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Medio Oriente e fratellanza. Il falso scontro di civiltà

Medio Oriente e fratellanza. Il falso scontro di civiltà

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 41 del 02/12/2023

Come è avvenuto in occasione dei mondiali di calcio, anche oggi tutti corrono a Doha. L’emiro del Qatar, forte delle sue enormi risorse economiche e debole delle ridottissime estensioni territoriali del suo emirato, è condannato ad avere buoni rapporti con tutti. Primo emiro a stabilire relazioni commerciali (non diplomatiche) con Israele, in ottimi rapporti con l’Iran (per evitare che minacci la sua fragile sovranità), in buoni rapporti con gli Usa, dei quali ospita la grande base navale di al Ubeid e quindi l’United States Central Command (USCC) e l’United State Air Force Central Command (USAFCC), è anche proprietario della potente emittente satellitare panaraba, al Jazeera, punto di riferimento per tutto l’islam politico con la sua informazione abbastanza “veemente”. Forse, quest’ultima rappresenta un’altra garanzia, questa volta nei confronti del “basso”, delle classi sociali più fragili, dalle quali potrebbero venire polemiche per il suo uso spregiudicato della ricchezza “musulmana”; o forse è il modo per costringere sulla difensiva emiri e re più armati. Personalmente propendo per la prima ipotesi, visto che alla zakat, l’elemosina islamica, l’emiro preferisce l’investimento nel calcio: solo per i mondiali si stima una spesa di 220 miliardi di dollari. Tutto questo ne ha fatto la “pecora nera” della famiglia degli emiri del Golfo guidata da Riad, che detesta l’islam politico proprio per le minacce che porta alla stabilità di corone spendaccione, rendendolo il punto di riferimento della Fratellanza Musulmana. Ma il blocco commerciale decretato da Riad contro Doha è fallito e il giovane bin Slam ha dovuto rinunciare ai suoi intenti di ammansire il piccolo ma potentissimo vicino.

Hamas va in Qatar

Ora l’emiro di Doha è corteggiato da tutte le grandi agenzie di intelligence, a cominciare dalla Cia, perché finanziando da anni Hamas con il beneplacito israeliano, il Qatar ha mediato per il rilascio degli ostaggi catturati dal suo cliente il 7 ottobre. Tutti ne incolpano, probabilmente a ragione, l’Iran, che avrebbe istruito tramite il suo braccio operativo nella regione, Hezbollah, i miliziani assassini di Hamas. Così si dimentica però che Hamas solo dieci anni fa andò via dalla Siria per il fuoco aperto sui Fratelli Musulmani (tra gli altri) da parte di Assad e Hezbollah, i veri amici del cuore dell’Iran. Fu allora che i leader di Hamas ripararono a Doha. Dunque, tutta la solidità ideologica, la granitica alleanza di quello che Teheran ha battezzato “l’asse della resistenza”, pasdaranhezbollah-hamas e milizie filoiraniane in Iraq, non appare così granitica. Solo pochi anni fa si sparavano addosso. Poi con l’arrivo di Hamas nella capitale del grande mediatore, l’emiro del Qatar, Tamin bin Ḥamad al Thani, le cose sono cambiate.

Netanyahu e gli ostaggi

Dall’altro capo del filo che collega l’emiro al mondo c’è stato per anni, secondo analisti attenti, il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che nel finanziamento di Hamas a Gaza vedeva un risvolto positivo per il suo governo, attento soprattutto alla colonizzazione israeliana della Cisgiordania, decisiva per la formazione della ristretta maggioranza governativa indispensabile al primo ministro per restare al governo.

Ma anche gli emiri più disinvolti e capaci farebbero bene a prestare attenzione alla “gente”. Infatti il 16 novembre scorso al Jazeera ha trasmesso due interviste, con la madre israeliana di una delle donne prese in ostaggio il 7 ottobre e con il dirigente di Hamas incaricato proprio della questione degli ostaggi, Zaher Jabareen. Ne ha dato conto il 17/11 il quotidiano saudita Arab News. I sauditi sono in rapporti difficili con il Qatar e con al Jazeera, che ritengono vicini a Hamas e all’“islam politico” in generale. E allora perché parlare del “nemico”? Perché Arab News ha notato che il programma di cui stiamo parlando ha suscitato un vespaio, a giudicare dai commenti online di molti ascoltatori arabi. Leggerne alcuni, riferiti dal giornale saudita, è molto interessante.

Una madre e il suo governo

Si comincia con quanto scritto dal corrispondente del Financial Times da Riad, Samer al-Atrush, per il quale al Jazeera ha fatto ottimi reportage da Gaza ma, detto questo, ha aggiunto: «Perché ospitare la madre di un ostaggio insieme a un dirigente di Hamas, ponendole domande politiche? A che cosa pensavano?». È un punto importante, sebbene qualcuno possa ritenere che non si tratti di un parere rappresentativo di «un’opinione pubblica diffusa». Può apparire una discussione speciosa o fondata, ma il quotidiano saudita parla di numerosi fruitori «ordinari» del sito web che hanno voluto esprimere la loro vicinanza alla madre della donna presa in ostaggio. Uno, tal Yazan, sottolinea che «la signora non può essere criticata per le azioni del suo governo». È proprio questo il punto posto da un altro: perché vi siete messi a discutere di politica con la madre di un ostaggio? Così un altro parere, riportato da Arab News, dissente significativamente dalla scelta di al Jazeera: «non potevate scegliere un altro ospite per parlare di politica?».

