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IL PROCESSO AL CAPPELLANO DELLA DITTATURA "È UN SERVIZIO ALLA CHIESA”: SI SGRETOLA IL MURO DI SILENZIO DELL’EPISCOPATO ARGENTINO

Tratto da: Adista Documenti n° 68 del 06/10/2007

DOC-1903. LA PLATA-ADISTA. Rompendo il silenzio scrupolosamente osservato dai vertici dell’episcopato argentino rispetto al processo a Christian Von Wernich, cappellano della polizia di Buenos Aires accusato di crimini di lesa umanità durante gli anni della dittatura militare (v. Adista n. 55/07), varie voci si levano dall’interno della Chiesa per denunciare e chiedere perdono. Un duro atto di accusa è giunto dal prete argentino Rubén Capitanio, primo membro della Chiesa a deporre al processo che è in corso a La Plata dal 5 luglio scorso (in attesa della deposizione di mons. Miguel Hesayne, vescovo emerito di Viedma, anche lui chiamato a testimoniare): la Chiesa -  ha dichiarato il sacerdote, costretto ad abbandonare La Plata per sfuggire alla persecuzione e rifugiatosi nella diocesi di Neuquén, dove si trova tuttora - “non ha ucciso, ma non ha salvato le vittime e pertanto è responsabile di quelle vite”. E “con il suo silenzio” è venuta meno alla missione “di denunciare la situazione di illegalità che si viveva” durante gli anni della dittatura. Nel maggio del 1976, ha ricordato Capitanio, i vertici ecclesiastici pubblicarono “documenti vergognosi” che menzionavano “i detenuti-desaparecidos”, chiedendo timidamente “che si alleggerisse la situazione”. Ma, ha detto, “i crimini bisogna fermarli, non alleggerirli”. E, ancora, “mentre le madri dei desaparecidos andavano in cerca di un prete che celebrasse una messa per i loro familiari, i generali venivano ricevuti e ascoltati”. Quanto al ruolo dei cappellani militari, “mentre la morte aveva tanta forza, sarebbe stato fondamentale che il vicariato castrense difendesse la vita, ma non è stato così”.

Capitanio, che di Von Wernich è stato compagno di seminario, non ha mancato neppure di chiedere perdono “ai familiari di tutte le vittime, perché non siamo stati la Chiesa che avremmo dovuto essere”.  “Qualcuno – ha detto – può pensare che questo processo sia un attacco alla Chiesa, ma io voglio dire che è un servizio alla Chiesa”. Perché, finché essa non riconoscerà le proprie responsabilità, resterà “una Chiesa infedele”. Lo aveva spiegato chiaramente anche prima della sua deposizione al processo, in un’intervista rilasciata al quotidiano argentino Pagina 12 dell’8 luglio: “Questo processo è un grande servizio alla Chiesa, perché le permette di assumere una realtà” che non ha ancora accettato: “che siamo stati complici, in diversi gradi, e alcune volte fino a un grado aberrante, come nel caso di Von Wernich”, il quale “si è schierato dalla parte dei crocifissori, e ha commesso blasfemia dicendo che lo faceva in nome di Dio. Non so - ha dichiarato Capitanio - di che Dio parli, giacché non esiste alcun Dio che sia dalla parte della morte”. Sarebbe “un atto di grande ipocrisia e cinismo utilizzare questo processo per dire che si attacca la Chiesa”. Anche perché è solo per questa via che si può giungere a una vera riconciliazione: “sapendo quanto avvenuto, giudicando i delitti commessi, condannando i responsabili, assumendo ciascuno la propria responsabilità. In caso contrario, tutto suonerebbe come impunità. E questo non ci aiuta: 30 anni dopo, non abbiamo né riconciliazione né pace, perché non c’è stata né giustizia né verità”.

Un intervento, quello di Capitanio, che entra con decisione nella polemica sui silenzi dei vertici ecclesiastici non solo durante ma anche dopo la dittatura – rotti solo da timidissimi e molto ambigui accenni di autocritica -, e, in particolare, sul caso Von Wernich, rispetto al quale c’è chi, come il card. Jorge Bergoglio, è andato addirittura all’attacco, presentando il processo come un ritorno agli scontri del passato e un’offesa alla Chiesa. Ma a contestare il silenzio dei vertici giungono due documenti significativi: il primo elaborato dall’équipe della Pastorale sociale della diocesi di Neuquén, coordinata dallo stesso Capitanio, con il consenso di tutti i preti della diocesi e del vescovo Marcelo Melani (che, tuttavia, non lo ha firmato), e distribuito dall’inizio di agosto in tutte le parrocchie; il secondo elaborato dal Dipartimento di Pace e Giustizia di Quilmes, ma pubblicato, significativamente, sul sito della Conferenza episcopale argentina (li pubblichiamo entrambi qui di seguito).

Prosegue, intanto, il processo a Von Wernich, chiamato, tra l’altro, a rispondere all’accusa relativa all’omicidio di 7 giovani detenuti della Gioventù Peronista e dei Montoneros: ai familiari, a cui aveva chiesto ingenti quantità di denaro, il cappellano aveva assicurato di aver influito sulla loro scarcerazione, riuscendo a farli uscire dal Paese. I giovani, in realtà, erano stati uccisi durante il viaggio che, era stato detto loro, doveva avere come destinazione l’aeroporto di Ezeiza: il sangue delle vittime aveva persino macchiato l’abito dei carnefici, Von Wernich compreso. Alla Conadep (Commissione nazionale sui desaparecidos) l’autista, Julio Ehmed, dichiarò di essere stato riconfortato dal cappellano dopo il massacro: “Mi disse che quello che avevamo fatto era necessario per il bene della Patria, che era un atto patriottico, e che Dio sapeva che quello che si stava facendo era per il bene del Paese”.

Tra le tante testimonianze (126 le persone chiamate a deporre), particolarmente significativa è stata quella del Premio Nobel per la Pace Adolfo Pérez Esquivel, detenuto nel 1977 e sopravvissuto solo per un caso ai “voli della morte”: se Rubén Capitanio ha denunciato con forza le responsabilità della Chiesa argentina, il Premio Nobel, infatti, non ha risparmiato il vertice stesso della Chiesa cattolica. Nel 1984, ha riferito, portò a Giovanni Paolo II una lista di 84 bambini desaparecidos in Argentina e di altre vittime e la risposta che ottenne dal papa fu di occuparsi dei bambini dei Paesi comunisti. Il papa, ha proseguito Pérez Esquivel, fu molto freddo e non fece nulla per aiutarlo.

Di seguito, in una nostra versione dallo spagnolo, i documenti delle diocesi di Neuquén e di Quilmes. (claudia fanti)

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