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L’alternativa è possibile

L’alternativa è possibile

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 12 del 30/03/2024

Alle solite, difficilmente gli opinionisti resistono alla deriva dell’enfasi contingente. Alludo alla volubilità dei commenti ai recenti test amministrativi in Sardegna e in Abbruzzo. Nell’arco di due settimane si è passati dalla tesi che il vento fosse cambiato, che si dischiudessero praterie al campo progressista, che, per la destra a trazione meloniana, fosse iniziato il declino, si è passati – dicevo – alla diagnosi infausta e persino allo scherno verso il “campo largo”. Distorsioni ottiche che semplicemente esorcizzano il carattere limitato di entrambi i test e soprattutto le rispettive peculiarità. Rifuggendo gli opposti estremi dell’enfasi trionfalista seguita alla risicata vittoria sarda e la depressione originata dalla sconfitta abruzzese, a sua volta favorita dalle illusorie attese nutrite da sondaggi spesso inattendibili con sobrietà, si può mettere a verbale un assunto: virtualmente, la partita è aperta; non siamo condannati al destino eterno della egemonia meloniana; il centrosinistra o il fronte progressista che dir si voglia se la può giocare. Naturalmente mettendo nel conto un impegnativo lavoro politico di lunga lena. Non l’impresa di un giorno. Qualcuno, saggiamente, ha suggerito di accantonare dispute nominaliste che si espongono all’irrisione: campo largo, campo giusto... che hanno il sapore del tatticismo e delle furberie. Lo si chiami o comunque lo si intenda come cantiere dell’alternativa alla destra che ci governa.

Non è difficile abbozzare una scaletta di impegni di cui si compone il lavoro politico da sviluppare nel suddetto cantiere. Certamente la paziente e metodica ricerca di una convergenza programmatica, che muova da temi comuni in parte già istruiti (salario minimo, sanità e scuola pubblica, fisco giusto), ma che non si fermi lì. Tali puntuali convergenze devono essere raccordate e iscritte dentro un’idea e una visione dell’Italia in Europa e nel mondo; cioè devono essere ricondotte a una cifra condivisa (la giustizia sociale e ambientale, la lotta alle disuguaglianze, una Europa politica) suscettibile di fare da bussola a un progetto di governo. Un progetto supportato da un’alleanza politica non occasionale e revocabile, ma strutturale e strategica. Lo sappiamo: essa non potrà essere siglata prima delle elezioni europee la cui base proporzionale esalta i particolarismi e semmai ancor più la contesa tra i partiti più vicini. Ma immediatamente dopo non si dovrà perdere un minuto. Anzi: anche nei tre mesi che ci separano dalle europee sarebbe utile dare prova di un fair play e di una misura, pur dentro la fisiologica contesa; non pregiudicare il filo di un dialogo che dovrà essere tessuto immediatamente dopo.

Tra i punti qualificanti che più facilmente si prestano a una convergenza, di sicuro il dossier delle riforme costituzionali e istituzionali: premierato assoluto, autonomia differenziata, separazione delle carriere dei magistrati. Un pacchetto palesemente figlio non già di una coerente visione ma di un baratto politico tutto interno alla maggioranza che, per altro, si nutre di reciproche diffidenze.

Le opposizioni sono in condizioni di condurre una battaglia comune a difesa (attiva e propositiva) della democrazia costituzionale, della coesione sociale e nazionale, di un assetto delle istituzioni che non smantelli le autorità terze di garanzia e i presidi di legalità. Avanzando controproposte in sede parlamentare, ma con l’avvertenza di non farsi risucchiare sul terreno sdrucciolevole di mediazioni che sanno di capitolazione. Alludo, per esempio, a proposte “terziste” e bipartisan sul premierato, che, per altro, difficilmente saranno recepite da chi non ha le idee chiare ma ha fatto intendere di non rinunciare in ogni caso alla “bandiera” dell’elezione popolare diretta del premier. La quale, come tale, altererebbe profondamente gli equilibri costituzionali e minerebbe sostanzialmente la nostra forma di governo parlamentare. Inutile e autolesionista indulgere ai tecnicismi.

