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UN CIELO SENZA STELLE

Tratto da: Adista Contesti n° 64 del 22/09/2007

LA PARABOLA DISCENDENTE DEL PREMIO NOBEL RIGOBERTA MENCHÚ, CANDIDATA ALLE ELEZIONI PRESIDENZIALI DEL GUATEMALA.

Questo articolo, firmato da  Ricardo Falla, è stato pubblicato  sulla rivista “Envío” (luglio 2007). Titolo originale: “Rigoberta Menchú:  ¿estrella fugaz en el cielo electoral?”

 

Cosa è successo a Rigoberta Menchú, candidata alla presidenza del Guatemala? Un’altra sbarra del carcere che lei stessa si è imposta è il suo silenzio sulla denuncia, in Spagna, contro il genocida generale Efraín Rios Montt, denuncia che proprio lei aveva promosso. Ora, in campagna elettorale, Rigoberta ha detto che per “ragioni etiche” non dà ulteriore impulso alla denuncia e tanto meno attacca il generale.

 “Costruiremo la fiducia fra i guatemaltechi per poter avere un futuro migliore. Chiameremo ad un patto per una prospettiva unitaria del Guatemala che tutti vogliamo. Faremo del Guatemala un Paese più umano, una nuova repubblica inclusiva e multiculturale”. Così diceva Rigoberta Menchú annunciando la sua candidatura presidenziale. Perché lo sfolgorio della sua stella è stato così fugace?

Cosa è successo a Rigoberta Menchú, candidata alla presidenza della Repubblica? Non era, secondo vari sondaggi, la persona più conosciuta e riconosciuta del Guatemala? Non ha provocato una scossa elettrica nei nervi della classe dominante il suo annuncio, in febbraio, che avrebbe corso per la carica presidenziale? Com’è possibile che, secondo qualche sondaggio, se non il più preciso, certamente il più influente, l’intenzione di voto per Rigoberta sia precipitato ad un infimo 1,5% a giugno?

I governi stranieri e le organizzazioni di cooperazione internazionale non la ritenevano la stella del nostro firmamento politico? L’amica di Jacques Chirac, quella che attirava in Italia  in massa giovani desiderosi di ascoltarla, che è stata invitata a casa dall’ex presidente del Messico, il Premio Nobel per la Pace del 1992 che ha risvegliato tanta speranza fra i popoli indigeni del Continente e fra molti altri popoli nativi, compresi quelli dei Paesi scandinavi, com’è possibile che la sua proposta politica stia avendo così poca eco?

Tutte queste domande rimangono anche considerando che l’intenzione di voto della popolazione guatemalteca per le elezioni generali di settembre non è completamente definita. I sondaggi che la danno appena all’1,5% indicano anche che il 40% dei guatemaltechi non sa ancora per chi votare. E altri sondaggi, privati e non diffusi dai grandi media, le assegnavano a maggio quasi il 10%.

Come spiegare questa disillusione?

Sia come sia, c’è un sentire generale – confermato dalle mie stesse percezioni – che la speranza che Rigoberta aveva inizialmente suscitato, lanciando la sua candidatura, quella di rinnovare profondamente una campagna prevedibile e di routine, è scomparsa molto presto, e questo ha tranquillizzato la classe dominante e i politici: Rigoberta non era il temuto nemico che avrebbe trascinato dietro di sé tutto il popolo indigeno maya nei Comuni e nei villaggi di tutto il Paese.

Questa delusione ha varie spiegazioni e ragioni. La prima e principale è che Rigoberta non ha dietro di sé un’organizzazione di massa, un movimento sociale come lo aveva e lo ha in Bolivia Evo Morales. Non ha neanche una struttura partitica che copra le molte regioni indigene del Paese, tanto meno tutto il Paese.

La sua principale forza, ovvero la sua dimensione internazionale, è anche la sua debolezza. La Fondazione Menchú è solamente una Ong, cioè solo un gruppetto di gente che vive nella capitale. Questo dimostra che battere solo sull’identità etnica non funziona se non esiste una rete, per quanto minima, un filo che strutturi e coordini questa identità.

E soprattutto che la smuova. L’identità indigena, in quanto poco tangibile, è potente ma ha bisogno di questo filo visibile e concreto che riesca a raggiungere i villaggi indigeni.

Una seconda ragione è che Rigoberta è vista dal popolo indigeno – a quanto sento dire – come una persona che si è ormai allontanata dal suo popolo. Ha ricevuto il Premio Nobel e non lo ha condiviso – questo dicono – ma lo ha investito in una industria farmaceutica. Dicono anche che è superba, che non vuole più parlare con i poveri, che non va a Chimel, il suo villaggio natale, che si è già dimenticata delle sofferenze della sua gente. “Ci presentiamo alla Fondazione - raccontano - e ci dice: tornate fra tre mesi. Ma arriva un gringo e lo riceve subito”. Questo l’ho sentito spesso e in vari modi. Molte donne indigene con le quali ho discusso difendendo la Rigo, invece di gioire per il fatto che una donna cerchi di arrivare alla presidenza del Paese, sentono una specie di invidia e l’attaccano con forza.

