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TIRO AL BERSAGLIO

Tratto da: Adista Contesti n° 34 del 26/04/2008

Il presidente della Bolivia Evo Morales osteggiato dagli Stati Uniti, che fanno leva sul dissenso interno.

Questa intervista di Sergio Lirio è stata pubblicata sulla rivista brasiliana di politica “Carta Capital” (4/4/2008). Titolo originale: “Ataque ao imperio”

Nell’ultima settimana di marzo, nel Palazzo Quemado, sede del governo di La Paz, il presidente Evo Morales ha dovuto sostenere un intenso tour lavorativo. Il 28, vigilia dell’intervista che ci ha rilasciato, Morales ha iniziato alle 5 di mattina per concludere la sua giornata alle 2 della mattina seguente, incontrando ministri e delegazioni straniere. Alle 6 di mattina era di nuovo lì. La conversazione con la nostra rivista era fissata per le 7. Le riunioni all’alba o in piena notte sono diventate mito e fonte di battute fra i suoi principali collaboratori. È uno stile da ex-sindacalista. 

Ma gli avvenimenti recenti giustificavano eccome la giornata intensa. Una serie di proteste nei dipartimenti mettevano il governo sulla difensiva. Il decreto che ha proibito l’esportazione di prodotti di base ha rafforzato l’opposizione di Santa Cruz, nucleo di maggiore resistenza a Morales, e ha provocato il blocco delle principali strade camionabili. A Camiri, nella regione del Chaco, alcuni scontri della popolazione con l’esercito hanno lasciato sul terreno una decina di feriti e molte critiche al presidente. A Sucre, dei manifestanti hanno cercato di cacciare il prefetto nominato da La Paz dopo la rinuncia del predecessore. Le sedi regionali della televisione e della radio di Stato sono state saccheggiate da universitari. Sucre è diventata un polo di resistenza dopo che le dirigenze locali hanno rispolverato un’antica rivendicazione della città: diventare capitale a pieno titolo della Bolivia (attualmente è la sede del potere giudiziario).

Malgrado la mole di lavoro, Morales si mostra ben disposto durante l’intervista. Accusa l’opposizione di razzismo e di non accettare un indio al comando del Paese, giustifica le misure anti-esportazione (“ho l’obbligo di difendere l’economia popolare”) e afferma che la futura Costituzione, per la prima volta, integrerà gli indigeni nella società boliviana. E accusa l’ambasciata degli Stati Uniti di finanziare i movimenti autonomisti. “I nordamericani sono specialisti nel dividere Paesi”, afferma.

Morales considera il referendum del 4 maggio sull’autonomia di Santa Cruz un atto illegale e incostituzionale, ma si dichiara aperto a dialogare e nega l’intenzione di usare le Forze Armate per impedire il plebiscito. Il presidente suggerisce una mediazione internazionale, proposta non accettata dall’opposizione. “L’unità della Bolivia è al di sopra di qualsiasi aspirazione all’autonomia”, dice.

Di seguito, l’intervista.

Il suo governo è bersaglio di varie proteste. Cosa succede in Bolivia?

Il principale problema è l’aumento dei prezzi. Alcuni prodotti sono molto cari a causa del rialzo internazionale. È il caso del grano, del miglio. Inoltre, c’è speculazione interna e, per questo, abbiamo deciso di proibire l’esportazione di pollame, olio di soia e altri prodotti di base. Non è ammissibile che alcune industrie pensino prima al profitto e poi a dare il loro contributo per il Paese. Prima la grana, poi il popolo. Sono obbligato a difendere l’economia popolare con decreti. Quello che chiediamo ai produttori è che prima di ogni cosa supportino il mercato interno, con prezzi ragionevoli, e poi vendano all’estero l’eccedente. Condivido, in questo caso, il messaggio del papa di non accumulare ricchezza. Quello che facciamo è cercare uguaglianza e giustizia. C’è molta strumentalizzazione politica. Esiste un gruppo di industriali che alza i prezzi e nasconde i prodotti per logorarmi, per combattermi, per tentare di destabilizzarmi. Ma siamo sempre disposti a dialogare.

Gli imprenditori di Santa Cruz, cui lei fa riferimento, dicono che la proibizione delle esportazioni ha per obiettivo di indebolire il referendum per l’autonomia previsto per il 4 maggio.

