
Laicato: se la passività non è più una virtù
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 21 del 31/05/2025
Se dovessi sintetizzare all’estremo che cosa il sinodo può significare per i/le fedeli laici/che, direi che esso può essere determinante in ordine alla partecipazione dei/lle credenti alle decisioni e alla vita della Chiesa. Per provare a rendere l’idea della portata di quanto appena detto, potremmo fare il confronto con la riforma liturgica dell’ultimo Concilio. Prima di questo momento la liturgia era qualcosa cui si assisteva senza comprendere e intrattenendosi con devozioni più o meno opportune mentre il presbitero compiva qualcosa di suo che misteriosamente doveva fare del bene ad altri che diventavano meri destinatari di questi benefici al di là di ogni consapevolezza o azione.
Dopo il Vaticano II invece si ha una riforma liturgica il cui cuore vuole essere la partecipazione non solo attiva ma operosa di tutti ai gesti liturgici. Oggi sappiamo che la liturgia è un atto del popolo (questo è proprio il senso etimologico del termine), sappiamo che la consapevolezza di ciò che celebriamo è essenziale per ricevere il dono che nella celebrazione stessa si esprime: ascoltiamo, rispondiamo, cantiamo, mangiamo e tutto questo rende presenti per noi i misteri della salvezza. Ciò che prima ci era estraneo e ci veniva detto portarci benefici inqualche modo, ora ci è familiare e ci provoca a fare un’esperienza concreta dei misteri celebrati perché la nostra vita ne venga trasfigurata.
Partiamo da questa rivoluzione per comprendere che cosa il Sinodo possa significare per i laici e laiche nella Chiesa, perché di fatto esso rappresenta il tentativo di attuare quella piena appartenenza ecclesiale e quella corresponsabilità che consegue dal pensare la Chiesa come il popolo di Dio, categoria fondamentale scelta dal concilio proprio per parlare della Chiesa.
La forma di Chiesa che abbiamo ereditato, infatti, è radicalmente verticistica, in essa non solo le decisioni spettano esclusivamente a chi sta in alto, ma a questi viene riconosciuta anche un’appartenenza ecclesiale più piena e significativa, da cui gli altri (la stragrande maggioranza posta più in basso, secondo questo schema) possono solo ricevere senza offrire se non obbedienza e rispetto. In questo modello di Chiesa la passività diventa una virtù, la formazione del tutto secondaria, la passione per la vita della Chiesa non richiesta: in fondo tocca agli specialisti del mestiere (cioè a preti, vescovi e religiosi) occuparsi delle cose di Dio, realizzare la missione della Chiesa e farsi santi.
Sappiamo bene come l’ultimo concilio abbia radicalmente sconvolto questa impostazione: la riaffermazione forte della chiamata alla santità e alla perfezione della carità per ogni credente, la piena appartenenza ecclesiale data dal battesimo, il doveroso riconoscimento dei carismi così largamente diffusi, la partecipazione di tutti alla missione della Chiesa che (fondamentale) non solo non deve ma non può essere portata avanti solo dai ministri ordinati, la si gnificatività specifica per la chiesa dei credenti laici/che.
Fino ai più recenti sinodi però, fino a quando cioè papa Francesco non ha continuato il processo iniziato da Paolo VI dopo il concilio trasformando il sinodo dei vescovi (istituito appunto da Paolo VI) in un organo più ampio di confronto e di discernimento ecclesiale, quanto insegnato dal Vaticano II si era iniziato ad attuare in molti ambiti ma non in quello della partecipazione alle decisioni e alla parola autorevole. La liturgia, come abbiamo detto, era stata riconosciuta come atto del popolo e anche la missione della Chiesa era stata riconosciuta come compito in cui tutti devono essere impegnati, la santità stessa veniva insegnata come un percorso ordinario di vita cristiana, ma la guida della Chiesa, le decisioni, le parole autorevoli, continuavano a essere realtà da cui i laici e le laiche erano completamente esautorati.
Tutto questo crea diversi tipi di problemi: dalla disaffezione alla vita della chiesa da parte di chi sente l’impossibilità di dare il proprio contributo attivo, alla contraddizione di chiedere ai laici una formazione che poi non possono spendere perché non viene più ritenuta significativa nel momento in cui si deve decidere o prendere parola, fino all’affaticamento della chiesa intera bisognosa di nutrirsi dell’esperienza di tutti i suoi membri e incapace di farlo perché la maggior parte di loro non può offrire il proprio pensiero e la propria esperienza. A questo poi si aggiunge che la sensibilità democratica e la scoperta del valore della democrazia, predicato con forza dalla Chiesa, vengono del tutto frustrati proprio all’interno della comunità cristiana.