Una campagna morta che ha finito per uccidere lei

Una terza ragione è che, negli anni ‘80, il Guatemala ha visto passare il suo momento, quello della grande speranza in un cambiamento radicale. Ed è stata un’esperienza di grande frustrazione. Un tale livello di entusiasmo non si ripeterà forse fino alla terza generazione successiva a quella che ha vissuto questo momento.

All’epoca, quando la scintilla dell’entusiasmo brillava negli occhi dei giovani e li motivava ad agire, ad impegnarsi fino al sacrificio della vita, esisteva un combustibile, cioè la previsione, quasi una certezza, relativa alla possibilità di vittoria. Adesso la gente questo non lo pensa più. Anche se Rigoberta dovesse conquistare la Presidenza, sentiamo che non vinceremo niente, perché lei si troverà prigioniera. Sono in molti a pensarla così.

Non c’è possibilità di cambiamento in Guatemala, oggi. Non c’è ora la possibilità di una grande speranza, come quella che ha suscitato Evo Morales in Bolivia. Lo vedo io, per esempio, qui dove vivo, a Santa María Chiquimula. Qui hanno nominato, quasi a denti stretti, una candidata alla carica di sindaco dell’Encuentro por Guatemala (Eg), il partito di Rigoberta. E nessuno se ne interessa, nessuno dedica il proprio tempo libero alla sua campagna elettorale. Rigoberta è incappata in una campagna morta e, invece di risuscitarla, la campagna sta ammazzando lei. È triste. E alcune donne indigene mi hanno detto: “Speriamo che questo non ricada su tutte noi!”.

Solo una questione d’affari

Una quarta ragione è che la campagna elettorale è percepita dalla gente come una questione d’affari. Affari, non solo perché serve molto denaro per pagare gli annunci in televisione, per metter su enormi arene, per pagare gli attivisti di partito, ma anche perché lo stesso successo della campagna è un affare. È denaro. Se Rigoberta Menchú non ha a disposizione denaro per la sua campagna, la gente del popolo non è disposta né a finanziarla né ad aiutarla con il proprio lavoro, perché pensa che questo denaro arricchirebbe lei se dovesse vincere. La gente non vede la campagna come una lotta per un tot di potere utile per cambiare le cose, ma come una lotta per un tot d’affari con cui arricchirsi.

Niente denaro, niente presenza

Una quinta ragione è che, sebbene Rigoberta abbia eletto come compagno di lista, in qualità di candidato alla vicepresidenza, Fernando Montenegro, un imprenditore già presidente del Cacif, l’associazione di industriali più danarosa e antipopolare, questo non si è tradotto in risorse per la campagna elettorale di Eg.

A maggio, un’impresa ha calcolato quanto avrebbe speso ognuno dei principali partiti in propaganda elettorale, soprattutto in televisione. La Une (Unidad Nacional de la Esperanza) quasi 3 milioni di quetzales, la Gana (Gran Alianza Nacional) 2 milioni 700mila, il Pp (Partito Patriota) 1 milione e Eg appena 53 mila. Senza denaro e con un carisma, un fascino, uno sfolgorio e un’intelligenza che compaiono appena nei media, Rigoberta è in una posizione molto debole. Quando appare sui media, rende poco, è tesa. E partecipa a programmi altrui. Inoltre, Montenegro è visto come un ricco retrogrado e razzista, molto lontano da quella “terza via” che il sociologo Anthony Giddens auspicava per la Gran Bretagna, e che dicono Montenegro segua.

In un partito-carcere

Una sesta ragione è il danno causato a Rigoberta dal partito-carcere sul quale conta in queste elezioni. Il partito Eg non è di Rigoberta, né del popolo indigeno che dice di rappresentare. Encuentro por Guatemala è il partito creato da Nineth Montenegro, attivista di diritti umani, deputata e parente del candidato alla vicepresidenza. Il partito ha radici solo nella capitale e Nineth Montenegro si sta concentrando sulla sua candidatura presidenziale nel 2011.

In uno spazio stretto, senza appoggi

In queste circostanze, lo spazio nel quale Rigoberta si muove è stretto e la porta è angusta. Rigoberta non vuole apparire di sinistra. Non ha scelto di competere nella Urng (Unión Nacional Revolucionaria Guatemalteca), il partito dell’antica guerriglia, calcolando che questo l’avrebbe “bruciata”. Oggi Rigoberta non sembra portare avanti programmi radicali.

Quando ha partecipato al II Vertice Continentale dei Popoli e Nazioni indigene, celebrato a Iximiché, a marzo, non ha ricevuto dai partecipanti l’appoggio che molti speravano. Di fatto gliel’hanno negato. Neanche Evo Morales, il cui arrivo era previsto al Vertice, gliel’ha dato. Si attendeva che Evo venisse in Guatemala. Non sappiamo perché non sia venuto, ma sembrerebbe che non ci sia simpatia fra i due. O forse Evo non ha voluto danneggiarla con la sua presenza?