Come possono confondere la difesa dell’economia popolare con una manovra contro il referendum? Non siamo contro Santa Cruz, né tutti gli abitanti di Santa Cruz sono padroni di fabbriche di olio di soia. La produzione è controllata da poche famiglie. Non c’è alcun obiettivo di arrecare danno ad alcuno, solo di fare in modo che i prezzi si abbassino. Tanto che il governo ha cominciato a comprare soia per evitare che vi siano speculazioni e che venga a mancare il prodotto. Chi pianta, produce, non avrà problemi.

 Il presidente del Perù, Alan García, ha criticato le sue misure poiché compra gran parte dell’olio dalla Bolivia. Lei come legge queste critiche?

Il presidente Alan García ha tutto il diritto di esprimersi, ma io gli chiederei di conversare con alcuni industriali peruviani che producono olio di soia in Bolivia. Che faccia loro capire la necessità di mantenere prezzi ragionevoli per il consumo dei boliviani. Riconosco l’esistenza del problema, ma sono certo che giungeremo ad un accordo con queste grandi industrie. Faccio conto sul presidente García per un dialogo che possa risolvere il problema nel migliore dei modi.

Pensa di rivedere la decisione della proibizione?

Se avessi la garanzia di un calo dei prezzi...

Torniamo al tema del referendum. Come reagirà lei se Santa Cruz decreterà l’autonomia il 4 maggio?

Da parte nostra, stiamo facendo tutti gli sforzi per impedire la realizzazione del referendum. È un movimento eparatista, divisionista. La nuova Costituzione, in dibattito in Parlamento, propone autonomia purché sia fatta su una base di solidarietà ed uguaglianza e non comprometta l’unità del Paese. Quello che vogliono fare il 4 maggio è illegale e incostituzionale. In questo modo non si può fare. Se necessario, chiederemo una mediazione internazionale. E denuncio qui una chiara interferenza degli Stati Uniti che appoggiano finanziariamente i separatisti per destabilizzare il mio governo. Gli Stati Uniti, come sappiamo, sono specialisti nel dividere Paesi. L’esempio più recente è il Kossovo.

Come stanno interferendo gli Stati Uniti?

C’è una sfrontata partecipazione dell’ambasciata americana nell’organizzazione del movimento per l’autonomia. Stanno dando soldi, appoggio logistico. Abbiamo le prove. Ho chiesto al presidente Lula, che mantiene buone relazioni con Bush, di sollecitare gli americani perché la smettano con questa campagna orchestrata.

L’inflazione in Bolivia è molto alta. Come controllarla?

Per prima cosa, gli esportatori devono soddisfare il mercato interno, poi che esportino pure. Secondo, abbiamo bisogno di nuovi investimenti nella produzione di riso, miglio, soia, grano. Faremo credito ai piccoli produttori, senza interessi. Faremo crediti anche a medi e grandi produttori per garantire la produzione. Costruiremo fabbriche.

Come intende garantire l’unità della Bolivia?

Al di sopra di qualsiasi rivendicazione regionale, c’è l’unità del Paese. Dobbiamo fare tutto quello che possiamo in favore dell’unità. Storicamente, ogni volta che vien fuori qualcuno pronto a ribellarsi contro gli effetti del colonialismo, ricompare il tema delle autonomie. Le persone che ora difendono il referendum sono state al potere negli ultimi 20 anni, ma non hanno lavorato per l’autonomia che difendono tanto ora. I neoliberisti non hanno mai parlato di questo, non se ne sono mai interessati quando stavano al potere, quando comandavano da questo palazzo. Ma è bastato che un rappresentante degli indigeni giungesse alla presidenza perché questo grido ritornasse. Una questione politica. Nella nostra Costituzione accettiamo l’autonomia dei dipartimenti e proponiamo, come faremo, le autonomie provinciali e indigene. Ma loro rifiutano di accettare questi punti della Costituzione. Non vogliono l’autonomia degli indios. Ma questo che significa? Vogliono un centralismo dipartimentale per continuare ad essere parassiti del popolo? Per quel che possiamo dire, non vogliono allargare il piatto. Vogliono mantenere la loro pappatoria.

Perché c’è tanta resistenza al suo governo?

Perché lottiamo per l’uguaglianza. Perché importuniamo alcuni gruppi, alcuni oligarchi. Al tempo della colonia, il potere stava nelle mani del re, dei viceré. Poi si è aggiunta la Chiesa cattolica, che tanti danni ha causato agli indios. Forse è cambiata, rispettiamo la Chiesa di base. La lotta di Cristo è la nostra lotta. Ma la Chiesa cattolica ha partecipato al saccheggio contro i popoli nativi. Mi dispiace che alcuni gruppi non accettino il fatto che un indio stia promuovendo l’uguaglianza con risultati tanto importanti. Il razzismo in Bolivia è radicato. In fondo la questione non è l’autonomia, non è l’inflazione, non sono le difficoltà economiche. Il problema è Evo Morales. Non accettano che un indigeno possa portare il Paese ad una rivoluzione sociale.

