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Prima di Dio

Prima di Dio

Cari amici,

dopo le prime esternazioni e l’inizio solenne del nuovo “ministero petrino”, si può azzardare un’ipotesi o forse un’intuizione sul futuro pontificato, ed è questa: che il confronto tra papa Francesco e papa Leone non vada fatto tra le due persone, in ciò che abbiano di simile o di diverso: in realtà sono simili in tutto, ambedue sono “grandi persone”, ambedue amati dalle folle, ambedue sono migranti d’origine, come del resto lo siamo tutti tra l’Europa e l’America e sempre più lo saremo, ambedue sono uomini non di potere ma di servizio, entrambi sono modelli di santità, sono “due cristiani sul trono di Pietro”, come si disse, rapiti, di papa Giovanni per esprimerne la novità.

Le differenze però ci sono, e sono profonde, e non riguardano le persone, ma sono differenze di mondi, di identità sociali, di orizzonti filosofici e teologici, differenze che segnalano un passaggio di fasi storiche e addirittura di epoche (non siamo in un’epoca di cambiamento, diceva papa Francesco, ma a un cambiamento d’epoca).

Si può alludere ad alcune di queste differenze che si sono potute cogliere in queste prime descrizioni di sé e del suo pontificato che ha fatto Leone. E anzitutto “Leone”, due nomi, Leone e Francesco, che per un pontificato del XXI secolo non potevano essere più distanti. E in secondo luogo un maggiore distacco, una più netta distinzione (disambiguazione) tra Chiesa e mondo, tra fede e storia, tra umanità e popolo di Dio: per Francesco si trattava di abbracciare “todos, todos”, per Leone si tratta di “guardare lontano”, per andare incontro alle inquietudini e alle sfide del mondo d’oggi; per Francesco era farsi servo a musulmani, a indù, a non credenti, lavando piedi siriani, nigeriani, pakistani; per Leone è farsi “servo della fede e della gioia” dei credenti della sua Chiesa; da Francesco l’Europa era accettata nella sua identità, non più confessionale, ma memore dei suoi ideali e delle sue “radici cristiane”, che il cristianesimo «aveva il dovere di annaffiare, ma in uno spirito di servizio come per la lavanda dei piedi, ossia il servizio e il dono della vita» (intervista a La Croix); per Leone si tratta di «pescare l’umanità per salvarla dalle acque del male e della morte»; per papa Francesco la Chiesa viveva nel turbine della storia, ospedale da campo, proiettata a Lampedusa e a Gaza; per Leone è una Chiesa che apre le braccia al mondo e si lascia “inquietare” dalla storia, invocando come è d’obbligo la pace disarmata e disarmante a cominciare da Gaza e dall’Ucraina: una cura ma anche una diversa percezione del dramma del tempo; per Francesco Dio arriva per primo, “primerea”, noi siamo anticipati da Dio, prima ancora del nostro peccato, della nostra preghiera, per questo egli immaginava che l’inferno fosse vuoto, anche se diceva: «chi sono io, per giudicare?»; per Leone noi siamo “chiamati col nostro Battesimo a costruire l’edificio di Dio”.

Accenti carismi e doni diversi, ma una sola cosa in Cristo, per dirla con sant’Agostino e col motto episcopale di papa Leone, «in illo uno, unum».

Allora è bene trovare le fonti di queste identità e differenze. Non è affatto da ignorare quanto siano diversi i due mondi che dei due papi sono la vera origine: l’America del Sud, ribollente nella sua miseria e nelle sue culture native, nel suo cristianesimo sfidato dalle ruvide teologie della Liberazione, e gli Stati Uniti, cresciuti in una relativa ricchezza, costruiti ex novo da coloni portatori di sperimentate culture e di un cristianesimo messianico traboccante di divino, tesoro in uscita grazie ai buoni uffici del presidenti americani pro tempore, piangenti «sulla spalla di Dio» (come Bush) o salvati da lui (come Trump).

