratici esistono vari tipi di presidenzialismo, quello dove i poteri sono più accentrati nelle mani del presidente, è il sistema francese, introdotto dalla V Repubblica, che, curiosamente, viene definito semipresidenzialismo. Anche se non è stata ancora partorito il testo della riforma, è evidente che il modello preferito da questa compagine di governo è quello di tipo francese perché nella passata legislatura FdI presentò un modello di riforma (AC n. 716) che copiava il modello francese, prevedendo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, che assumeva anche le funzioni di capo del Governo. Secondo questo schema il presidente della Repubblica nominava il primo ministro e, su proposta di questi, nominava e revocava i Ministri, dirigeva la politica generale del Governo. Il Governo (del presidente della Repubblica) per entrare nelle sue funzioni non doveva avere la fiducia del Parlamento, che poteva solo votare la sfiducia costruttiva (indicando a chi dovesse essere conferito l’incarico di primo ministro). Il presidente conservava il potere di sciogliere le Camere e non v’è dubbio che lo avrebbe esercitato se le Camere non avessero condiviso il suo indirizzo politico.
Se la crisi della democrazia in Italia nasce dalla crisi della rappresentanza, che genera lo scollamento fra i governati e i governanti, tutte le possibili riforme in senso presidenzialistico puntano a deprimere ancora di più il ruolo della rappresentanza e a sottoporre il Parlamento ai poteri di una sorta di Re elettivo. Basta vedere quello che succede in Francia dove si sono succeduti finora 11 giorni di sciopero generale, milioni di cittadini sono scesi in piazza, si sono verificati disordini di ogni tipo, ma il potere politico presidenziale è rimasto impermeabile alla volontà popolare, e i cittadini non hanno potuto trovare rappresentanza nel Parlamento, al quale il Governo del presidente ha tolto persino la possibilità di votare sulla riforma previdenziale contestata dai cittadini per introdurre degli emendamenti.
Per quanto riguarda l’altro modello presidenziale, quello americano, i fatti di Capitol Hill, con l’assalto al Parlamento il 6 gennaio 2021 da parte dei sostenitori di Trump, dimostrano quanto sia pericolosa la polarizzazione politica che si produce intorno alla scelta di un presidente capo di Governo, al di fuori di ogni mediazione politica di tipo parlamentare.
In Italia, qualunque forma di presidenzialismo tenderebbe a inserire la figura del presidente nel circuito dell’esecutivo, cancellandone la funzione di garanzia e di intermediazione. In questo modo, eliminato l’arbitro, i conflitti politici diventerebbero molto più acuti e sarebbe messa a rischio la stessa unità nazionale.
Domenico Gallo è presidente emerito di Sezione, Corte di Cassazione
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