
Più forte ti scriverò. Caro Moro...
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 36 del 18/10/2025
Caro Moro, c’è una foto che ti ritrae sulla spiaggia con una delle tue figlie, piccola. Sulla spiaggia sei vestito in giacca e cravatta e i pantaloni con la piega. Qualcuno dirà che è nello spirito del tempo (fine anni ‘50, primi anni ‘60) c’è un gusto molto democristiano e moralista. Io amo invece pensare, oggi, che esprima la relazione tra pubblico e privato. Essere se stessi nelle cose più intime e in quelle più pubbliche. Insomma a me pare che il tuo vestito fosse quello dell’imperativo etico che ci chiede di non tradire mai la nostra anima. Negli anni ’70 molti giovani avevano appeso alla parete della camera il ritratto del “Che”: un miscuglio tra lotta marxista e utopia evangelica. Nessuno si sarebbe messo in camera il tuo ritratto, Moro. Seppure fossi un padre costituente, con quel tuo modo flemmatico di parlare e i ragionamenti un po’ bizantini sembravi già il passato remoto. Poi succede che un giorno di marzo ti rapiscono mentre stai andando in Parlamento. Sterminano la tua scorta e ti portano via senza un graffio, come un soprammobile di porcellana. Ci fanno credere per anni che i brigatisti, esperti di fotocopie e ciclostile, siano stati dei chirurghi perfetti delle pistole. Non che i servizi segreti e i massimi tiratori scelti ti abbiano preso senza una goccia di sangue, come un pezzo di puzzle rimasto al di là della tua sagoma, incredibilmente perfetto.
E succede allora un capovolgimento impensato: sei tu il grande accusatore del sistema, più dei tuoi carcerieri. Con le tue lettere, ogni giorno scoperchi l’ipocrisia della politica, gli sporchi giochi internazionali, i legami occulti tra mafia e potere. Diventi in mano ai “sovversivi” il più sovversivo di tutti. Più sovversivo di loro, imprigionati come sono dalla loro miope ideologia. Gli uomini delle Brigate Rosse in compagnia di infiltrati che ti hanno venduto per trenta denari al comando americano.
E così non smetti di fare la cosa più bella che ti piaceva fare: insegnare. I tuoi studenti e le tue studentesse ti ricordano come il prof appassionato, attento. Rimane una tesi di laurea sull’asfalto insieme alla tua scorta trucidata. Un malloppo di fogli usciti dalla tua borsa, sottolineati con cura a matita. Noi adolescenti di allora in quella mattina di marzo siamo spediti a casa da scuola e c’è un odore acre, nell’aria, di colpo di Stato. Rimbalzi sullo schermo in quei 50 giorni di prigionia. La tua camicia sbottonata e la flanella che spunta di sotto come uno comune tra i mortali. E dal piccolo spazio in cui sei rinchiuso non smetti la tua lectio magistralis e parli come un antico profeta del sangue che ricade sui figli degli ingiusti che ti lasciano solo al tuo destino. Non di chi ti ha rapito ma di chi ti ha tradito e invoca l'implacabile forza dello Stato. Poi riappari rannicchiato come un neonato nel grembo della madre. Sotto una coperta in una Renault rossa come uno schizzo di sangue nelle nostre case. La barba incolta. Hai il cappotto buono, sotto il quale si intravede il tuo vestito, come sulla spiaggia, come in Parlamento.
Te stesso fino in fondo nell’ombra della morte. Ti sei liberato del tuo pudore cattolico e distribuisci baci e carezze in un eros rivoluzionato, degno dell’altezza del Vangelo.
Mio padre non mette mai il vestito buono se non la domenica. È un operaio di sinistra e lotta nel sindacato. Ha ritagliato come una reliquia la tua stretta di mano con Berlinguer: le prove generali di un compromesso storico che resterà anche lui nel baule di una Renault rossa, il 9 maggio 1978.
Quel giorno mio papà piange disarmato davanti alla Tv e io mi sento trafitto dalla più pura, lacerante passione. Metterò vicino al ritratto del “Che”, nella mia camera, un ritaglio di giornale: il tuo corpo steso nel baule, deposto dalla croce.
Mentre sento la rivoluzione che mi è nata dentro, spengo la luce: “Buonanotte, Moro”.
*Foto presa da Unsplash, immagine originale e licenza
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