Lei parla di razzismo, ma l’opposizione fa altrettanto. Dicono, per esempio, che la nuova Costituzione discrimina bianchi e meticci a favore degli indios.

In quale articolo? La Costituzione crea uno Stato plurinazionale. Rispettiamo la proprietà privata, ma regolamentiamo anche la proprietà pubblica e quella collettiva. Cerchiamo di rispettare non solo la diversità etnica, ma anche quella economica. Oltre a ciò - e questo infastidisce alcuni industriali - consideriamo i servizi di base, come luce e acqua, non solo nel loro aspetto economico, ma nella loro essenza di diritto umano. E ci sono altri aspetti. Forse irrita certi gruppi il fatto che la nuova Costituzione non accetti alcuna base militare straniera. Ancora, per la prima volta, inseriamo nelle leggi il diritto degli indios, che sono la maggioranza assoluta della popolazione. Qui non è mai stata ammessa questa possibilità. A livello internazionale, abbiamo registrato una recente vittoria: l’Onu ha riconosciuto la dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni. Prima, erano considerati selvaggi, animali. Un politico, non molto tempo fa, ha definito il compagno Hugo Chávez un grande macaco e ha detto di me che sono un macaco più piccolo. Ci considerano ancora animali, si figuri.

Uno dei punti della Costituzione criticati dall’opposizione è l’esigenza che i funzionari pubblici parlino, oltre allo spagnolo, almeno un dialetto indigeno.

Sono stato a Barcellona da poco. Là la lingua dominante non è lo spagnolo, ma il catalano. I giornali sono scritti in catalano, anche televisione e radio usano questa lingua. Ci sono università dove si utilizza il catalano come lingua principale. In Bolivia, la maggioranza della popolazione è costituita da indios, che hanno nei loro dialetti la principale forma di espressione. Pertanto, se è di inclusione che stiamo parlando, non ha senso mantenere un servizio pubblico impreparato ad ascoltare e servire questa parte della società boliviana. Stiamo includendo, non escludendo. Perciò, se l’impiegato vive a La Paz, deve parlare spagnolo e aymara. Se sta a Cochabamba, deve anche sapersi esprimere in quechua. E così via.

Dal momento della nazionalizzazione, la produzione di gas della Bolivia è diminuita. Ciò malgrado, il suo governo ha firmato accordi per aumentarne la fornitura all’Argentina. Come pensa di rispettare tutti gli impegni, compresi quelli assunti con il Brasile?

Con gli investimenti. Prima di tutto, la Bolivia vuole soci, non padroni. Credo che la fase di sfiducia provocata dalla nazionalizzazione sia superata. Guardi la ripresa degli accordi con la Petrobras, assolutamente benvenuti. Prima, al tempo della privatizzazione, il più alto investimento nella produzione è stato quello del 1998, pari a 600 milioni di dollari. L’anno passato, gli investimenti hanno raggiunto la somma di 1,2 miliardi di dollari. È un record storico. Rispettiamo il governo del Brasile e rispetteremo tutti gli impegni presi con questo Paese, ma da una nazione tanto grande ci attendiamo anche solidarietà.

Cosa si aspetta dal Brasile?

Sono un profondo ammiratore del compagno Lula. Per noi è sempre stato un mito. Per me è come un fratello maggiore. Entrambi abbiamo lavorato per l’emancipazione dei nostri popoli. Spero di mantenere queste buone relazioni e di poter contare su investimenti brasiliani ben oltre quelli nel settore del gas. Ci sono molte opportunità in Bolivia. C’è molto da fare. L’integrazione regionale è cruciale per il nostro sviluppo. Credo lo sia anche per il Brasile.

Il presidente Hugo Chávez ha fatto prestiti alla Bolivia. L’opposizione dice che queste transazioni sono prive di trasparenza, affermano che sta contraendo un debito estero non contabilizzato. Il Venezuela come aiuta il suo governo?

