TEMPO DI CRISI, TEMPO DI SPERANZA
Tratto da: Adista Documenti n° 70 del 07/10/2006
Crisi e rivelazione: una lettura apocalittica
Potremmo dire, senza pericolo di sbagliarci, che il vangelo (e, pertanto, l'evangelizzazione) è, per definizione e per vocazione, una crisi della Storia. La Rivelazione evangelica non si presenta come un messaggio o un avvenimento caduti dal cielo, ma come un'irruzione dal seno stesso della terra, della Storia umana. Con l'incarnazione di Dio in Gesù di Nazareth, il nuovo sorge dalle viscere della terra, come già evocava, con parole tanto belle, il salmo 84: "la verità germinerà dalla terra". È per questo motivo che Gesù ci invita a leggere i segni dei tempi e che gli angeli dell'Ascensione, negli Atti, rimproverano i discepoli di tenere lo sguardo fisso al cielo. Il Concilio Vaticano II e, sulla sua scia, le successive conferenze dell'episcopato latinoamericano del passato hanno rappresentato proprio un ritorno all'incarnazione evangelica e un esercizio di lettura della storia come rivelazione.
Questa lettura dei segni dei tempi ha a che vedere con l'inaugurazione del Regno, in germe, presso l'umanità e il cosmo. (…) Nel Nuovo Testamento esistono due modalità di discernimento del Regno. La prima appare nel discorso inaugurale di Gesù nella sinagoga di Nazareth, in Luca 4. I ciechi vedono, gli storpi camminano, i morti resuscitano e la Buona Novella è annunciata ai poveri. Il cambiamento della situazione degli oppressi di ogni tipo è segno per eccellenza di questo sorgere del nuovo, come ci dice anche Paolo nella seconda lettera ai Corinzi. Ma l'appari-zione del Regno ha anche un'altra chiave di lettura a partire dall'Apocalisse: qui il credente discerne l'inizio del mondo nuovo di Dio nella prova e nella persecuzione.
Tramite queste due modalità di annuncio, possiamo dire che la Rivelazione evangelica è una certa lettura della crisi: crisi del cambiamento radicale delle relazioni e delle strutture sociali nel processo di liberazione delle vittime della storia o, in parole più moderne, crisi rivoluzionaria; crisi apocalittica in cui la stessa oppressione, il martirio, la prova sono riconosciuti come il dolore del parto del Nuovo.
Se ci riferiamo alla teologia latinoamericana degli ultimi 30 anni, possiamo dire che la chiave di lettura privilegiata della storia del nostro Continente è stata quella rivoluzionaria, decifrata in particolar modo con i simboli dell'Eso-do. Da vari anni, tuttavia, intuiamo, con un'evidenza sempre più crudele, che i tempi sono cambiati e che la crisi di tipo rivoluzionario non dà più conto della realtà e non permette più di discernere i segni di questo tempo.
In un primo momento si è cercato di comprendere questa nuova tappa con le categorie dell'Esilio: passando dalla modernità alla postmodernità staremmo transitando da un'esperienza di liberazione dall'Egitto alla maniera dell'Esodo a un'esperienza di perdita e fallimento alla maniera dell'Esilio in Babilonia. Ma nella riflessione, e di fronte allo sviluppo delle nuove logiche della società globalizzata, della postmodernità e del mercato neoliberista mondiale, mi sembra oggi che siamo entrati piuttosto in un'altra tappa della Storia dei nostri popoli, più simile alla crisi apocalittica.
La crisi profetica come esperienza di conversione
Si sa che la matrice del profetismo è sempre una crisi morale, religiosa e socio-politica del popolo di Israele. Il profeta sorge, da Mosè o Elia fino a Giovanni Battista e Gesù, ogni volta che il diritto di Dio è disprezzato nel povero, nel piccolo e nel debole. (…)
Ma, a sua volta, il profetismo che nasce nella crisi si presenta come quello che potremmo chiamare "la crisi della crisi". Nel linguaggio biblico, questa crisi profetica si chiama conversione, letteralmente cambiamento radicale. Il profeta si presenta, nella sua persona, come un convertito in un contesto di crisi, un " radicalmente cambiato" e, inoltre, un potente fattore di conversione, di cambiamento radicale.
In contrasto con questa "identità critica" del vero profeta, il falso profeta è colui che difende lo status quo, colui che promuove o nasconde la continuità dell'ingiustizia e dell'immoralità (…).