Al fondo trattasi di un confronto politico maiuscolo tra opposte concezioni della democrazia (costituzionale l’una, plebiscitaria l’altra) e dunque non ci si può sottrarre alla sfida attrezzandosi sin d’ora per un probabile (e dichiaratamente ricercato dalla Meloni) confronto/scontro referendario. Pena trasmettere l’impressione di non avere fiducia nelle proprie ragioni.

La portata di tale sfida – ovvero la minaccia alla democrazia e all’unità nazionale – dovrebbe suggerire alle forze di opposizione di fare ogni sforzo per limare le proprie distanze programmatiche su altri pur rilevanti campi. Compreso quello della politica estera. Gli avversari, ma, a ben vedere, tutta la stampa mainstream, enfatizzano a dismisura la divergenza sulla continuità o meno dell’invio di armi a Kiev.

Personalmente mi rifiuto all’idea che una riflessione e un confronto sulle linee portanti della politica estera possano essere risolti e banalizzati nel dilemma sì o no alle armi. Per altro secretate. Di più: penso che, dopo due anni di guerra e senza che se ne scorga la fine, se adeguatamente elaborate, le ragioni degli uni possano e debbano interagire con le buone ragioni degli altri. Trattandosi di questione tutt’altro che ovvia. Come dimostrano le parole del pontefice, per chi non le voglia fraintendere o sottovalutare.

Ma penso soprattutto che il nodo cruciale e decisivo della nostra politica estera debba essere semmai – semplifico per farmi intendere – il modo con il quale stare dentro le nostre storiche alleanze europee e atlantiche. Con dignità e con una relativa ma praticata autonomia. Di cui oggi non vediamo traccia, né in Italia, né da parte dell’Europa. Altresì in coerenza con la tradizione della nostra migliore politica estera – quella dei Fanfani, Moro, Andreotti, Craxi – consapevoli della peculiare vocazione euro-mediterranea dell’Italia, come tale versata (e apprezzata) quale Paese più di altri impegnato nella mediazione e nella politica di dialogo e pace. Nel segno di quell’art. 11 della Costituzione che oggi usa interpretare un po’ aggirando la perentorietà del suo incipit («l’Italia ripudia la guerra»).

C’è infine il mantra della contesa per la leadership tra PD e M5S. Un topos per cui vanno pazzi certi opinionisti (segnatamente quelli che, anche a sinistra, tifano per la loro insanabile divisione). Non escludo che, soggettivamente, su entrambi i fronti, i due leader ci possano aspirare. Ma, insisto, faccio credito a entrambi della consapevolezza che non sia questo il primo né il principale dei problemi, che ben altro e prioritario peso abbiano le differenze politicoprogrammatiche da appianare. Solo poi – a tempo debito – si scioglierà il nodo della premiership. E non è escluso, anzi è probabile che, al dunque, si valuti concordemente di puntare su una figura terza considerata più idonea a operare una sintesi ed elettoralmente più competitiva. In fondo, nulla di nuovo. Fu così al tempo di Prodi, uomo senza partito, che resta pur sempre il solo che sconfisse Berlusconi e portò tutta la sinistra a responsabilità di governo. In ogni caso, se proprio il problema si dovesse porre, c’è sempre la via delle primarie, quelle propriamente dette ovvero concernenti la guida degli esecutivi (e non il capo del partito). Per le quali non vedo controindicazioni, una volta che si sia stilato il programma comune dell’alternativa e si sia stretta un’alleanza strategica quantomeno di legislatura.

Vano discutere di una nuova legge elettorale: le destre non hanno alcun interesse a cambiare quella (pessima) vigente che tanto fa comodo a loro. M5S e centristi, recalcitranti a siglare alleanze stabili e impegnative, non possono rifuggire da una stringente etica della responsabilità: sottraendosi a una chiara scelta di campo non salveranno l’anima e forse neppure il corpo.

Franco Monaco, già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi del card. Martini, presidente dell’associazione “Città dell’uomo”, fondata da Giuseppe Lazzati, parlamentare del Partito Democratico, già membro della Commissione esteri della Camera e della delegazione parlamentare Osce

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