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Ebrei e mondo arabo, una storia di convivenza pacifica. Un’idea per gaza

Ebrei e mondo arabo, una storia di convivenza pacifica. Un’idea per gaza

Tratto da: Adista Notizie n° 43 del 16/12/2023

41679 ROMA-ADISTA. Dicendo «tutto ciò che so della vita l’ho imparato dal calcio», Albert Camus seppe prevedere che la teoria dello scontro di civiltà ci avrebbe ridotto a tifosi assiepati nelle curve della loro partita. E invece il terrorismo non è un destino arabo-islamico, non sono le fedi a rendere impossibile un altro Medio Oriente, ebrei e musulmani hanno secoli di convivenza alle spalle. Un’importante data per la storia del mondo viene dimenticata facilmente, il 1492: dove andarono gli ebrei espulsi da Isabella? Nell’Impero Ottomano! Qui si dice che il Sultano (che era anche Califfo), incredulo davanti a una tale assurdità, domandasse ai suoi se fosse possibile essere più stupidi di questi spagnoli che cacciavano dal proprio Paese una popolazione così abile e ingegnosa. Non sorprende che nel 1609 li seguirono i moriscos, i musulmani di Spagna.

Nella Gerusalemme ottomana, cioè fino al 1920 o giù di lì, episodi di odio religioso non sono segnalati dagli storici. Piuttosto i diari di Ahmed Cevtet pascià riferiscono di patriarchi cristiani che criticavano le riforme imperiali, le tanzimat, tese a riconoscere pari cittadinanza a ogni cittadino, qualsiasi fede professasse nell’impero, sostenendo che i cristiani stavano meglio prima: «Eravamo dietro ai musulmani, certo, ma davanti agli ebrei» nella scala gerarchica delle comunità. E a Istanbul questa scala aveva lungamente visto ortodossi, armeni ed ebrei essere più numerosi dei musulmani.

In origine fu la convivenza

Dunque, il Levante cosmopolita aveva saputo superare le asprezze di certo integralismo fanatico che aveva cominciato a disprezzare gli ebrei in base ad alcuni detti attribuiti al Profeta e riferiti all’Apocalisse. In questi detti il fatto apocalittico, rispetto a com’è nel racconto coranico, si trasforma, compare l’Anticristo, addirittura si citano Gog e Magog, ovviamente anche loro assenti nel libro sacro dei musulmani, e si parla dell’eliminazione degli ebrei «che non si convertono». Eppure la Costituzione di Medina, che sarebbe stata redatta dallo stesso Maometto, fa convivere la comunità dei credenti musulmani nella più grande “comunità medinese”, comprendente alcune tribù ebraiche (citate espressamente nel testo), riconoscendo a ciascuno il diritto ai propri costumi e ai propri riti. La difficile contestualizzazione di alcune disposizioni (il testo è del 622) non ha impedito a molti studiosi (ovviamente non tutti) di scorgervi la base di una convivenza civile che riconosce a Maometto stesso un ruolo di arbitro ultimo solo per i casi individuali più controversi.

Il disprezzo per chi non si converte sembra derivare dallo zelo dei convertiti, sopraggiunti dopo Maometto. Sappiamo bene dell’esistenza dei famosi “versetti problematici” nel Corano, dell’ambivalenza di alcune sure coraniche rispetto ad altre, come quella in cui si afferma che non v’è costrizione nei fatti di fede. Non vedo tutto “bello e lineare”, ma appare evidente che la lunga storia della protezione dei “Popoli del Libro” nell’islam sia stata per secoli più tollerante dei sistemi europei (di quello di Isabella di Spagna certamente) e abbia consentito al Levante di esistere perché cosmopolita. L’espulsione da alcuni Paesi arabi delle comunità ebraiche dopo la prime guerre arabo-israeliane ha strappato il Levante, lacerando irreparabilmente, per scelta di leader nazionalisti e sulla carta “laici”, il tessuto delle società levantine.

