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ELOGIO DEL FALLIMENTO

Tratto da: Adista Contesti n° 64 del 16/09/2006

L’INSUCCESSO DI ISRAELE CONTRO HEZBOLLAH PUÒ PRODURRE CAMBIAMENTI POSITIVI NELLA POLITICA DI TEL AVIV VERSO I VICINI.

QUESTO ARTICOLO DI GIDEON LEVY

È STATO PUBBLICATO

SUL QUOTIDIANO ISRAELIANO “HAARETZ”

(19/08/2006).

TITOLO ORIGINALE: “TO FAILURE’S CREDIT”

La cattiva (e prevedibile) notizia è che Israele esce da questa guerra con un insuccesso. La buona (e sorprendente) notizia è che un fallimento così netto potrebbe portare conseguenze positive. Se Israele avesse vinto la battaglia nella maniera facile e decisiva che tutti gli israeliani auspicavano, la conseguenza sarebbe stata un enorme danno per le politiche di sicurezza israeliane. Un’altra vittoria per ko ci avrebbe portato al disastro. Drogati di potere, ebbri di vittoria, saremmo stati tentati di trasferire il nostro successo in altri territori. Un incendio pericoloso avrebbe minacciato l’intera regione e nessuno sa cosa ne sarebbe potuto venire fuori.

Invece, il fallimento in questa piccola guerra potrebbe insegnarci una lezione importante per il futuro e forse ci influenzerà fino a farci cambiare i modi e il linguaggio – fatto di forza e violenza – con cui parliamo ai nostri vicini. L’assioma che “Israele non si può permettere una sconfitta sul campo di battaglia” si è rivelato nient’altro che un cliché privo di senso: il fallimento non solo potrebbe aiutare molto gli israeliani ma, per di più, potrebbe insegnare agli americani l’importante lezione che non vale la pena spingere gli israeliani in avventure militari.

A partire dalla guerra del 1948, Israele da solo ha conquistato solamente una vittoria schiacciante, quella nella Guerra dei Sei Giorni. Non si può immaginare una vittoria più facile e più dolce. Il “potenziale deterrente” di Israele era stato ricostruito in una maniera così decisiva che teoricamente avrebbe dovuto assicurare sicurezza ad Israele per molti anni. E cosa è successo? Passarono solo sei anni e venne il momento della guerra più difficile della storia di Israele, quella dello Yom Kippur. Alla faccia della deterrenza. Al contrario, la sconfitta del 1967 spinse gli eserciti arabi a cercare di rivendicare il loro onore perduto e ci riuscirono in un tempo molto breve. Contro un Israele arrogante e compiacente, che si godeva i frutti avvelenati di una vittoria da far girare la testa, gli eserciti siriani ed egiziani riuscirono ad ottenere risultati significativi, e Israele comprese i limiti del suo potere. Forse, ora, anche questa guerra ci porterà di nuovo alla realtà, dove la forza militare è solo forza militare, e da sola non basta. Dopo tutto, non facciamo altro che raggiungere “vittorie” e “risultati” contro i palestinesi. E cosa ce ne viene? Deterrenza? I palestinesi forse hanno abbandonato il loro sogno di diventare un popolo libero nel loro Paese?

Il fallimento dell’Idf (l’esercito israeliano, ndr) contro Hezbollah non è fatale. Israele ha ucciso e ha subìto perdite, ma la sua esistenza o il suo territorio non sono stati in pericolo nemmeno per un momento. La nostra frase preferita, “una guerra per la sopravvivenza”, non è nient’altro che un’altra espressione del ridicolo pathos di questa guerra, che sin dall’inizio è stata una maledetta guerra di nostra responsabilità. Hezbollah non ha conquistato territorio israeliano e la sconfitta è accettabile anche se avrebbe potuto essere facilmente evitata se non ci fossimo gettati nella nostra folle avventura libanese. Non è difficile immaginare cosa sarebbe successo se Hezbollah fosse stato sconfitto in pochi giorni, come promesso all’inizio dalle spacconate dei capi dell’Idf. Il successo ci avrebbe dato alla testa. Gli Stati Uniti ci avrebbero spinto ad un confronto militare con la Siria e, ebbri di vittoria, noi ci saremmo anche potuti cascare. Poi sarebbe stato il turno dell’Iran. Allo stesso tempo avremmo fatto i conti con i palestinesi: visto che era andata così bene in Libano, ci saremmo convinti che sarebbe stato facile ripeterci anche a Jenin e a Rafah. Il risultato sarebbe stato un tentativo di risolvere alla radice il problema palestinese, colpendo, demolendo, bombardando e sparando.

Forse adesso tutto ciò non accadrà perché abbiamo toccato con mano che il potere dell’Idf è molto più limitato di quanto pensassimo e ci venisse raccontato. La nostra capacità deterrente ora potrebbe lavorare in direzione opposta. Israele, si spera, ci penserà due volte prima di gettarsi in un’altra pericolosa avventura militare. Questa è una notizia confortante. D’altra parte, è vero che c’è il rischio che l’Idf cercherà di riacquistare l’onore perduto a spese dei palestinesi indifesi: non ha funzionato a Bint Jbeil, così gliela faremo vedere a Nablus.

Però, se ci convinceremo che ciò che non si ottiene con la forza non verrà ottenuto usando più forza, allora questa guerra potrebbe portarci al tavolo dei negoziati. Bruciati dal fallimento, forse l’Idf sarà meno impaziente di correre in battaglia. È possibile che l’apparato politico capirà che la risposta ai pericoli di Israele non potrà venire dall’uso di una forza sempre più grande; che la vera risposta alle richieste legittime e giuste dei palestinesi non verrà da altre operazioni militari ma dal rispetto dei loro diritti; che la vera risposta alla minaccia siriana sarà ridare le alture del Golan ai loro legittimi proprietari, senza temporeggiare; e che la risposta al pericolo iraniano si trova nel lenire l’odio che il mondo arabo e musulmano nutre verso di noi.

Se davvero questa guerra finirà come sta finendo ora, forse gli israeliani si chiederanno per che cosa uccidono e per che cosa vengono uccisi, per cosa colpiscono e per che cosa sono colpiti, e forse capiranno che ancora una volta è stato tutto per niente. Forse il risultato di questa guerra sarà che il fallimento lascerà una ferita profonda nella coscienza e che Israele cercherà una nuova strada, meno violenta e meno arrogante, grazie a questo fallimento. Nel 1967, Ephraim Kishon scrisse: “scusateci di aver vinto”. Questa volta si può quasi dire “meno male che non abbiamo vinto”.

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