L'Apocalittica, come è noto, è un'evoluzione al tempo stesso drammatica e popolare del messianismo critico dei profeti. (…) Qui la crisi sembra non aver rimedio e il popolo credente, fatto vittima, attende una rivincita dall'alto, una vittoria delle forze del cielo, una nuova creazione. Con una sfera simbolica più catastrofista e più popolare di quella dei profeti, i libri apocalittici invitano alla pazienza e alla resistenza, vedendo nella persecuzione dei giusti e del popolo credente il segno per eccellenza dell'annuncio di questo atteso intervento divino, con carattere al tempo stesso cosmico e politico.
La questione che rimane, in questo momento della Storia, di fronte all'urgenza di leggere i segni dei tempi, è la sua chiave di interpretazione. Ci tocca attendere un'era messianica alla maniera dei profeti, in particolare i profeti dell'Esilio, o è l'ora di un cambiamento radicale dall'alto, di una nuova creazione? La tematica profetico-messianica è più familiare al linguaggio teologico del nostro Continente. Sembra però che non manchino motivi per un'interpretazione apocalittica di questi stessi segni. (…) La crisi che ci tocca vivere ha tratti cosmici inquietanti (la crisi ecologica) e le forze politiche ed economiche che si scontrano non sono più particolari o limitate a un'ideolo-gia (destra-sinistra, comunisti-capitalisti) ma acquistano sempre più, mi pare, aspetti globali e universali in cui il male e il bene si scontrano ontologicamente (…).
Vocazione profetica della Chiesa e della Vita consacrata
In questo momento, come sempre, si scontrano varie ecclesiologie di fronte ai nuovi scenari che sorgono nella congiuntura della Chiesa in America Latina. In questo contesto di nuove configurazioni ecclesiali, mi sembra importante riaffermare che l'anima della Chiesa è il profetismo. (…). Riprendendo, pertanto, le intuizioni espresse prima a proposito del profetismo in Israele, credo fermamente che la vocazione storica della Chiesa sia quella di essere "Crisi del Mondo" nella prospettiva dell'inaugura-zione del Regno che Essa ci mostra.
Nel corso della Storia, tuttavia, non sono pochi i momenti e le circostanze in cui la Chiesa ha fatto e fa la figura di "falso profeta", di lupo mascherato da agnello, come dice Gesù in Matteo 7, ogni volta che difende o nasconde lo status quo, la continuità dell'ingiustizia e dell'abuso di potere. Non importa se siamo complici di questi peccati per timore o per opportunismo strategico. Mi azzarderei a dire che questo falso profetismo ecclesiale ha quasi sempre coabitato con il profetismo autentico. Secondo le diverse congiunture, una voce sembra dominare alternativamente l'altra. Ma sempre, ora più, ora meno, queste due correnti combattono nel seno della stessa famiglia cristiana perché questa è, al tempo stesso, irruzione della Buona Novella e riflesso della durezza e insensatezza umane.
È proprio nell'essenza di questa lotta intraecclesiale permanente che sorge la Vita Consacrata. Essa, dal suo fondo radicalmente carismatico, assume, o dovrebbe assumere, la responsabilità di porre la Chiesa nella crisi del Vangelo a partire dalla sfida posta dalla sofferenza del mondo e dall'irruzione del Regno come esigenza di cambiamento radicale.
Tuttavia, una volta ancora, come si trattasse della fatalità ciclica di ogni opera umana, storicamente la Vita Consacrata ha peccato e pecca anch'essa, molte volte, di "falso profetismo", riducendosi a motivo di conforto per una Chiesa troppo identificata con la mentalità e gli interessi del mondo. È interessante avere una visione panoramica della storia della Vita Consacrata. Comincia sempre come una protesta, una messa in discussione profetica marginale nel seno della Chiesa. Ma, più o meno rapidamente, comincia a clericalizzarsi e a integrarsi all'apparato ecclesiastico come sua più ardente alleata. Questo ciclo storico, per fortuna, si vede a sua volta messo in discussione da fuori, in generale dalla sfera laica, con un'esigenza di ritorno alle fonti evangeliche.
Chi salverà la speranza?
Dietro a questo dibattito, forse troppo sottile, si nasconde una questione molto più grave ed urgente: il futuro della speranza per gli uomini e le donne di oggi nel mondo e nel nostro Continente. Nel porre questa domanda, torniamo alla sfida che la Vita Consacrata latinoamericana si sta ponendo con acutezza da alcuni anni: tornare a una mistica profetica, tornare a incarnare il profetismo nei suoi natali mistici. (…) La mistica è il fondamento di ogni vera speranza e il combustibile del profetismo che la pone in marcia nell'oggi della storia.
