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La posso chiamare “padre”? Preconcetti patriarcali

La posso chiamare “padre”? Preconcetti patriarcali

Tratto da: Adista Documenti n° 21 del 08/06/2024

È accaduto molti anni fa a una mia giovane collega. Qualcuno ha suonato alla porta dell’appartamento attiguo al locale di culto. Era una persona che chiedeva un aiuto economico. La pastora si è messa subito in ascolto dell’uomo, il quale, nel corso della conversazione, incerto sul come rivolgersi alla sua interlocutrice, le ha chiesto: «La posso chiamare padre?».

Di aneddoti come questo nel mio lungo ministero pastorale – quest’anno ho compiuto 41 anni di pastorato – ne ho accumulati parecchi.

Avevo portato il mio piccolo a farsi vaccinare. La ragazza addetta a compilare la scheda del bambino mi ha chiesto quale fosse la mia professione. Ho risposto: «Sono una pastora». Mi ha guardato interrogativa e poi ha replicato candidamente: «Posso scrivere casalinga?».

D’altra parte, mentre scrivo al computer, Word mi dà errore segnalato in rosso sia per la parola “pastora” che per “pastorato”! Ma qui è facile rimediare, basta aggiungere entrambe al vocabolario. Meno facile è cambiare le abitudini e le pigrizie culturali e anche cercare di comprendere le decisioni, perfino quelle linguistiche di molti nostri concittadini e concittadine, prime fra tutte quelle di chi ci governa, che ha scelto di patriarcalizzare l’incarico istituzionale che ha assunto, scegliendo per sé stessa – donna – l’appellativo de “il” presidente!

Scenette come quelle raccontate sopra, o decisioni opinabili come quella della presidente Meloni, indicano che viviamo in un Paese che non solo è profondamente patriarcale ma in gran parte ancora oggi identifica la Chiesa cattolica con “la Chiesa” tout court, ignorando il pluralismo interno al cristianesimo. A questo si aggiunga la diffidenza preconcetta verso confessioni religiose non cristiane, particolarmente l’islam, come ha dimostrato il caso dell’ispezione dell’Ufficio Scolastico Regionale lombardo alla scuola IqbalMasih di Pioltello, rea di aver chiuso la scuola l’ultimo giorno di Ramadan.

Nel caso delle Chiese protestanti questa diffusa ignoranza è certo “colpa nostra”, in quanto siamo minoranze sparute e sociologicamente trascurabili. Ma non è solo questo. Ignorare o essere infastiditi dal fatto che qualcosa stia cambiando nel panorama religioso del nostro Paese è anche espressione di un appiattimento culturale che non ritiene utile e di comune interesse guardare a ciò che succede poco più in là del cortile di casa o anche nel nostro stesso cortile e sotto i nostri occhi.

E che succede nelle minoranze – una volta si diceva nelle confessioni religiose acattoliche – e in particolare in quelle che si rifanno alla Riforma protestante nelle sue varianti, rispetto alla questione del patriarcalismo?

Il protestantesimo è plurale su questo tema. Lo è a livello internazionale e lo è anche qui in Italia. Si va dalle realtà ecclesiali più aperte e dialoganti a quelle teologicamente conservatrici o anche molto conservatrici. Le ragioni di questo ampio spettro di posizioni sono molte e hanno a che fare anche, ma non solo, con la storia delle varie e tante missioni soprattutto statunitensi che hanno dato l’imprinting alle Chiese da esse fondate qui in Europa. Le comunità conservatrici si affidano a una lettura letteralista della Bibbia che – come si sa – è essa stessa un documento storico per gran parte radicato in società patriarcali. Esse assumono la posizione subordinata della donna all’uomo come “voluta da Dio” e da essa non si discostano molto.

Cinquant’anni e oltre di letture femministe della Bibbia hanno ampiamente dimostrato queste incrostazioni patriarcali. Lo riconoscono le comunità di fede evangelica non conservatrici. Ma gran parte di esse sostengono anche che fra le pagine del Libro, nelle parole, nella fede e nei testimoni, primo fra tutti Gesù di Nazareth, sono presenti anche gli anticorpi al potere patriarcale che lo abita. Cercare, trovare e accogliere la buona notizia che superare il patriarcalismo nella Bibbia è possibile senza rinunciare a essa come documento fondante della fede cristiana, è un approdo possibile ma non scontato. Come per niente scontate sono le conseguenze che queste letture “altre” possono comportare. Per percorrere questa via sono necessarie onestà, audacia e una profonda fede nella forza rinnovatrice dello Spirito Santo che soffia davvero dove vuole, sparigliando le carte. Sta a noi comprenderne la direzione ed essere docili alla sua guida.