Il papa e al-Tayyeb

Infatti alla donna è stato chiesto se Israele non debba ritirarsi dai territori occupati; ma questo schema a giudicare dai commenti riportati non ha funzionato. Davanti alla madre in pena per la figlia rapita certi modelli sono vacillati, almeno nei commenti di chi ha ritenuto un suo dovere far sentire la sua voce. Leggendo viene allora da chiedersi dove si annidi la sostanza o la “realtà” del cosiddetto scontro di civiltà. Dove sono queste civiltà che non riconoscono come dolore il dolore di una madre angosciata per sua figlia? Quale civiltà non riconosce la sua pena? Il web è potente, lo dicono in tanti e certamente è così. Ma spesso veicola messaggi o voci piene di rabbia, di risentimento. In questo caso mi sembra che il risentimento abbia voluto esprimersi nei confronti di chi non riconosce la “pietas umana”, quell’empatia con chi soffre e che dimostra - attraverso un canale di comunicazione così divisivo - che quella “fratellanza” di cui hanno parlato papa Francesco e l’imam di al-Azhar, Ahmad al Tayyeb, nel “Documento sulla fratellanza umana” esiste. Il web qui mi è parso dirci qualcosa di importante sui popoli e l’empatia, che Arab News avrà sottolineato per motivi politici, va bene, ma che chi ha commentato il programma ha espresso per un bisogno primario di civiltà, sulla quale non riconosce “scontri”.

Non si potrà esagerare il valore di qualche commento online a una trasmissione, ma mi ha colpito, rileggendo il “Documento sulla fratellanza umana” firmato ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019, che dopo le solenni condanne della violenza nel nome di Dio e specificando nel nome di quali valori comuni si intenda parlare, il papa e l’imam hanno scritto testualmente: «In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro Paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna. In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre. In nome della fratellanza umana che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini».

Bin Laden e l’America

Mi ha sempre colpito che nonostante qualche sforzo di al-Azhar, questo documento nel Medio Oriente sia stato presentato da parte cristiana soltanto in un simposio organizzato in un’università libanese. E invece i venti di guerra, le lacerazioni che affliggono il Medio Oriente dovrebbero spingere a portarlo ovunque. Ne trovo conferma anche per la dolorosa vicenda, di segno opposto, relativa al successo che ha improvvisamente trovato la lettera che scrisse bin Laden agli americani nel 2002 e che The Guardian ha scoperto improvvisamente molto ripresa (dopo così tanto tempo) e rimosso dal suo sito. Bin Laden vi svolse, con la sua retorica velenosa, quella che René Girard ha definito una incredibile esposizione della sua idea, il mimetismo che governa l’uomo, attraverso l’esempio della violenza mimetica. Se voi ci uccidete, ci massacrate, a cominciare dalle nostre donne e dai nostri bambini, allora noi abbiamo il diritto di agire contro di voi, siete voi i colpevoli. La vendetta… Siccome l’uomo, secondo Girard, agisce soprattutto per emulazione - per mimetismo - la violenza mimetica è stata una scossa fortissima che il mondo arabo ha subìto e con la quale ha convissuto per anni. Ma c’è un altro meccanismo, forse più forte di quello scatenato da bin Laden: quello dell’empatia per chi soffre. È quello su cui punta il Documento sulla fratellanza: quando si parla «In nome degli orfani, delle vedove» ecc., si tocca quello che forse non è fuori luogo definire il mimetismo del dolore. Quello che gli utenti di al Jazeera forse hanno sentito scattare davanti al volto della madre della ragazza ostaggio. Qui c’è, o potrebbe esserci, un meccanismo di mimetismo virtuoso, che porta a identificarci con il dolore dell’altro, a riconoscerlo come l’altra faccia del nostro; ciò diviene più forte se anche l’altro fa sua questa identificazione. Come nel nuovo film di Ken Loach, The Old Oak: una profuga siriana che ha perso la capacità di piangere dopo tanto dolore rimane indifferente all’astio del piccolo centro inglese dove è giunta per sopravvivere. Ma quando si accorge che il suo dolore viene capito e cessa il pregiudizio ostile verso di lei, ritrova la capacità di piangere. È questo coraggio, il coraggio di sfidare il binladenismo e la sua violenza mimetica che oggi manca?

Se fosse così, la manchevolezza non sarebbe, a mio avviso, solo dell’emiro al Thani, ma anzitutto dei leader religiosi che per paura della violenza altrui permangono in un identitarismo, in un recinto confessionale, che impedisce di unire. Come sa fare il documento sulla fratellanza. Questa occasione, in questi giorni drammatici per tutti, poteva essere colta grazie alla sentenza del tribunale francese che, su istanza di ex cittadini siriani ora francesi, ha riconosciuto la sua giurisdizione universale su crimini contro l’umanità e spiccato un mandato d’arresto internazionale contro Bashar al-Assad. La documentazione è impressionante, ma ancor di più lo è il silenzio della “cristianità siriana”, in giorni in cui una sua parola avrebbe potuto parlare al mondo. Ora, il caso dei commenti alla trasmissione di al Jazeera offre la possibilità di salire a bordo di un treno decisivo: la promozione, durante una guerra tremenda, del Documento sulla fratellanza umana, la cui esistenza pone un problema non da poco anche a chi nega il diritto a esistere di uno Stato palestinese, prospettiva più difficile e lontana di quanto oggi si voglia far pensare.

*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza

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