Il suo bel huipil sporco di sangue

Rigoberta si è infilata in questo carcere, prima di lanciarsi nella candidatura presidenziale, da quando ha accettato di essere Ambasciatrice di Pace dell’attuale governo di Oscar Berger. Questo incarico l’ha danneggiata. E, come alcuni analisti avevano previsto, l’assassinio avvenuto in Guatemala, in febbraio, dei deputati salvadoregni e dei poliziotti che li hanno uccisi ha sporcato anche lei, essendo rappresentante di un governo che perlomeno avalla e copre le esecuzioni extragiudiziali. È significativo che, dopo l’impatto mediatico ottenuto in febbraio con l’annuncio della candidatura di Rigoberta, l’impatto mediatico che hanno provocato questi assassinii l’hanno definitivamente messa in ombra. L’una cosa ha avuto a che vedere con l’altra? In vari abbiamo pensato che Rigoberta, già al governo, nulla avrebbe potuto fare di fronte ai poteri occulti infiltrati nello Stato. E abbiamo avvertito un calo di entusiasmo,  una specie di atterraggio nella realtà nella quale ci troviamo. I sogni sotto ai piedi. Altri forse hanno pensato che questo delitto la danneggiava perché proveniva dallo stesso governo nel quale lei aveva un incarico. Per una ragione o per l’altra, il sangue dei salvadoregni e dei poliziotti uccisi ha sporcato il suo bel huipil (l’abito femminile tradizionale guatemalteco di origine maya, ndt).

Un inesplicabile silenzio che la danneggia

Un’ultima sbarra di questo carcere che lei stessa si è imposto è il suo silenzio sulla denuncia del Tribunale nazionale spagnolo contro il genocida generale Efraín Ríos Montt, denuncia che proprio lei aveva promosso. Ora, in campagna elettorale, Rigoberta ha detto che per “ragioni etiche” non dà ulteriore impulso alla denuncia e tanto meno attacca il generale, che è stato appena iscritto come candidato ad un posto di deputato per ottenere così l’immunità. Che senso hanno queste “ragioni etiche” di Rigoberta Menchú? Meno ancora è comprensibile il suo silenzio. Tacere per non pesare sulla Fondazione Menchú che continua a seguire il percorso della denuncia, seppure senza chiasso? Oppure il partito Eg le ha detto di lasciar perdere il generale per l’“accordo cavalleresco” che è stato firmato all’inizio della campagna elettorale?

Ci sarà la zampata finale?

Rigoberta Menchú viaggia su una macchina che non è sua. Sebbene la portino, non può impedire che la macchina si arresti quando il proprietario chiede di fermarsi a mangiare un hamburger... Meno ancora può chiedere alla macchina che si fermi se il proprietario ha fretta di giungere a destinazione e non gli interessa di scendere a chiacchierare con gli amici di lei. Rigoberta viaggia prigioniera.

In ogni modo, c’è un’alta percentuale di indecisi. Un maestro di Totonicapán mi diceva l’altro giorno che in questo capoluogo dipartimentale, strettamente indigeno, il Frg (Frente Republicano Guatemalteco) – il partito del generale genocida – ha le migliori chances, grazie ai regali che fanno agli elettori i deputati. Però, aggiungeva, subito dietro viene l’Eg, il partito di Rigoberta, grazie ad una campagna silenziosa, in lingua quiché, realizzata quasi porta a porta, di villaggio in villaggio, e che potrebbe dare “la zampata” quando meno la si aspetta.

Aspettiamo questa zampata. Ma a Santa Maria Chiquimula, un paese di questo stesso dipartimento e vicino al capoluogo, questo lavoro da formica non si vede. Non c’è entusiasmo per Rigoberta. Come mi ha detto un politico ad Alta Verapaz, quando è stata annunciata la sua candidatura: “Non influirà, perché qui tutto è stato già spartito”.

Non è ancora tempo

Questo percepiamo in questo piccolo angolo del Guatemala. Ogni partito, con il suo candidato a sindaco, ha già la propria gente e tira i propri fili. E tutti sono indigeni. “E che non mi vengano a dire di appoggiare gli affari di una indigena, perché anche io sono indigeno”. Credo che questo sia quello che molti pensano qua.

E non cambia la suddivisione della torta, che è più una torta di denaro – e del suo flusso – che una torta di potere. È la torta di chi ci dà più vantaggi, di chi ci costruisce strade, di chi ci fornisce il cemento.

Non è la torta del potere: di chi va a cambiare questo Stato, ad affrontare il problema dell’accesso alla terra, di chi va a mettere mano alla questione fiscale e a realizzare la giustizia sulle tasse.

Tutto questo suona troppo grande e lontano, suona di vuote promesse. Non mobilita, genera impotenza. Il vicino, il quotidiano è quello che mobilita: mangiare, ripararsi dalla pioggia e avere la possibilità di guadagnare il proprio denaro, senza leggi e senza ingerenze dello Stato. Non è ancora il tempo di vedere nel cielo elettorale delle costellazioni, delle stelle organizzate che aspirano al potere per cambiare le cose. n

 

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