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Congo: eppure la pace è possibile

Congo: eppure la pace è possibile

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 7 del 22/02/2025

Gli occhi dei congolesi percorrono il comunicato finale all’incontro di sabato 8 febbraio a Dar es Salaam dei capi di Stato della SADC (Africa Australe) e dell’EAC (Africa dell’est) sulla crisi congolese per vedere se la loro speranza di pace possa diventare realtà.

Esso chiede la cessazione immediata dei combattimenti, il ristabilimento dei servizi pubblici essenziali e delle vie di approvvigionamento, la ricerca di una soluzione pacifica del conflitto mediante l’unificazione dei processi di pace precedenti di Luanda e Nairobi.

Entro cinque giorni, i capi di Stato maggiore di questi Paesi devono riunirsi per instaurare un cessate il fuoco e la fine delle ostilità immediata e senza condizioni; mettere in atto un’adeguata assistenza umanitaria; riportare la sicurezza nella città di Goma e dintorni, riaprire le vie di approvvigionamento alimentare e l’aeroporto di Goma.

Si chiede di riprendere il dialogo, compreso col movimento M23, di mettere in atto misure per neutralizzare le FDLR (gruppo d’opposizione militare al regime ruandese, presente nell’est della Repubblica Democratica del Congo) e «sospendere le misure difensive del Rwanda e disimpegnare le forze dalla RD Congo». Le truppe non desiderate devono lasciare il Paese.

Il documento riafferma l’impegno a sostenere la RD Congo nella sua indipendenza, sovranità e integrità territoriale, evitando però di dare un nome agli attori della sua destabilizzazione, anche se fra le righe appaiono evidenti. Non prevede né scadenze né sanzioni eventuali. Basterà questa dichiarazione a riportare la pace?

Intanto la popolazione di Bukavu, all’estremo opposto del lago Kivu rispetto a Goma, si dà alle sue occupazioni con un orecchio alle notizie dal fronte, nella sfida di distinguere le vere e le false. L’arcivescovo, François-Xavier Maroy, ha invitato la popolazione a rimanere nelle proprie case, a non fuggire. Il fronte sembra a un centinaio di km dalla città. Ai sodati delle Forze armate congolesi e ai loro alleati (fra cui Burundesi e sudafricani) si oppone la coalizione composta dall’M23, dall’AFC (Alleanza Fleuve Congo, di Corneille Nangaa) e Ruanda, che sostiene la ribellione con mezzi militari e oltre quattromila soldati, come documentato da Rapporti Onu.

Mal pagati, mal equipaggiati, a volte vittime di una catena di comando dell’esercito ampiamente infiltrata nel corso degli anni da forze ruandesi, dei soldati congolesi o degli Wazalendo (giovani arruolatisi spontaneamente) allo sbando sulla strada che conduce da Goma a Bukavu, saccheggiano e arrivano a uccidere.

Si dice che siano stati arrestati, ma somiglia alla la situazione che si verificò nell’imminenza dell’attacco esterno del 1996, che fu l’inizio della cosiddetta guerra “di liberazione”. Seguì “la guerra di rettificazione” nel 1998-2003. I profughi ruandesi hutu morirono a centinaia di migliaia e i congolesi a milioni (sei milioni è la cifra più bassa). Come si chiamerà questa nuova guerra, iniziata nel novembre 2021? Il capofila congolese che ha raggiunto l’M23, Corneille Nangaa, dichiara di voler arrivare fino a Kinhasa, per rovesciare il regime di colui che proprio lui, nel 2019, come presidente della CENI, dichiarò vincente alle elezioni.

Come nel ’96, un gruppo armato interno dà un volto congolese a un’occupazione esterna che mira non tanto, sembra, a prendere il potere nella capitale Kinshasa, lontana 2.000 km in linea d’aria, quanto ad assestarlo nella zona est. A detta di vari osservatori, a costituire un “impero” la cui estensione includerebbe anche il Burundi e altri Paesi dell’Africa orientale.

L’obiettivo è l’espansione territoriale, l’installazione di popolazioni e una facilità maggiore di continuare il saccheggio dei minerali strategici di cui rigurgita l’est della RD Congo, approfittando della fragilità delle istituzioni congolesi, della venalità di molte sue autorità, del resto da tempo infiltrate da persone con interessi altrove.

