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Don Puglisi, ucciso dalla mafia e da «mandanti inconsapevoli». Un libro a 30 anni dall’omicidio

Don Puglisi, ucciso dalla mafia e da «mandanti inconsapevoli». Un libro a 30 anni dall’omicidio

Tratto da: Adista Notizie n° 31 del 23/09/2023

41576 PALERMO-ADISTA. «Sono passati trent’anni dalla sera del 15 settembre 1993, quando il caro don Pino Puglisi, sacerdote buono e testimone misericordioso del Padre, concluse tragicamente la sua esistenza terrena proprio in quel luogo dove aveva deciso di essere “operatore di pace”, spargendo il seme della Parola che salva, che annuncia amore e perdono in un territorio per molti “arido e sassoso”, eppure lì il Signore ha fatto crescere assieme il “grano buono e la zizzania”». Comincia con queste parole la lettera che papa Francesco – in cui, in maniera piuttosto sorprendente, non vengono mai usate le parole «mafia» o «Cosa nostra» – ha inviato a mons. Corrado Lorefice, arcivescovo di Palermo, in occasione del trentesimo anniversario dell’omicidio di don Pino Puglisi, il parroco palermitano che annunciava il Vangelo dal pulpito della sua chiesa e per le strade del suo quartiere, lavorando perché Brancaccio diventasse più vivibile – le lotte insieme ai cittadini per la scuola, i servizi sociosanitari, le fognature – e i suoi abitanti potessero liberarsi dal dominio mafioso.

Papa Francesco: don Puglisi, «operatore di pace fino all’effusione del sangue»

«Nel giorno del compleanno, la mano omicida di un giovane lo uccise sulla strada. Le strade del quartiere erano la Chiesa da campo che ha servito con sacrificio e percorso durante il suo ministero pastorale per incontrare la gente, in una terra da lui conosciuta e che non si è mai stancato di curare e annaffiare con l’acqua rigenerante del Vangelo, affinché ognuno potesse dissetarsi e godere il refrigerio dell’anima per affrontare la durezza di una vita che non sempre è stata clemente», prosegue Bergoglio. «Sull’esempio di Gesù, don Pino è andato fino in fondo nell’amore. Possedeva i medesimi tratti del “buon pastore” mite e umile: i suoi ragazzi, che conosceva uno a uno, sono la testimonianza di un uomo di Dio che ha prediletto i piccoli e gli indifesi, li ha educati alla libertà, ad amare la vita e a rispettarla. Sovente ha gridato con semplicità evangelica il senso del suo instancabile impegno in difesa della famiglia, dei tanti bambini destinati troppo presto a divenire adulti e condannati alla sofferenza, nonché l’urgenza di comunicare loro i valori di una esistenza più dignitosa, strappandola così alla schiavitù del male. Questo sacerdote non si è fermato, ha dato sé stesso per amore abbracciando la Croce sino all’effusione del sangue».

E poi, rivolgendosi ai pastori, il papa li esorta a non fermarsi «di fronte alle numerose piaghe umane e sociali dell’ora presente, che ancora sanguinano e necessitano di essere sanate con l’olio della consolazione e il balsamo della compassione»; e «a fare emergere la bellezza e la differenza del Vangelo, compiendo gesti e trovando linguaggi giusti per mostrare la tenerezza di Dio, la sua giustizia e la sua misericordia. Sono segni che il cristiano è chiamato a porre nella città degli uomini per illuminarla nella costruzione di una nuova umanità». Conclude la lettera del pontefice: «Sappiamo bene quanto don Pino si sia battuto perché nessuno si sentisse solo di fronte alla sfida del degrado e ai poteri occulti della criminalità; riconosciamo pure come l’isolamento, l’individualismo chiuso e omertoso siano armi potenti di chi vuole piegare gli altri ai propri interessi. La risposta è la comunione, il camminare insieme, il sentirsi corpo, membra unite al Capo (…). Voi che quotidianamente sostenete le responsabilità del ministero sacerdotale a contatto con le realtà che abitano codesto territorio, siate sempre e ovunque immagine vera del Buon Pastore accogliente, abbiate il coraggio di osare senza timore e infondete speranza a quanti incontrate, specialmente i più deboli, gli ammalati, i sofferenti, i migranti, coloro che sono caduti e vogliono essere aiutati a rialzarsi. I giovani poi siano al centro delle vostre premure: sono la speranza del futuro».