Io appartengo a quella parte del protestantesimo che ha scelto di non chiudere gli occhi rispetto al Patriarcato presente nella Bibbia e nei suoi interpreti, come nella dottrina e nelle scelte ministeriali delle Chiese per la grandissima parte della loro storia. Insieme alle teologhe apripista e a quella parte delle Chiese evangeliche che hanno raccolto la loro sfida, anche io fin dagli anni della mia formazione teologica mi sono messa in cammino, adoperandomi come ho potuto per il superamento di una lettura maschilista e sessista della Scrittura. Questo cammino è ancora in corso e io sono convinta che nulla vada dato per acquisito una volta per tutte.

Data la vastità del soggetto, mi limiterò ad enunciare e commentare molto brevemente tre tesi.

Tesi 1: Una lettura critica della Bibbia che parta dalla vita, dal messaggio, dalla morte e risurrezione di Gesù Cristo quale fondamento della fede cristiana può affrancarci dal patriarcalismo ancora vigente nelle chiese cristiane.

Se cultura patriarcale significa centralità dell’uomo nei racconti biblici, nella legislazione mosaica come nelle relazioni familiari e sociali, centralità che fonda gerarchie di potere nelle quali la donna è sempre sottoposta all’uomo, dobbiamo riconoscere che tale cultura patriarcale è nella Bibbia ampiamente dominante.

La domanda è se questa cultura è nella Scrittura ovunque affermata oppure, al contrario essa è invece contestata e relativizzata. Non posso che accennare alle poche ma significative metafore dell’amore misericordioso di Dio come amore di madre, o richiamare il fatto che lo Spirito, in Ebraico RUAH, proprio come la Sapienza di Dio siano in ebraico femminili nel nome e nelle loro personificazioni letterarie. Mi limito a richiamare solo due piste: (1) il non patriarcale relazionarsi di Gesù di Nazareth con le donne; (2) il protagonismo femminile nelle prime comunità cristiane e le relative emergenti problematiche che questo comportava.

(1) C’è unanimità fra gli esegeti che Gesù avesse discepole al suo seguito, donne che contro ogni consuetudine, avevano scelto di seguirlo nel suo ministero itinerante e ne ascoltavano l’insegnamento, le stesse che non l’abbandonarono dopo il suo arresto e furono perciò depositarie dei racconti relativi alla crocifissione di Gesù, al suo seppellimento e alla scoperta della tomba vuota la mattina di Pasqua. Antiche tradizioni, poi, riservano a una o più discepole la prima apparizione di Gesù risorto e alle stesse il primo mandato a portare agli altri discepoli l’annuncio della sua risurrezione.

Questa realtà storica, insieme al primato richiamato da Gesù della comunità di fede sulla famiglia di sangue, mette radicalmente in questione l’idea gerarchica tradizionale. Stessa cosa accadeva rispetto al suo modo di vivere la messianicità (quale modello di regalità) che si esprimeva non come amore per il potere ma come potere dell’amore che si mette al servizio: «Sono in mezzo a voi come Colui che serve» (Lc 22,27).

Il suo abbassamento fino alla morte in croce presenta una gerarchia rovesciata, in cui il Figlio è espressione della identificazione di Dio stesso con l’umanità dei senza potere. E la sua risurrezione, il suo riscatto.

(2) Questo primato dell’orizzontale della comunità sul verticale delle scalate al potere ha caratterizzato la formazione non gerarchica delle prime comunità cristiane e la piena partecipazione delle donne al movimento, che nei primi decenni fu denominato “nuova via”, come missionarie, apostole, predicatrici, profetesse pienamente incluse nel culto cristiano e nella vita delle Chiese.

Quanto avvenne in quei primi decenni rappresentò il lievito per un movimento che crebbe tantissimo proprio per la presenza riconosciuta delle donne e degli/delle schiavi/e.

Poi, man mano che le comunità si andavano stabilizzando e istituzionalizzando, l’iniziale eguaglianza venne a sbiadirsi fin quasi a cessare. Questa tendenza è già molto visibile nei testi più tardi del Nuovo Testamento.

Dunque il cammino verso la de-patriarcalizzazione delle comunità cristiane parte dal dato storico della piena partecipazione delle donne sia nel discepolato di Gesù, sia nella cristianità delle origini, ma si sostanzia nella rilettura della teologia della croce che sovverte ogni visione gerarchica della società, che afferma l’attualità delle beatitudini del sermone sul monte e il capovolgimento per il quale gli ultimi sono primi agli occhi di Dio, le oppresse non più maledette per l’oppressione subita ma benedette da Dio e da Questi innalzate.

Tesi 2: Una visione comunitaria e non gerarchico-sacramentale della fede cristiana ha delle conseguenze nella vita e nei ministeri delle Chiese.

Quando si riflette e si riscopre il carattere rivoluzionario del messaggio, delle scelte e della croce di Cristo, confermate da Dio attraverso la sua risurrezione, le Chiese dovrebbero agire di conseguenza operando una nuova radicale Riforma in senso non-patriarcale e nonviolenta.

