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Violenza sulle donne. Virilismo maschilista e patriarcalismo femminile

Violenza sulle donne. Virilismo maschilista e patriarcalismo femminile

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 30 del 16/09/2023

Con la violenza di genere funziona un po’ come con la violenza mafiosa: se ci sono cadaveri per strada, tutti ne parlano e molti s’imbancano a maestri. Tra un delitto e l’altro, ci si occupa d’altro: ci si illude che si sia tornati alla normalità fisiologica. Si scambia la scomparsa del sintomo con la guarigione dalla malattia. Invece è proprio nell’ordinarietà che vanno scovate le radici, le cause prime, delle patologie.

Ma questo lavoro di scavo, e conseguentemente di prevenzione, non comporta né interviste televisive né servizi giornalistici: avviene nel silenzio, nella discrezione, nella perseveranza. Da più di trent’anni è presente, in varie città italiane, il movimento “Maschile plurale” (per le sedi sparse sul territorio cfr. www.maschileplurale.it) che elabora riflessioni; produce libri, mostre fotografiche e filmati; organizza convegni e seminari; attua interventi educativi nelle scuole, nei centri sociali, nelle associazioni… La caratteristica – rispetto a organizzazioni che mirano al medesimo obiettivo pedagogico – è che i membri sono tutti uomini e che si espongono, in prima persona, “mettendoci la faccia”, nel criticare l’assetto patriarcale e maschilista della società (anche italiana) nonostante gli innegabili progressi dovuti alle lotte femminili e femministe dell’ultimo secolo. Un assetto che coinvolge le istituzioni, le legislazioni, le opportunità di lavoro, i servizi sociali, il costume, la moda, perfino le comunità religiose (a cominciare dall’androcentrismo esclusivista della Chiesa cattolica, per non parlare della mentalità islamica condivisa da un numero crescente e già notevole di fedeli appartenenti alla religione di Maometto).

Alcune sedi del movimento sono attrezzate anche per accogliere maschi adusi a esercitare violenza sulle donne della propria vita, ma desiderosi di essere aiutati a cambiare, sia pur gradualmente, atteggiamenti e gesti.

A fronte di questo campo immenso di lavoro, gli uomini che vi s’impegnano – ovviamente a titolo di volontariato – sono pochissimi. E ciò per ragioni generali e per ragioni specifiche.

In generale, il movimento “Maschile plurale” sconta l’ondata di sfiducia epocale che scoraggia tante persone dal tentare di raddrizzare almeno alcune delle molte storture evidenti sul pianeta. Non si finisce di affrontare una questione (come il degrado dell’ambiente, i peggioramenti climatici, i flussi migratori coatti, le pandemie…) che se ne impongono cento altre: le guerre (in atto o in preparazione), le carestie, le siccità, la diffusione delle tossicodipendenze, lo sfruttamento militare e sessuale dei minori, l’opacità dei trattamenti carcerari, l’abuso sistematico dalla nascita al macello di miliardi di esseri senzienti… La sensazione dominante diventa il senso d’impotenza. Apprendiamo sui mali del mondo molto più di quanto riusciamo a immaginare di poter rimediare. Né si ha fiducia in quel lavoro sistemico, metodico, collettivo di cui gli organismi politici (partiti e sindacati) sembravano farsi carico offrendo all’individuo singolo la speranza che, dove non poteva arrivare egli, vi sarebbero arrivati l’organismo politico di appartenenza e, attraverso di esso, il governo e gli organismi internazionali.

Oltre a queste motivazioni d’ordine più generale, ho il sospetto che a dissuadere tanti uomini dall’impegno costante in “Maschile plurale” contribuisca anche la constatazione che certi obiettivi femministi si stanno rivelando deludenti proprio man mano che sembrano raggiunti. Per lunghi decenni si è, giustamente, auspicato che a occupare posti di vertice nel mondo delle istituzioni fossero donne. Certamente è stato significativo e confortante vedere in ruoli di primissimo piano donne come Margareth Thatcher, Condoleezza Rice, Madeleine Albright, Ursula von der Leyen, Christine Lagarde, Giorgia Meloni… Ma queste donne hanno davvero importato, nei metodi e nelle strutture, nuovi stili e nuove prospettive? O hanno dimostrato – o stanno dimostrando – di saper comportarsi, quanto a considerazione delle fasce deboli (tra cui donne, minori, anziani), con la stessa cieca determinazione dei colleghi maschi? Stanno operando davvero una femminilizzazione della sfera pubblica (se con questo termine approssimativo s’intende una strategia di attenzione e di cura verso gli “scarti” del capitalismo galoppante) o si stanno limitando a sostituire la tradizionale violenza esibita dai maschi “alfa” con nuove versioni della stessa, malcelate dietro sorrisi rassicuranti e slogan populistici?

Se questi cenni sono fondati, non resta che sperare nella resipiscenza di quei maschi che oggi restano inerti perché paralizzati dal naufragio della politica (in generale) e dalla capacità diabolica del maschilismo virilista, militarista, spietato di tracimare dalle menti di tanti uomini insediandosi nelle menti di tante donne.

Augusto Cavadi co-dirige, con la moglie Adriana Saieva, la Casa dell'equità e della bellezza di Palermo. Ha pubblicato, tra altri saggi sul tema, il volume “Il Dio dei mafiosi”, San Paolo 2009. Ha scritto recentemente "Dio visto da Sud. La Sicilia crocevia di religioni e agnosticismi" (2021) e "O religione o ateismo? La spiritualità 'laica' come fondamento comune" (2021)

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