IL SOAVE RICHIAMO DELLA VITA
Tratto da: Adista Contesti n° 28 del 08/04/2006
A DIECI ANNI DALL’ASSASSINIO, IN ALGERIA, DEI SETTE MONACI CISTERCENSI, IL MONASTERO DI TIBHIRINE ATTENDE DI RICOMINCIARE A VIVERE.
QUESTO ARTICOLO, DI DOMINIQUE QUINIO, È APPARSO SUL QUOTIDIANO CATTOLICO FRANCESE “LA CROIX” (24/03/2006). È STATO SCRITTO NELL’AMBITO DI UN VIAGGIO IN ALGERIA ORGANIZZATO LO SCORSO NOVEMBRE DAL QUOTIDIANO, SULLE TRACCE DEI MONACI DI TIBHIRINE, DI P. CHARLES DE FOUCAULD E DI SANT’AGOSTINO.
TITOLO ORIGINALE: “TIBHIRINE ATTEND LA RELÈVE”
Prima di attraversare il muro di cinta ed entrare nel monastero di Tibhirine, bisogna prendersi il tempo di girarsi di spalle. Occorre lasciare che il proprio sguardo cerchi l’orizzonte azzurrino, attardarsi sulla bellezza del vasto altopiano orlato dai contrafforti dell’Atlante, in questa regione di Medea che non ci si riesce ad immaginare come luogo per eccellenza del terrorismo fondamentalista islamico. Per meritare questo tempo di contemplazione, occorre, una volta usciti dalla piana di Mitidja, aver superato le gole della Chifa e raggiunto gli altipiani favorevoli alla coltura della vite e degli alberi da frutto. Occorre che vi sia stato indicato l’albero presso il quale furono ritrovate le teste dei monaci assassinati…
L’aria, in questo mese di novembre, è viva e tonica. Si immagina senza fatica che le primavere qui siano dolci e profumate. Il monastero di Tibhirine, a un centinaio di chilometri da Algeri, si apre su questi ampi spazi e, una volta varcato il portale, si attorciglia intorno al suo cuore di preghiera e di memoria dolorosa.
Prima di essere monastero cistercense, fu un fondo agricolo e viticolo. Di questa storia rimane una bella casa padronale affiancata da due solide torri, edifici attigui alti ed austeri, mura bionde e giardini interni ai quali si accede con qualche scalino. Troppo grande, senza dubbio, troppo pesante, troppo patrizio, per una comunità che non è mai stata, dall’insediamento dei cistercensi nel 1938, molto numerosa.
Essendosi considerevolmente ridotta la comunità cristiana, si decise persino, prima dell’indi-pendenza algerina, di chiudere il priorato. Ma la decisione non venne mai messa in pratica e Tibhirine, nel 1984, diventa monastero autonomo, luogo di preghiera e di dialogo. Fino alla morte dei sette monaci trappisti, dieci anni fa… Vi si respira oggi la pace dei lavori ordinari. E l’attesa. Come immaginare, qui, una notte, l’irruzione del terrore? Come accettare che il luogo non viva più ?
Bisogna guardare al futuro
Coloro che vi guidano nella visita non si attardano sulle ore più oscure, nemmeno quando si tratta di uno degli scampati, risparmiato perché, forse, una porta è rimasta chiusa al momento giusto o perché, per i rapitori, il numero dei monaci da portar via andava bene. Nessun eccesso di emozione, né di sentimenti: bisogna guardare al futuro e nutrirsi, per costruirlo, dei messaggi che i monaci di Tibhirine, al di là della loro morte, hanno inviato ai credenti d’Algeria e di altrove.
Le celle, modeste, polverose, con il loro letto sommario e il loro tavolo-scrivania, dicono la semplicità e la frugalità della vita monastica. Appesa ad una porta da non si sa quanto, una cocolla evoca questi visi e questi profili che si è imparato a conoscere, dopo, sulle fotografie. La biblioteca, le cucine, il refettorio, tutto sembra vuoto, troppo grande, desolato…
All’estremità del chiostro, la cappella invece vive. In questo locale dove, nei tempi antichi, erano immagazzinati i tini del vino, palpita il ricordo delle preghiere che vi furono cantate giorno dopo giorno e quella che i visitatori, quel giorno, pronunciano intorno a p. Thierry Becker. Come vivono, paradossalmente, proprio in fondo al giardino, le lastre di pietra sulle quali sono incisi i nomi dei setti martiti dell’Atlante. Tra i cipressi cullati dal silenzio, Christian, Luc, Christophe, Michel, Bruno, Célestin e Paul riposano nella terra che hanno tanto amato.
Ribât-Es-Salam, “il vincolo della pace”
La vita, ancora, testarda resiste. P. Jean-Marie Lassausse, prete della Missione di Francia, diverse volte alla settimana sale da Algeri per controllare con gli operai agricoli algerini la coltura dei campi e dei frutteti annessi al fondo, in basso rispetto agli edifici. Così loro possono vendere i loro prodotti ortofrutticoli al mercato di Medea e fornire di legumi freschi la cantina della scuola vicina.
E poi, in quella che era la casa del guardiano, intorno a sr. Simone, una suora Bianca, le ragazze del villaggio preparano dolci di frutta e marmellate; in un’altra sala, giovani donne imparano a ricamare - fili d’oro, fili viola - piccoli sacchetti di lavanda che saranno venduti ai pellegrini e ai visitatori (che però sono pochi). L’atelier, aiutato dalla Caritas d’Algeria, offre loro una piccola attività e un’entrata ben accetta. Le candidate sono molte.
Altri Fratelli verranno a Tibhirine a dare il cambio, a rinnovare la catena interrotta dalla violenza del terrorismo fondamentalista islamico, a mescolare la loro preghiera a quella dei musulmani vicini che avevano preso l’abitudine di farsi curare da p. Luc, il medico, di utilizzare le sale della casa del guardiano per insegnare il Corano ai bambini? Ribât-El-Salam, “il vincolo della pace”, è questo il nome del movimento di amicizia tra cristiani e musulmani i cui membri si ritrovavano a Tibhirine. Questo “vincolo della pace”, questo “segno sulla montagna” che Tibhirine voleva essere, gli abitanti del villaggio che vengono a salutare i visitatori di una giornata sperano anch’essi di vederlo rinascere.
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