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Riarmo UE e tormenti Pd

Riarmo UE e tormenti Pd

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 13 del 05/04/2025

Che si richieda un chiarimento dopo la lacerante divisione prodottasi al Parlamento europeo nella delegazione del Partito democratico sul piano di riarmo Ue è opinione da tutti condivisa, dentro e fuori del partito. Si discute sul come, non sul se. A ben vedere, il dissenso che si è riversato nel voto era ed è di natura politica. Circa il merito del piano, dentro il partito, sui suoi limiti e sulle sue criticità si conveniva. Chi più chi meno. Rammento, al riguardo, le dichiarazioni dello stesso Lorenzo Guerini, ex ministro della Difesa del governo Draghi nonché esponente di rilievo della minoranza Pd. Dichiarazioni in verità molto simili a quelle dello stesso Romano Prodi, il quale, su Ursula von der Leyen, ha avuto parole severissime. Il medesimo scetticismo lo ha espresso Mario Draghi, spiegando che, senza debito comune, come fu per il Next generation Eu, il Libro bianco sulla difesa di Ursula è un libro dei sogni.

Ricapitolando le criticità: l’ambiguità tra aumento delle singole e distinte difese nazionali e quella comune Ue; il rapporto per nulla chiaro con la Nato tuttora operante; la straordinaria complessità e la conseguente lunga tempistica del processo di integrazione specie con riguardo alle sue basi industriali e commerciali (oggi per l’80 % tributarie degli Usa); l’attuale assenza del soggetto unitario cui intestare una reale difesa comune; le marcate differenze di “spazio fiscale” tra i vari Paesi di cui profittare nella deroga al patto di stabilità; il giusto rifiuto, di maggioranza e opposizione, nell’attingere al fondo di coesione. Con il macigno già posto dalla Germania di 500 miliardi stanziati per la sua difesa, anche grazie alla storica svolta in tema di tetto al debito fissato in Costituzione. In sintesi: la constatazione che il declamato piano di riarmo (lasciamo stare la disputa nominalista e un po’ ipocrita sul nome poco gradito, “riarmo” o “protezione” o “prontezza 30”, sic!) non è un piano ma, più modestamente, un titolo e un annuncio.

Del resto, solo qualche giorno dopo il suo via libera al Consiglio europeo del 5 marzo, con il “botto” degli 800 miliardi, Giorgia Meloni, alle Camere, ha fatto intendere tutte le sue riserve, accompagnandole con la bomba sporca della provocazione sul Manifesto di Ventotene. Anche perché incalzata dalla Lega a tutti gli effetti contraria. Di più: nel Consiglio Ue a seguire del 20 marzo, da governi e partiti di diversi colori, si sono levate obiezioni e resistenze sul punto decisivo delle risorse: «virtuali» Meloni dixit. Un vertice che si è chiuso con la «decisione» (?) di rinviare tutto.

Tornando al Pd, il motivo del contrasto dentro il partito è stato semmai tutto politico. Un primo ancorché inadeguato passo, si è detto da chi ha votato a favore, nella direzione giusta. Non a caso forse l'argomento sul quale più si è fatto leva è quello, appunto politico, dell'esigenza di non distinguersi dall'orientamento dominante della famiglia dei socialisti e democratici europei. Un argomento, lo riconosco. Ma, da sé solo, non risolutivo.

Chi conosce la materia sa che le famiglie politiche europee sono contenitori plurali e inclusivi, che l'appartenenza a essi non è chiara e univoca in termini identitari. Un solo esempio: il partito di Meloni, Fdi, che fa parte del gruppo dei Conservatori e riformisti, si è anch’esso diviso. Di più: esso si divise già nel voto di fiducia, ancor più impegnativo, a von der Leyen per il suo secondo mandato quale presidente della Commissione Ue. Senza nessuno scandalo.