Don Puglisi, «un leone che ruggisce di disperazione»

Ma perché un’organizzazione che tradizionalmente non ha mai guardato la Chiesa come un nemico decide di eliminare un prete? È sufficiente essere assassinati dalla mafia per essere dichiarati beati dalla Chiesa cattolica che, nella sua lunga storia, ha avuto un atteggiamento perlomeno ambiguo nei confronti di Cosa nostra? Sono le domande di un filosofo laico, Augusto Cavadi, e un prete teologo, Cosimo Scordato – da sempre impegnati nel movimento antimafia siciliano –, in un libro che, lontano dall’apologia di chi vorrebbe ridurre Puglisi a un santino, riflette sul senso di un omicidio anomalo e di una beatificazione controversa, provando a ragionare su cosa Puglisi può dire ancora oggi alla società e alla Chiesa (Augusto Cavadi e Cosimo Scordato, Padre Pino Puglisi. Un leone che ruggisce di disperazione, Il Pozzo di Giacobbe, 2023, pp. 202, 18€).

Puglisi è stato ucciso da una Cosa nostra ancora stragista perché nella prassi pastorale quotidiana viveva e trasmetteva un Vangelo di liberazione che contrastava ogni forma di oppressione dell’uomo sugli altri esseri umani, costruendo un’alternativa concreta al sistema mafioso. È interessante il confronto che opera Scordato fra il martire di mafia Puglisi e i primi martiri cristiani dell’era precostantiniana, quando la Chiesa non era ancora alleata del trono: essi venivano uccisi perché negavano la natura divina dei Cesari, attentando così alla pax socioreligiosa; Puglisi non riconosce la “divinità” e il potere dei mafiosi, denunciando anzi la loro pseudo-religiosità. In questo senso allora – grazie anche alle riflessioni della teologia della liberazione –, l’espressione «in odio alla fede», assume un significato nuovo: un mondo, come quello mafioso, che non esclude frontalmente la fede, ma la addomestica idolatricamente anche come giustificazione del proprio dominio, non uccide per odio diretto verso la confessione della fede ma verso coloro che cercano di renderla autentica e la realizzano nello smascheramento dell’oppressione e nella costruzione della giustizia sociale.

Cavadi: i funzionari del sacro, «mandanti inconsapevoli» dell’omicidio di don Puglisi

Va poi aggiunta l’unicità di Puglisi, non nel senso di eroicità sovrumana, ma di non arretramento di fronte al compimento della propria missione evangelica: il parroco di Brancaccio emergeva scandalosamente e pericolosamente agli occhi dei mafiosi rispetto agli altri parrini, i quali vivevano il proprio ministero pastorale all’interno del recinto del tempio o al sicuro della sacrestia, guidati dal proverbiale campa e fa campari, trasformandosi così – scrive Cavadi – in «mandanti inconsapevoli»: se «la stragrande maggioranza dei preti accetta regali e favori dai mafiosi e amministra senza remore i sacramenti a loro e ai loro familiari, un parroco che osasse rifiutare gesti di benevolenza “pelosa” da noti esponenti del sistema mafioso si qualificherebbe per ciò stesso come il “brutto anatroccolo” che compromette la compatta “bellezza” della sua famigliola», la “pecora nera” da allontanare o, come don Puglisi, da eliminare come esempio per gli altri. La beatificazione di un martire di mafia, allora, non dovrebbe essere celebrata come un «trionfo», ma come una vergogna: la Chiesa cioè «avrà da aprire gli occhi sulle proprie tremende complicità e chiedere perdono per aver incoraggiato e reso quasi obbligatoria, per la propria vigliaccheria, l’eliminazione del suo figlio fedele».

Scordato: l’unica vera Chiesa antimafia è una Chiesa senza potere

Cosa resta dell’eredità di Puglisi alla Chiesa di oggi? Sicuramente un contributo al percorso che dalla compromissione e dalla coabitazione – soprattutto ai tempi della Dc – è spesso giunto alla presa di distanza e alla denuncia. Manca però ancora un intervento ecclesiale specifico, originale, concreto ed efficace. Manca una profonda conversione al Risorto, perché la Chiesa diventi «spazio di risurrezione, ovvero di cambiamento radicale, che rende improbabile, se non addirittura impossibile, l’infiltrazione dell’associazione mafiosa e l’invadenza degli atteggiamenti e comportamenti mafiosi». Manca soprattutto, conclude Scordato, la rinuncia al potere: «Non sembra che la Chiesa abbia accettato di buon grado la sua situazione di marginalità e di servizio umile rispetto ai luoghi delle grandi decisioni sui destini del mondo. Non che essa debba rinunciare a “predicare sui tetti” il Vangelo del Signore; piuttosto si tratta di scegliere il cammino della compagnia con gli altri, con le sole risorse del Vangelo e della grazia di Dio. La Chiesa deve rinunciare a un posto di centralità e di prestigio secondo le modalità di questo mondo, per riscoprire e gustare il ruolo umile e deciso del suo servizio al regno di Dio e alle anticipazioni di esso nella terra degli uomini». 

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