Quello che costa, nella Chiesa e nella Vita Consacrata di oggi, è fare una vera lettura mistica dei segni dei tempi. Ci costa perché, forse, in qualche modo, siamo tra i beneficiari, i privilegiati del sistema e troviamo conveniente, per quanto non vogliamo ammetterlo, lo status quo. Quando il sistema è minacciato dalle sue stesse contraddizioni, implicitamente noi stessi come istituzione ci vediamo minacciati (…).
Ogni congiuntura, anche la più oscura, è propizia per rileggere il richiamo del Signore. La postmodernità è un momento diverso, in questo senso. Non si tratta più di mettere in discussione in maniera aggressiva le incoerenze e le ambiguità del sistema religioso in generale come nei secoli XIX e XX. La postmodernità è una presa di distanza tranquilla e silenziosa rispetto al cristianesimo classico e un'esplorazione plurale e piuttosto informale di una mescolanza di diversi registri religiosi antichi e nuovi. La Nuova Era, a mio giudizio, esprime adeguatamente questa ricerca a un tempo mistica e cosmica, libera, plurale e mobile, così distante dalle nostre proposte, tanto dottrinali come istituzionali e comunitarie. (…) La sfida si trova nelle capacità mistiche e profetiche della Chiesa più in là della sopravvivenza di strutture probabilmente già obsolete.
Quali sono, oggi, nella Chiesa e nella Vita Consacrata, queste nuove istanze mistiche e profetiche suscettibili di rispondere adeguatamente alle aspirazioni spirituali degli uomini e delle donne del nostro tempo? A questa domanda esistono attualmente due risposte piuttosto divergenti. Di fronte al caos postmoderno, dove i valori e le norme sembrano aver perso ogni contorno preciso, i settori più conservatori del cattolicesimo scommettono su quelli che si è soliti chiamare i nuovi (e a volte non tanto nuovi) movimenti. Si tratta di gruppi misti, con una forte base laica ma con rami clericali e religiosi propri, fortemente strutturati, con una ideologia e una disciplina apparentemente ferrea, di provata lealtà all'istituzione ecclesiale e alla sua gerarchia. La loro strategia è quella di conquista o, piuttosto, di riconquista, spesso nella convinzione che il passato è stato un deserto quanto a evangelizzazione e che è arrivata l'ora della "tabula rasa" per intraprendere una nuova crociata all'interno del Continente. Questi movimenti, che godono attualmente della fiducia e delle simpatie dell'auto-rità ecclesiastica, si avvalgono di un enorme potere economico, originato nelle classi dominanti che li compongono in maggioranza. Lungi dall'essere nati in un contesto di tipo carismatico proprio degli anni immediatamente postconciliari, attualmente in forte crisi a livello mondiale, essi si riferiscono a modelli borghesi nel discorso, nella forma e nei simboli in generale. Questi movimenti della classe alta hanno ottenuto una crescita vertiginosa in questo Continente, cattolico e conservatore, dal Messico al Perù. Il paradigma di questi nuovi movimenti latinoamericani è, senza dubbio, la spagnola Opus Dei che, in questo gruppo, fa la figura della nonna esperta e saggia di fronte alla focosità e aggressività giovanile dei movimenti più recenti e, forse, ancora più conservatori e più rigidi.
Senza dubbio, questa corrente ha in America Latina, e specialmente in Perù, il vento in poppa. Sarà da questa che arriveranno i nuovi venti mistici e profetici di cui vi è enorme bisogno? Alcuni la pensano così e persino certi settori della Vita Religiosa considerano che bisogna iniziare il salvataggio della barca che affonda a partire da questi presupposti, postmoderni nella forma e appassiti nel contenuto.
Ho forti dubbi, personalmente, che questa sia la Buona Novella che attendiamo, malgrado l'immenso e sorprendente successo di tale corrente in questo momento. Prevedo, piuttosto, che questa proposta, più incarnata nei valori della società privilegiata che nella profondità delle nostre tradizioni e culture, non tarderà a scontrarsi con le sue stesse contraddizioni e i suoi stessi limiti e con la secolare resistenza passiva del mondo popolare latinoamericano in tutte le sue forme. Non credo che passerà molto tempo prima che questa corrente si spezzi nello scontro con il mondo andino, nero e popolare. Più ancora: mi aspetto che questa strategia riveli in maniera chiarissima, il prima possibile, la sua evidente incompatibilità con il vangelo.