Leader arabi

Ma la storia non comincia allora e nella storia spiccano due personaggi, Muhammad Ali e Gamal Abdel Nasser, che ci dicono incontrovertibilmente che il fanatismo religioso non fosse il destino di quello che oggi chiamiamo “mondo arabo”. Muhammad Ali (1769-1849) era il vice-re modernista ed europeista d’Egitto, che voleva modernizzare ed europeizzare tutto l’impero. Albanese di nascita, lui incarnò la scelta “europea”, e fu nei fatti rifiutato dagli europei, non dagli arabi. Non interessava una terra di mezzo tra Europa e India evoluta, moderna; al contrario, nella prospettiva colonialista quella terra doveva restare arretrata, diciamo “senza pretese”. Accantonato in malo modo Muhammad Ali, arrivò tempo dopo Gamal Abdel Nasser (1918- 1970). Certamente un militare, un golpista, ma un leader così amato dagli arabi che tutti raccontano come ai suoi tempi tutto quel mondo si fermasse incantato ad ascoltarlo, attraverso i transistor, quando pronunciava i suoi interminabili discorsi. Nasser è stato un leader discutibile, autore di scelte esiziali, ma di certo in tutti gli anni del suo governo non si è messo in tasca una lira, anzi, è noto che con una tangente respinta fece costruire la celebre torre del Cairo. Nasser è stato anche un nemico giurato dei fanatici religiosi, come tutti i suoi seguaci. È famoso un discorso all’Università in cui disse alla folla estasiata di studenti in adorazione: «Ho rotto i negoziati elettorali con i Fratelli Musulmani. Sapete perché? Volevano che imponessi alle donne di indossare il velo». E l’Università del Cairo esplose in una fragorosa risata. Non deve sorprendere, né sarebbe giusto pensare a un’esagerazione. Ai suoi tempi le strade del Cairo erano piene di vigilesse che il foulard lo portavano intorno al collo, e sotto la giacca avevano una gonna, che arrivava fino al ginocchio: cosi era la loro divisa. La questione del velo è anche al centro di un famoso aneddoto: Nasser, che fece incarcerare e poi giustiziare il capo dei teocratici, Sayyd Qutb, avrebbe chiesto come costui potesse chiedergli di far indossare il velo alle egiziane se lui, Qutb, non era capace di farlo indossare a sua figlia.

Fucine di integralisti

No, non era scritto da nessuna parte che la strada del Levante fosse quella che oggi vediamo, ma l’incapacità di Nasser e degli altri regimi “laici” suoi vicini o alleati di rispettare la promessa di redistribuire al popolo i proventi della decolonizzazione ha segnato la svolta, a favore di Qutb e dei suoi seguaci, che trasformarono i campus universitari marxisteggianti in fucine di integralisti dicendo che «la giustizia sociale sarebbe venuta, ma con la sharia». Il fallimento dell’altra strada fece sperare molti in questa. E la corruzione dei re, che a differenza di Nasser in persona non hanno da allora lesinato in ruberie, l’ha rafforzata.

Dunque a chi dice che la storia era segnata, che l’islam è questo, chiederei che islam fosse quello dell’Ottocento, o dell’inizio del Novecento. Durante il suo viaggio in Egitto, papa Francesco ha ricordato uno slogan arabo molto usato proprio in quel tempo, quando nacquero gli Stati sovrani: «La fede è per Dio, la Patria è per tutti». La pronunciò davanti al generale al-Sisi e ai suoi gerarchi anche in arabo: al din lillah wa al watàn lilgiamia’. Questa frase, prima del golpe di Assad, era usata come mantra della sua politica dal primo ministro siriano, il cristiano Fares al Koury. Era un destino il fondamentalismo? Era un destino l’odio, il disprezzo? No, il fallimento era insito però nel sistema di divisione e di strumentalizzazione dei colonialisti. Anche la vera emergenza che sta ancora perseguitando tutta quella regione, il khomeinismo, è riuscita a conquistare il potere per il tradimento occidentale, in nome del petrolio, del governo del laico Mossadeq. È stato quel tradimento che ha aperto le porte alla follia teocratica khomeinista.