Il Rwanda appare nei fatti capofila di un attacco a uno Stato sovrano mentre continua a negarlo. Discretamente camion e ambulanze riportano in patria ufficiali rwandesi morti in guerra nel Nord-Kivu, mentre molti militari semplici vengono sepolti in fosse comuni in Congo. Giovinezze decimate, famiglie che devono silenziare il proprio dolore.

Chi conterà i Congolesi morti dalla ripresa dei combattimenti, nel novembre 2021? Progressivamente l’M23 ha occupato le località di frontiera col Rwanda ed è avanzato. Campi sterminati attorno a Goma hanno accolto circa due milioni di sfollati, che ora sono stati costretti a rientrare nei loro villaggi. L’ONU ha documentato a più riprese la presenza del Rwanda fra gli aggressori, con armi spesso sofisticate e circa 4.000 uomini.

Con la violenza e la fame, il 27 gennaio la città di Goma è stata presa. Chi conterà le vittime? Le cifre ufficiali degli scorsi giorni parlavano di circa 1.900 morti sepolti in fosse comuni, di altri mille ancora da seppellire e di altri da recuperare nella prigione e nei dintorni dell’aeroporto: militari e civili, uomini donne e bambini.

Un sollievo al popolo congolese è stato dato dalla decisione presa il 7 febbraio dalla 37a sessione straordinaria del Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, riunito su richiesta del Congo: la creazione di una commissione che farà un rapporto completo sulle violazioni dei diritti umani all’est della RD Congo fra gennaio 2022 e la data di presentazione del rapporto. Il Consiglio non ha un potere effettivo, però la sua condanna dell’occupazione è altamente significativa.

Negli ultimi decenni, Goma è stata occupata altre quattro volte e poi lasciata. Sarà ancora così? Chi può mettere fine a questo violento processo di occupazione che fa del Nord-Kivu e dell’Ituri luoghi di guerra infinita? Non sembra siano in grado di farlo né l’esercito congolese né le truppe dei Paesi vicini che il Congo ha chiamato in soccorso.

Non sembra – ma spero di sbagliarmi – in grado di farlo la recente dichiarazione di Dar es Salaam. La condizione, ripetuta nei precedenti processi, è che il Congo elimini il pericolo costituito per il Rwanda dalle FDLR: sperse nella foresta, ridotte di numero e di forze, esse sono in realtà un pretesto per il regime di Kagame per giustificare il suo attacco.

Non sembra neppure in grado di farlo il popolo congolese da solo, che pure ha manifestato a più riprese, in patria e all’estero, con folle enormi in strada, il suo rifiuto della spartizione del Paese. Manca un leader che coalizzi e orienti la popolazione nel senso di un’azione collettiva e non violenta, con un’adeguata proposta alternativa. Chi potrebbe intervenire, non da estranea, ma come parte implicata, è l’Unione Europea. La quale finora ha fatto orecchio da mercante al grido del popolo congolese. Gli affari sono affari e il piccolo Rwanda è il piede a terra per l’approvvigionamento sicuro dei minerali per la rivoluzione verde di cui non dispone che in minima parte ma che trae illegalmente dal Congo.

Basti pensare ai 900 milioni di euro promessi nel quadro del Global Gateway, ai 40 milioni di euro dati negli ultimi due anni a sostegno delle missioni di pace del Ruanda in Mozambico, al protocollo d’accordo del 19 febbraio 2024 in vista della trasformazione ed esportazione “pulita” dei minerali strategici.

Sempre più numerose voci si levano, oltre che dalle autorità congolesi, da associazioni e da eurodeputati perché si annulli tale protocollo. Paesi come il Belgio, la Germania e i Paesi baltici lo stanno chiedendo. L’Italia non ancora, anzi l’anno scorso ha promesso al Rwanda 50 milioni di euro per la transizione climatica. Più di un terzo del bilancio ruandese viene da aiuti esteri: non sarebbe questa la leva finalmente efficace che renderebbe credibili le parole di condanna?

Intanto, la gente non ha come ricorso sicuro che la sua fede in Dio, con la certezza espressa dal canto del vescovo d’Uvira Joseph Muyengo: «No, il Congo non morrà: vivrà per magnificare le meraviglie di Dio!». Nelle comunità di base si danno consigli per la crisi: non fuggire, non rubare approfittando della confusione, non discriminare nessuno ricordando che tutti siamo a immagine di Dio. 

Teresina Caffi è missionaria saveriana

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