Il sinodo si colloca in questo contesto come un’esperienza concreta che può invertire la rotta e realizzare la Chiesa di popolo insegnata dal Concilio, oltre che nel celebrare e nell’agire missionario in tutte le sue sfaccettature, anche nelle strutture e nelle procedure che portano alle decisioni e alla formulazione della parola autorevole.
Finalmente si concretizza un luogo in cui si può dire ciò che si vive e ciò che si ritiene importante per la vita della Chiesa. Un luogo dove tutto questo può mettersi a confronto con ciò che altri e altre vivono e ritengono importante. Un luogo dove illuminarsi reciprocamente, dove far emergere le differenze e i conflitti per cercare di comprendere quali siano arricchenti e motivo di crescita e quali vadano risolti nell’incontro e nella comprensione. Finalmente si concretizza uno spazio dove i laici e le laiche possono esprimere il proprio disagio, ma anche le proprie soddisfazioni e dove i propri doni possono essere messi a disposizione di tutti. Inoltre nel sinodo occorre raggiungere un consenso, quindi ogni partecipante deve essere coinvolto nel processo di raggiungimento di questo consenso: non basta che sia presente, va convinto, bisogna fare i conti con le sue idee e le sue precomprensioni, la formazione diventa fondamentale, ciascuno diventa partecipe della decisione presa e tutti entrano nel gioco (e nel rischio) di incontrarsi non sapendo quali delle proprie idee resteranno le stesse o quali posizioni alla fine li convinceranno. Il sinodo è così per tutti un luogo di ascolto, conversione, espressione di sé, attiva partecipazione.
Se questo è vero per tutti, per le fedeli laiche questo è vero all’ennesima potenza. Le donne infatti, in qualsiasi comunità più numerose e più attive, ma anche più disposte a formarsi (basta vedere in Italia quanto è superiore il numero delle teologhe laiche o delle studentesse laiche di teologia o scienze religiose rispetto ai teologi o agli studenti laici maschi) e a prendersi impegni onerosi, non avevano alcuna possibilità di uscire dalla condizione di passività in cui il laicato veniva relegato precedentemente. Certo, si dirà che questo valeva anche per i laici maschi, ma è anche vero che a molti di quelli che avevano desiderio di partecipare più attivamente e servire la Chiesa è stata proposta la via del diaconato, che, seppure ancora faticosamente inserito e compreso, permette comunque una partecipazione più attiva ai vissuti ecclesiali. Per le donne non c’era nessuna possibilità, alla quale si deve aggiungere la simbologia ecclesiale nella quale la Chiesa è sempre rappresentata solo da maschi, presieduta sempre e solo da maschi che sono anche i soli ad avere parola autorevole. È facile in questo contesto interiorizzare che non si è adeguate a prendere parola, a partecipare o ad avere un ruolo pubblico, proprio in quanto donne.
Il sinodo, così come è stato interpretato ultimamente, interrompe questo flusso di squilibri o per lo meno lo mette in crisi. Non risolve tutto, può anche venire utilizzato in modo da conservare la forma precedente di Chiesa aggiungendo a essa una specie di tocco decorativo individuato nell’ascolto, come se si potesse essere corresponsabili di una realtà di cui si è membra vive perché l’unico membro veramente significativo si degna di farci parlare. Il rischio di interpretazioni edulcorate o controproducenti è reale, come è reale il rischio di far naufragare le esperienze nella delusione del nulla di fatto, ma resta comunque il cammino avviato.
Anche le nostre celebrazioni sono spesso stanche e poco partecipi, non mancano certo modalità di presidenza che lasciano trapelare l’idea che l’assemblea sia del tutto accessoria, ma questo non toglie la realtà di una liturgia mutata e di un protagonismo del tutto nuovo di chiunque si apra un po’ alla comprensione dei riti. I fatti sono fatti, segnano la storia e possono cambiarne la rotta. Il sinodo può essere una pietra miliare nella realizzazione della Chiesa delineata dal Vaticano II. Non è detto che sia così, il processo si può frenare, ma la possibilità c’è ed è responsabilità di tutti realizzarla.
Simona Segoloni è docente al Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II per le Scienze del Matrimonio e della Famiglia. Esperta di Ecclesiologia (con particolare attenzione alla sinodalità, alla questione femminile e alla famiglia), Mariologia, Studi di genere e Teologia, Teologia femminista.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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