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"RUPPE PER PRIMO IL SILENZIO DELLE CHIESE SULLA MAFIA". CATTOLICI ED EVANGELICI RICORDANO IL PASTORE PANASCIA

Tratto da: Adista Notizie n° 79 del 17/11/2007

34138. PALERMO-ADISTA. Un "uomo di coraggio" ci ha lasciato: mai prima di lui "era stato rotto quel silenzio di tutte le Chiese rispetto al fenomeno mafioso". Con queste parole il settimanale delle Chiese evangeliche Riforma saluta Pietro Valdo Panascia, morto a Palermo lo scorso 20 ottobre a 97 anni, il primo esponente delle Chiese cristiane italiane a denunciare pubblicamente gli omicidi di Cosa nostra in Sicilia.

Panascia fu pastore della Chiesa valdese di Palermo tra il 1956 e il 1970. In quegli anni si dedicò a molte iniziative nella periferia degradata della città, impegnandosi principalmente a sostegno dei minori. Curò la scuola elementare, sita nei locali della stessa chiesa in via Spezio, nella convinzione che l’istruzione e la cultura avrebbero dato dignità e speranza ai poveri e agli emarginati. Con lo stesso entusiasmo, poi, fondò il Centro diaconale nel quartiere Noce, borgata ‘ad alta densità mafiosa’, per offrire ai più piccoli la possibilità di riscatto da una cultura deresponsabilizzante e intrisa di mafia. Così Riforma (il 2/11) ritrae Pietro Valdo Panascia: "Un uomo concreto che, ‘vedendo’ con gli occhi della fede le condizioni degradanti in cui troppi uomini, donne, bambini di quartieri dimenticati di Palermo erano costretti a vivere nell’indifferenza delle autorità civili e religiose, ha semplicemente ritenuto di dover unire la sua voce e quella della Chiesa valdese alla forte denuncia di uomini di valore come Danilo Dolci", il sociologo triestino con cui affrontò molte battaglie per i più poveri. "Non era affatto un uomo ‘dolce’. Era invece un combattente, un uomo determinato e coraggioso, che nel suo lungo ministero non ha avuto paura di confrontarsi con il ‘potere’". In seguito alle stragi di Ciaculli e Villabate, in cui persero la vita nove uomini, il 7 luglio 1963 Panascia tappezzò i muri di Palermo di manifesti titolati "Iniziativa per il rispetto della vita umana", in cui denunciava l’efferata violenza della mafia e faceva appello a "quanti hanno la responsabilità civile e religiosa" affinché promuovessero il rispetto "della Legge di Dio che ordina di non uccidere". Tanto che Paolo VI, colpito da quell’appello alle coscienze, tramite mons. Angelo Dell’Acqua, sostituto alla Segreteria di Stato vaticana, suggerì al cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini, l’opportunità di prendere qualche iniziativa contro quell’escalation di violenza. Bisognava imitare l’esempio del reverendo Panascia e intraprendere "un’azione positiva e sistematica – scrisse Dell’Acqua a Ruffini – per dissociare la mentalità della cosiddetta mafia da quella religiosa". Ma il cardinale arcivescovo di Palermo rispose risentito: "Mi sorprende alquanto che si possa supporre che la mentalità della cosiddetta mafia sia associata a quella religiosa. È una supposizione calunniosa messa in giro dai socialcomunisti i quali accusano la Democrazia cristiana di essere appoggiata alla mafia". Secondo mons. Ruffini, il fenomeno mafioso era solo "delinquenza comune", che non riguardava "il salotto buono", bensì "giovinastri disoccupati che tentano di far fortuna con furti e ricatti; ma in nessun caso è gente che frequenta la Chiesa". Posizione che il card. Ruffini confermò solennemente il 27 marzo dell’anno successivo nella lettera pastorale Il vero volto della Sicilia, nella quale respingeva molte delle denunce a Cosa nostra che Panascia aveva espresso nel manifesto. "L’arcivescovo – ricorda p. Nino Fasullo nell’editoriale di novembre del mensile Segno – non capì. Non riuscì a cogliere l’oggetto e la posta in gioco della questione mafiosa come problema politico, culturale e morale. Nella sua lettera non c’è traccia dei problemi scottanti dell’isola. L’assenza fu notata subito dal pastore Panascia, che il 9 aprile gli scrisse una lettera aperta per invitarlo al dialogo e ad aprire gli occhi sul vero volto della realtà criminale circostante". La strage di Ciaculli e Villabate, in definitiva, "sconvolse il Paese. Radio tv e giornali di ogni tendenza non parlavano d’altro che della Sicilia arretrata e spietata in cui Cosa nostra scorazzava senza ostacoli. La reazione fu generale, politica culturale morale. Ma non religiosa. La grande Chiesa a Palermo taceva". Secondo Fasullo, infatti, in quel periodo "due scandali correvano per Palermo (e in altre parti della Sicilia): la morte mafiosa e il silenzio della Chiesa. Dio ne soffriva molto ma nessuno lo consolava. Lo fece delicatamente il reverendo pastore Pietro Valdo Panascia". E così "Dio, che su una questione scottante come quella mafiosa non riusciva a farsi ascoltare nella grande Chiesa, vide che, nella piccola Chiesa valdese, c’era qualcuno pronto ad accogliere la sua parola". Oltre ad anticipare la stagione dell’antimafia, Panascia fu profeta anche nel criticare tempestivamente il culto di padre Pio da Petrelcina, che negli anni successivi assumerà proporzioni dilaganti: "Come protestanti abbiamo sempre guardato con sospetto alla venerazione per i santi. Ma adesso si esagera. La gente va a caccia di miracoli, cerca nuove divinità. E quel che preoccupa è che la Chiesa cattolica lascia fare", diceva Panascia che imputava la responsabilità soprattutto ai vescovi: per loro "va tutto bene", quello che gli importa "è che non ci siano rapporti prematrimoniali, né nozze civili".

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