Di fronte all'offensiva di questa nuova crociata, orchestrata dall'alto, restano come sempre i poveri. Di certo, quello che è stato il movimento dell'opzione per i poveri nel solco della Teologia della Liberazione soffre oggi una gravissima sconfitta. Che resta dell'utopia di una presenza incarnata della Vita Religiosa, dell'inculturazione della fede e della spiritualità? Che resta della grande speranza delle comunità di base? Un piccolo resto di profeti convinti e prestigiosi, tanto nel mondo popolare come tra gli operatori pastorali e i missionari. Ma un piccolo resto emarginato e invecchiato, a volte decisamente perseguitato dai nuovi padroni. Costituiscono una generazione decimata di veri santi ma poco convincente per una generazione giovane, insicura e facilmente sedotta dal miraggio dei nuovi movimenti.
Senza dubbio, l'opzione per i poveri entra, a livello ecclesiale, in una fase di semi-clandestinità, o, perlomeno, di profondo anonimato. Paradossalmente, questa circostanza è una grazia. La grazia dell'autocritica da parte di noi che abbiamo creduto, forse un po' superficialmente, in questa nuova alba conciliare e latinoamericana della Chiesa. È l'ora di valutare, di rivedere e soprattutto di convertirsi. Questa conversione si produrrà, a mio modo di vedere, nella misura in cui torneremo a collocarci dalla parte dei poveri di sempre e rinunceremo, contenti, ai pezzi di potere che abbiamo conquistato nel seno dell'istituzione ecclesiastica. La nostra opzione è di stretta vicinanza a coloro che non hanno voce né potere alcuno. La testimonianza mistica e profetica può sorgere solo da questa impotenza solidale, da questa resistenza con le vittime che sono in basso, della profonda coerenza tra stili di vita e discorsi.
In queste condizioni, la nuova o rinnovata opzione per i poveri, secondo la formulazione della Clar di alcuni anni fa, è l'unica alternativa evangelicamente credibile di profetismo e di mistica. (…) Questa rinnovata opzione per i poveri è, a mio modo di vedere, l'unica salvezza della speranza, se riusciamo a liberarci dalle ideologie che ci rinchiudono e a prendere le distanze dagli scenari antievangelici in cui si svolge la battaglia delle forze intraecclesiali di oggi in America. (…)
La speranza: utopia o nostalgia?
(…) Con ogni evidenza, la sfida di oggi, come di sempre, è annunciare il regno. Ma di quale Regno parliamo? Nel corso della storia della Chiesa si sono sempre confrontate due proposte. La prima, la più profetica, presenta sempre il Regno come orizzonte della storia, progetto di Dio e dell'umanità, in germe, nel cuore di questa stessa storia. L'altra versione, in costante lotta con la prima, è di taglio più istituzionale e in certa maniera più politico. Il Regno sarebbe un modello di società perfetta, inaugurato già, e quasi portato a compimento, per alcuni, nella struttura ecclesiale. Non è un orizzonte ma un modello che bisogna costruire, preservare, recuperare. La tensione tra queste due immagini del Regno è quella che esiste tra un'utopia, per definizione mai realizzata e sempre da realizzare, e un modello nostalgico. Senza dubbio, è questa seconda visione che domina oggi il panorama ecclesiale. Ma quello che percepisco è che, precisamente, l'attuale crisi della Chiesa e la nostra crisi come Vita Consacrata è, piuttosto, un invito a tornare a guardare l'orizzonte del Regno con tutti i rischi che questo sguardo comporta in un mondo turbolento nei valori e nelle parole. (…)
Dio è sempre avanti. A partire dall'Esodo, è il Signore che guida la marcia del suo popolo. Quando si mette dietro è solo provvisoriamente, per proteggere Israele. Mai per retrocedere. Questa è, piuttosto, la tentazione permanente e la nostalgia dell'Egitto, contraria alla volontà di Dio (…). Da Isaia fino all'Apocalisse, il nostro Dio è quello che, permanentemente, rende nuove tutte le cose. Non restaura mai il vecchio.
Come sempre nella storia della Salvezza, questo è il dilemma e la sfida che ci lancia la postmodernità. Ma se Dio è avanti al suo popolo, quello che ci attende è la prova pasquale. Il mar Rosso ci aspetta, la Croce ci invita. Come ci dice la Lettera agli Ebrei, ancora non abbiamo sofferto fino allo spargimento del sangue. Forse è una di quelle ore storiche in cui il nostro impegno radicale per Gesù e il suo vangelo esigono da noi il martirio.
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