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RENDERE OGGI RAGIONE DELLA SPERANZA

Tratto da: Adista Documenti n° 66 del 23/09/2006

Lievito dentro la storia e le culture, a partire dall'essere "riserva di vita" in quanto "riserva di ulteriorità". È la dinamica storica della fede incarnata, baluardo della "dignità della persona umana, intesa in senso integrale". Dignità "non negoziabile" e che costituisce "termine di riferimento" nella "corretta accezione del pluralismo", che consiste nel "cercare le soluzioni meno lontane dal valore della dignità della persona umana". E l'"evangelizzazione delle culture" richiede "mitezza e rispetto", che "non sono soltanto tecniche di comunicazione", ma "costituiscono la premessa per la stessa inculturazione della fede e dunque per poter trovare il corretto rapporto tra le tensioni culturali ed esistenziali del nostro tempo (tra natura e cultura, tra libertà e responsabilità, tra pluralismo e relativismo)". I credenti sono "tentati di vedere nella loro fede soltanto o esclusivamente un'identità storico-culturale", ma "nuove sintesi tra fede e storia, tra Vangelo e cultura" passano "non attraverso la creazione di blocchi difensivi di "civiltà", ma attraverso "profonde inculturazioni con la post-modernità di una fede fermento e lievito e di una Chiesa sempre meno ‘istituzione' e sempre più comunione del popolo di Dio". La Chiesa capace di "fiducia reciproca" e di "corresponsabilità" nel testo di Renato Balduzzi, ordinario di Diritto Costituzionale nell'Università di Genova, presidente nazionale del Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale).

Una riserva di ulterioritàLa Chiesa italiana va a Verona per il IV Convegno ecclesiale avendo preso come guida e ispirazione il testo della prima lettera dell'apostolo Pietro, interpretato, secondo il documento preparatorio, attraverso quel singolare documento dei primi tempi della cristianità che va sotto il nome di A Diogneto (niente di completamente nuovo, già nei documenti conciliari troviamo tale approccio).

A ben vedere, non si tratta di scelte prive di conseguenze.

Siamo in un momento nel quale, anche a livello italiano, aumentano le richieste di testimonianza, sotto forma di capacità di rendere ragione della fede e della speranza che sono nei cristiani, e segnatamente, a casa nostra, dei cattolici. Sovente tale rinnovata attenzione alla Chiesa e ai cristiani deriva da e si confonde con preoccupazioni di tipo difensivo, verso altre culture e religioni, e alla Chiesa e ai cristiani si chiede allora di puntellare culture e pensieri troppo deboli per soddisfare le domande di verità degli uomini e delle donne del nostro tempo globalizzato. Anche alcuni cristiani, singoli o aggregati in associazioni o movimenti, sono tentati di vedere nella loro fede soltanto o esclusivamente un'identità storico-culturale, sia essa "occidentale" o più semplicemente europea.

La rimeditazione della lettera di Pietro e quella di A Diogneto costituiscono allora un "vaccino" contro siffatte tentazioni, per almeno tre motivi.

"Una Chiesa

sempre meno

‘istituzione'

e sempre più

comunione

del popolo

di Dio

"Il primo motivo (parlerei di una sorta di "riserva di ulteriorità") consiste nella consapevolezza che rendere ragione di una speranza significa aprirsi a quella ulteriorità rispetto alla condizione umana e ai suoi limiti che ha contrassegnato l'esperienza terrena del Cristo. Siamo testimoni anzitutto non di una dottrina, né di una antropologia, ma, appunto, del Cristo risorto. Da questa testimonianza traggono ispirazione dottrine morali e antropologie (le ragioni della fede e della speranza), ma essa va sempre al di là di qualunque dottrina e antropologia.