Altra e più stringente è l'appartenenza di partito. Oggettivamente dovrebbe fare più problema la circostanza che mezza delegazione del Pd abbia votato contro la linea del partito. Giusta o sbagliata che fosse. Linea discussa nella direzione Pd e passata con voto unanime. Vero è che la più parte della minoranza "congressuale" se ne era uscita. Curioso però che, con tale precedente, ci si sia scandalizzati per un voto di astensione bollato come ignavia. Non è un mistero che Schlein aveva proposto l’astensione giusto per venire incontro per quanto possibile a chi era orientato sul sì. I critici della segretaria, interni ed esterni, e la legione affollata dei media a lei ostili (non solo quelli di destra) stigmatizzano o irridono la sua improba «fatica unitaria» (figlia di «testardaggine», come lei ama dire). Unità del partito, unità del "campo largo", unità del popolo europeista vasto, plurale e notoriamente diviso sulla specifica questione del piano di riarmo Ue che ha riempito piazza del Popolo.

Ma, domando, c'è un'altra strada rispetto a quella dell’unità salvo rassegnarsi a non provarci nemmeno a organizzare un'alternativa al governo più a destra della storia della Repubblica? Insisto: possiamo, a cuor leggero, mettere a verbale che un fronte comune tra le opposizioni sia per definizione impossibile? Più esplicitamente: su questi presupposti – salvo “eternizzare” la destra al governo – in prospettiva si darebbe una sola maggioranza frankenstein possibile, quella imperniata sull'asse FdiPD. Magari traguardando all’appuntamento dell’elezione al Quirinale. Dietro le quinte, qualcuno già comincia a fare calcoli. Una distorsione del modulo tedesco che scambia Meloni con una Popolare con cui fare la Grosse Koalition. È sostenibile? Fantapolitica?

Sarebbe sbagliato evocare i fantasmi del passato e tuttavia è un fatto che coloro che si sono smarcati dalla linea del Pd a suo tempo erano organici alla stagione renziana. Non è una colpa, ma qualcosa che innegabilmente ha a che fare con la visione del partito, con il suo profilo identitario e la sua gestione. Una stagione, si converrà, che si segnalava per una personalizzazione molto più spinta del partito (si coniò l’acronimo PdR, il partito di Renzi), in cui gli organi statutari spesso non erano neppure convocati. Luigi Zanda, all’epoca capogruppo al Senato, lo ricorda senz’altro. Oggi giustamente si chiedono confronti serrati, congressi, voti, fine dell’unanimismo di facciata.

È innegabile che Schlein abbia impresso al Pd un altro profilo e un altro posizionamento (da sinistra di governo) e che, diciamo così, esso sia stato premiato da un certo consenso. Dopo essere stato a un passo dall'estinzione. Di nuovo domando: è saggio inaugurare l'ennesima caccia al segretario? Una specialità della casa. Magari – assumiamola anche come ipotesi – profittando di un voto controverso e di una gestione non riuscita del dossier difesa europea. Per non esorcizzare un tema-tabù: sulla questione del candidato premier di un'alternativa, si prendano per buone e sincere, non rituali, le risposte della stessa Schlein. Lo si vedrà, non è questo il tempo, si sceglierà insieme il più idoneo e competitivo. Intanto si faccia lavorare chi sta facendo bene al partito. Per parafrasare i critici: un primo, essenziale passo nella direzione giusta. O vogliamo, in un mondo cambiato radicalmente, ricominciare da capo con il modulo di dieci anni fa – il partito dell’establishment e della Ztl, il partito (centrista) “della nazione”, anziché dell’alternativa – archiviato persino dal suo protagonista (Renzi, intendo)? Portando indietro l’orologio al tempo dal quale si era partiti per rifare lo stesso giro e gli stessi errori?

Sulla piazza per l’Europa di Michele Serra, il vecchio Achille Occhetto così si è espresso: «Ora c’è un “pogrom” nei confronti della leader Schlein. Ma se si toglie questo nucleo del 22% che difende la democrazia nel nostro paese allora devono dire che preferiscono la Meloni al governo per altri cento». 

Franco Monaco è già presidente dell’Azione Cattolica ambrosiana ai tempi del card. Martini, presidente dell’associazione “Città dell’uomo”, fondata da Giuseppe Lazzati, parlamentare del Partito Democratico, già membro della Commissione Esteri della Camera e della delegazione parlamentare Osce

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