E non è da ignorare la diversità tra Gesuiti e Agostiniani, e le due età che essi idealmente rappresentano. Agostino sta all’inizio di un cristianesimo legittimato dall’Impero, ha 31 anni quando Teodosio emana i decreti per l’interdizione del paganesimo e quando con il Concilio di Costantinopoli si perfeziona la struttura teologica della fede cristica e trinitaria; è al tempo di Agostino l’incipit del regime costantiniano o di cristianità, che finirà solo col Concilio Vaticano II; è al tempo di Agostino che la rovina del vecchio mondo umano mostra in tutta la sua luce le meraviglie dell’agognata agostiniana città di Dio. Dunque siamo a un inizio.

Non così con Ignazio e la Compagnia di Gesù, che arrivano mille anni dopo già come testimoni di una fine, fine dell’unità cristiana, per le guerre tra i prìncipi cristiani, fine dell’unità della Chiesa per l’irrompere della riforma protestante, fine della libertà dalla legge, per l’imperversare dell’Inquisizione, e un Dio già consumato che il Concilio di Trento tende a restaurare: ciò a cui i Gesuiti rispondono senza rete con la missione a convertire i popoli più lontani, con l’investirsi della responsabilità del mondo, con l’obbedienza al papa fino all’estremo; e questo arriva fino a noi, a questa nostra epoca che si potrebbe dire della cultura e forse dell’antropologia della fine: le lancette dell’orologio spostate dai fisici fino a pochi secondi prima dell’ecatombe nucleare, la fine annunciata per la crisi del clima e il dissesto ecologico, la fine dell’unità umana dilacerata dalla cultura dello scarto, e la guerra mondiale a pezzi, l’antisemitismo suicida di Israele, il genocidio in corso. Tutto ciò è stato preso in mano dal papa gesuita, annunciando un Dio che è solo misericordia, denunciando la guerra come perenne sconfitta, intonando la lode francescana del creato, promulgando il “Fratelli tutti” che rimette alla sapienza divina anche l’irenismo della pluralità delle religioni. Una teologia escatologica che si contrappone alla cultura di un mondo che getta ormai alle sue spalle anche l’ipotesi Dio, che pur la modernità non aveva escluso, fino a che anche credenti si dicono post-teisti, Dio come figura del passato, il mondo del “dopo Dio”.

Ed è qui che si profila il rovesciamento. Un papato che apre a un nuovo inizio, che invita a non restare nella sindrome della fine. Non un dopo Dio, ma un prima di Dio, un Dio che di nuovo è atteso, Non è questo il cristianesimo? Un argine alla fine, un “katekon”, preludio a un nuovo avvento, a una seconda venuta di Cristo che torna, comunque lo si possa pensare, e si chiede se troverà ancora la fede sulla terra. Ebbene essa c’è ancora, quale si è vista nello straordinario evento di partecipazione popolare di massa al dolore per la morte di Francesco e alla gioia per l’elezione di Leone; essa fa risuonare quella oscura predizione che “solo un Dio ci può salvare” che ci hanno lasciato interpreti della modernità come da ultimo Claudio Napoleoni che aveva «cominciato a pensare» che con le risorse allora disponibili non ce la facessimo a fare la pace sulla terra e ad avere la meglio sulla tecnica; c’è un’epoca nuova che forse comincia, non più quella della fine, dopo Dio, ma di un tempo nuovo prima di Dio, in attesa di Lui.

E allora forse acquista ancora più significato quel “prima loro” che è di questo sito: perché se un genocida o un guerriero si sbaglia sulla volontà di Dio, comunque i poveri, le vittime, i dispersi della vita, i nemici, sono da mettere, come dice il Vangelo, prima di Lui.

Nel sito pubblichiamo un articolo di Roberta de Monticelli, “Agostiniano senza mezze verità”, e il discorso di papa Leone nella Messa d’inizio del pontificato.

Con i più cordiali saluti,

da “Prima Loro” (Raniero La Valle).

 

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