Il secondo motivo (si potrebbe qui parlare, ma precisando per evitare fraintendimenti, di una "riserva del non negoziabile"), per il quale ci viene in aiuto A Diogneto, consiste nella presa d'atto che, pur non costituendo corpo separato rispetto alla città (ma sempre con l'avvertenza che ogni patria straniera è patria loro, e ogni patria è straniera) e pur obbedendo alle leggi della città (ma superando le leggi stesse con il loro comportamento), i cristiani da un lato manifestano un modo paradossale di stare nella convivenza civile e, dall'altro, si astengono da determinati comportamenti alla luce di principi non valicabili (gli esempi dell'autore del secondo secolo vanno evidentemente aggiornati, anche se da essi possiamo ricavare un nucleo sicuro, la dignità della persona umana). Nella discussione sociale e politica, nella quale ben raramente i princìpi vengono in rilievo allo stato puro, ma piuttosto nelle loro applicazioni di dettaglio, tutto evidentemente diventa oggetto di negoziazione, anzi proprio una corretta accezione di pluralismo consiste nel cercare le soluzioni meno lontane dal valore della dignità della persona umana assunto come termine comune di riferimento. La dignità della persona umana, intesa in senso integrale, costituisce dunque il termine di riferimento di ogni mediazione pluralistica, in se stesso non negoziabile.

Infine, il terzo motivo (propongo di qualificarlo come "riserva di stile di vita") ci viene ancora dalla lettera di Pietro, quando invita a rendere ragione della speranza "con mitezza e rispetto, mantenendo sempre una coscienza retta". È qualcosa di molto più di un buonismo di maniera, è l'antidoto a ogni atteggiamento di tipo fondamentalista. Se è vero che l'inculturazione della fede procede di pari passo con l'evangelizzazione delle culture, allora la mitezza e il rispetto non sono soltanto tecniche di comunicazione e di comportamento, ma costituiscono la premessa per la stessa inculturazione della fede e dunque per poter trovare il corretto rapporto tra le tensioni culturali ed esistenziali del nostro tempo (tra natura e cultura, tra libertà e responsabilità, tra pluralismo e relativismo).

No ai blocchi di civiltà: una Chiesa di corresponsabilità

Una Chiesa capace di vivere quelle tre "riserve" qui sintetizzate è la Chiesa del dopo-Concilio, convinta (necessariamente convinta) che nuove sintesi tra fede e storia, tra Vangelo e cultura dovranno passare non attraverso la creazione di blocchi difensivi di "civiltà", ma attraverso profonde inculturazioni con la post-modernità di una fede fermento e lievito e di una Chiesa sempre meno "istituzione" e sempre più comunione del popolo di Dio, centrata sulla comunione eucaristica intesa come forma della Chiesa (lo "stupore dell'Eucaristia", richiamato più volte anche nel Sinodo episcopale dello scorso anno).

Una Chiesa siffatta è, anche, un luogo dove crescono la fiducia reciproca e la corresponsabilità. Un capitolo della mia relazione all'Assemblea straordinaria del Meic nel settembre 2003 ad Assisi era intitolato "Adulti, ma non superbi". In essa si esprimeva l'autonomia di un movimento di laici cristiani che, proprio in ragione della sua natura associativa, conosce il fondamento e i limiti dell'autonomia stessa dentro la comunione ecclesiale e non intende abusarne. La conclusione di allora può essere utile anche in vista dell'appuntamento di Verona, e non soltanto per il Meic: "Vorremmo essere, dentro la comunione ecclesiale, sentinelle capaci di resistere alle tentazioni del tempo, perché ogni tempo ha le sue tentazioni. Come cattolici intellettuali, senza pretesa di inesistenti superiorità o irrealistiche fughe verso una purezza che, nella sua radicalità, non potrà mai essere pienamente di questo mondo (e comprendendo altresì la necessità di un approccio che coniughi ideali e prassi, e dunque di un approccio pragmatico in senso alto), sentiamo il dovere di chiedere a noi stessi e alla bella Chiesa che è in Italia, con rispetto e insieme con fermezza, di saper resistere alle tentazioni di oggi".

Una Chiesa siffatta è, infine, capace di parlare con le culture contemporanee e di coglierne non soltanto le venature nichilistiche (pur presenti, ma comunque anch'esse da interpretare), bensì le potenzialità delle domande che da esse vengono sulla responsabilità individuale e collettiva. Secondo Z. Bauman, oggi è indispensabile sostituire, alla falsa liberazione dell'individualismo, "un'etica fatta di solidarietà e capacità di comprendere che ciascuno gioca un ruolo insostituibile": mi sembra una provocazione che la Chiesa italiana riunita a Verona potrebbe raccogliere e far sua.

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