(1) L’orizzontalità come principio scelto da Dio ha come prima conseguenza lo spostare i luoghi decisionali delle Chiese dai vertici di gerarchie teologicamente svuotate di senso, alle assemblee dei e delle credenti. È lì che invocando lo Spirito in preghiera si cerca, insieme, la mente di Cristo (1Cor 2,16), si scelgono i propri pastori, si rende conto del proprio operato, anche in campo finanziario.

(2) Se poi Cristo ha scelto il servizio al posto del potere, il riconoscimento dei ministeri operato dalle comunità invocando la Ruah, cioè lo Spirito, non dovrebbe avere alcuna preclusione di genere e di altro tipo. Il patriarcalismo nelle Chiese, laddove assunto come un dogma, riserva ancora attualmente agli uomini i ministeri ordinati e il potere decisionale. È invece la vocazione che lo Spirito sussurra ai cuori, che la Chiesa riconosce e a cui i/singoli/e decidono di aderire, il principio della distribuzione di vari e diversi ministeri dentro e fuori le Chiese. Per troppo tempo le donne ne sono rimaste fuori, come anche omosessuali e uomini coniugati.

(3) Il superamento della cultura patriarcale e gerarchica dovrebbe pian piano trasformare le Chiese, ancora spesso autoreferenziali, in contesti autenticamente ecumenici che privilegiano l’ascolto, il dialogo e il confronto fraterno e sorerno, rinunciando a ogni dogmatismo. Il confronto critico anche con l’esterno è essenziale soprattutto rispetto alle questioni etiche emergenti.

(4) Una reale sequela e imitazione di Cristo significa oggi, nell’era minacciata da guerre globali infinitamente distruttive, una chiamata delle Chiese ad assumere la nonviolenza quale metodo di lotta per la giustizia e per i diritti, per la trasformazione dei conflitti e per la costruzione di società autenticamente solidali. Nonviolenza è anche abbracciare un’etica del limite nei confronti dello sfruttamento delle risorse naturali e una prassi di rispetto per tutte le creature, per la loro vita e la preservazione delle diverse specie.

Tesi 3: Essere Chiese della Parola implica una trasformazione del nostro linguaggio nel senso della sua piena inclusività.

Tutto passa attraverso il linguaggio, l’odio come l’amore, la fede come il cinismo, la speranza come la depressione. Paolo l’apostolo dice infatti che «la fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo» (Rm 10,17). Trascurare il linguaggio, banalizzarlo, usarlo come una clava per sminuire, offendere, ferire l’altro o l’altra è rinunciare alla capacità creativa del linguaggio e trasformarlo in un’invettiva.

La cultura patriarcale è stata, e ancora è, parola imposta dall’alto, parola di potere, parola di possesso, e quindi parola violenta.

Dio creò l’universo con la sua Parola secondo il primo racconto della Creazione.

La parola di Dio guidò un orda di schiavi verso la libertà.

Il Risorto affidò alla parola dei e delle testimoni la continuazione della sua opera nel mondo. Fu quella parola che, come un seme donato alla terra con generosità, creò il vastissimo movimento di fede che trasformò per sempre il mondo.

La Riforma del XVI Secolo fu possibile grazie alla diffusione della parola scritta, la Bibbia tradotta nella lingua del popolo, ma anche la stampa e la diffusione delle idee, delle speranze, delle visioni di un futuro diverso.

A volte, come nella poesia, il linguaggio assume carattere creativo, altre volte tale carattere svanisce miseramente.

Oggi il linguaggio corre sul web, a volte in anonimato, e subdolamente offende fino a uccidere. Come droni lanciati da luoghi nascosti che fanno stragi anche a migliaia di chilometri di distanza.

Ci dobbiamo assumere la responsabilità delle nostre parole. Saranno riconosciute come parole autorevoli se corrisponderanno al nostro pensiero e al nostro agire. Saranno vuoto chiacchiericcio se usate per confondere.

Oggi la liberazione dal peso opprimente del patriarcato passa anche per il restituire alla parola la sua umanità e dignità.

Il linguaggio che include ad esempio il femminile e lo rende “visibile” è una riforma importante. Chi è nominato esiste, chi non è ricordato muore. La mascolinizzazione di ruoli e compiti è un venir meno a questo richiamo di verità. È un inchinarsi ai poteri di sempre anche se per puro caso si è donne potenti!

Dire “gli uomini” è parlare di altri, io non ci sono. Ci sono anch’io invece se si fa la fatica di dire: “Gli uomini e le donne”, “le pastore e i pastori” cominciando “dalle bambine e dai bambini”.

Il linguaggio è lo specchio di quel che siamo. Come dice il libro dei Proverbi (cap. 15) che per altri aspetti è molto patriarcale: «La parola dolce calma il furore (…). Uno prova gioia quando risponde bene; è buona la parola detta a suo tempo!». La dolcezza, la gioia e una parola buona al momento giusto! Una lezione e un programma.

Anna Maffei è pastora della Chiesa battista di Milano. Dal 2004 al 2010 è stata la prima presidente donna dell’Unione Cristiana Evangelica Battista d’Italia (UCEBI).

*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza 

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