Le lezioni della storia sembrano inutili davanti al presente, e alla sua apparente incurabilità. Certo non è facile essere ragionevoli, moderati, in qualsiasi angolo di questo Medio Oriente: a Teheran, dove si viene assassinati perché non si indossa correttamente il velo; a Damasco, dove si viene deportati perché ritenuti di una comunità non fedele al satrapo; a Beirut, dove una cricca di malviventi ha affidato a una milizia religiosa tutte le armi; a Baghdad, dove l’invasione a stelle e strisce ha prodotto il miracolo di regalare il Paese ai khomeinisti; a Tel Aviv, dove si vive sotto l’assedio di nemici giurati; a Ramallah, dove si vive analogamente; a Gaza, dove non si può vivere.

La via del cotone

Ma proprio Gaza dimostra la mancanza di volontà di affrontare e avviare a soluzione il problema. I sauditi, oggi finalmente liberi dalla follia paranoica dei dotti dell’islam di scuola wahhabita, allontanati dal potere con le cattive dal modernista e assolutista bin Salman, hanno avuto una semplice opportunità per farlo. La grande occasione gli è stata offerta dal processo di pace con Israele avviato insieme all’intesa con New Delhi per dar via alla cosiddetta “via del cotone”, il corridoio IMEC. Un corridoio prima via mare e poi via terra per far giungere nel Mediterraneo le merci indiane. Un progetto che cambierà il commercio tra Oriente e Occidente, consentendo a un mare di merci di risparmiare tutto il tratto di strada che oggi devono fare per raggiungere e percorrere il Mar Rosso per poi arrivare qui, nel Mediterraneo. La Partnership for Global Infrastructure and Investment (PGII) è un’alleanza creata dal G7 nel 2022, che vi lavora insieme al Global Gateway dell’Ue, che ha destinato una spesa fino a 300 miliardi di euro per investimenti sulle infrastrutture all’estero tra il 2021 e il 2027.

Tuttavia, a nessuno è venuto in mente di proporre che questa enorme via infrastrutturale (anche telematica, anche per la fibra), alla quale domani si potranno affiancare stabilimenti di cantieristica araba (che non esistono!) avesse il suo terminale o un suo terminale a Gaza. Non è un porto Gaza? Non potrebbe essere, non in alternativa ma insieme ad Haifa, lo sbocco naturale di un simile progetto? E non potrebbe questo essere il vero, valido motivo per portare un contingente militare arabo di pace a “bonificare” Gaza? Oggi si dice che questo contingente arabo non verrà mai proposto perché sarebbe percepito come un sostegno all’occupante. Ma se questo contingente portasse la prospettiva di un futuro impensabile fatto di banchine, di silos, di cantieri, di catene di produzione e distribuzione, non sarebbe percepito come il contingente dei liberatori? Non reagirebbero gli abitanti di Gaza come reagirono gli italiani dopo vent’anni di fascismo e una lunghissima guerra?

Ma se questo non può essere neanche sussurrato, se il futuro di Gaza deve essere la sua disperazione e non la speranza del ritorno al vecchio tessuto che faceva cosmopolite le società del Levante, allora il problema non è l’islam, ma l’indisponibilità del mondo a liberarsi da bande di malfattori, come gli uomini che da hotel a cinque stelle nel cuore lussuoso di Doha guidano Hamas.

Ovviamente non sarebbe una passeggiata: decenni di ferocia dittatoriale e cleptocrate dei “laici” già filo sovietici e dei monarchi dai forzieri senza fondo già filo americani hanno indottrinato nel nichilismo migliaia e migliaia di esasperati all’odio vissuto come sola vendetta possibile. Ma il fatalismo dello scontro di civiltà è falso, perché lo scontro di civiltà è una profezia che si autoavvera se nessuno ha il coraggio di dire che “il re è nudo”. 

*Foto presa da Wikimedia Commons, immagine originale e licenza

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