Mi accusano di tutto. Neanche avevo sentito parlare di Soros (George, l’investitore internazionale) e hanno detto che avevo ricevuto 1 milione di dollari per favorire i suoi interessi in Bolivia. Hanno detto che ricevo denaro dalle Farc, che proteggo il narcotraffico. Hanno tentato di comprarmi. Una volta, quando ero sindacalista, un sacerdote, su mandato dei governanti, ha tentato di offrirmi denaro. Diceva: “Evo, il ministro vuole parlare con lei, a quattr’occhi, forse può esserle d’aiuto nella sua campagna”. Sono ormai vent’anni che lavoro nella dirigenza sindacale e non c’è niente che possano dire sulla mia onorabilità. Quanto a Chávez, è un compagno che ha contribuito con investimenti, da parte della Pdvsa (la compagnia statale petrolifera del Venezuela).

L’ambasciata del Venezuela finanzia anche piccoli progetti nell’area dello sport e dell’educazione. È una cooperazione trasparente. Non stiamo accumulando nessun debito con il Venezuela. Inoltre, non è la prima volta che i venezuelani danno una mano alla Bolivia. Ai tempi di Andrés Pérez, hanno costruito la pista dell’aeroporto di Sucre. Non ci sono mai state proteste per questi aiuti. Ma siccome si tratta di me e del compagno Chávez...

È un’alleanza importante.

Fondamentale. In Bolivia, abbiamo tentato di costruire un Paese nuovo con le nostre proprie risorse. Ma abbiamo bisogno di cooperazione. L’idea di fondare lo sviluppo di una nazione sulle proprie risorse, di avere un progetto proprio, fa di me un ammiratore del comandante Fidel. Mi piace molto e mi dispiace che stia male. Purtroppo così è la vita. Che ci accompagni per molto tempo ancora. Gli Stati Uniti definiscono me, Chávez e Fidel l’asse del male. Penso che siamo l’asse del bene, dell’umanità. Forse che Cuba manda truppe per uccidere in altre nazioni? No, manda aiuti. Qui abbiamo più di mille medici cubani che lavorano a favore del popolo. Lo fanno senza chiedere niente, né un solo pozzo di petrolio, né un ettaro scarso di terra. Fidel è un leader che pratica la solidarietà. Mentre gli Stati Uniti uccidono, sono avidi. Per me, sta qui il vero asse del male.

Il governo Bush, oltretutto, è tornato ad accusare la Bolivia di proteggere il traffico di droga. Lei che ne pensa?

Che autorevolezza morale hanno gli Stati Uniti per parlare di lotta contro il narcotraffico? Se vogliono sradicare il narcotraffico, la prima cosa che devono fare è appoggiare l’uso legale della foglia di coca. Così nessuna foglia sarà dirottata verso la produzione illegale della cocaina. Se vogliono avere autorevolezza nella critica, devono combattere il consumo di droghe all’interno del loro Paese. E perché non combattono il riciclaggio del denaro proveniente dal commercio di droghe? Non sarà che i trafficanti investono milioni di dollari in borsa o li movimentano nel settore finanziario internazionale con la partecipazione attiva delle istituzioni americane? Lanciano accuse con altri interessi. Hanno affermato che c’erano armi di distruzione di massa in Iraq per fare la guerra e mantenere il controllo sul petrolio. Lo stesso in Sudamerica: cercano pretesti per impossessarsi dei nostri beni minerari. Non sto assolutamente difendendo il narcotraffico. Non siamo dalla parte della cocaina. Combattiamo e combatteremo sempre il crimine. Ma non ha senso sottomettermi ad indagini e a certificazioni straniere. Sono strumenti di ricolonizzazione. Quello che voglio è metter su una rete regionale di lotta al narcotraffico con il Brasile e l’Argentina. Il Brasile si può per esempio occupare del controllo aereo, via satellite. Inoltre per gli Stati Uniti è un altro modo di creare fantasmi.

Come il pericolo comunista.

Già. Quando ero bambino, i sindacati dei minatori in Bolivia erano perseguiti perché ritenuti un covo di comunisti. Molti sono stati arrestati, torturati, il tutto per combattere il pericolo rosso. Hanno giustificato così anche i colpi di Stato. Siccome non possono più parlare di comunismo, ora ci accusano di narcotraffico. Anche il Subcomandante Marcos, del Chiapas (Messico), è stato accusato di avere legami con i trafficanti di droga. È successo anche a Chávez. Mi ricordo di quando, ancora deputato, incontrai Chávez. Siccome sono legato al movimento dei piantatori di coca, i giornali venezuelani trassero la conclusione che il loro presidente era un narcotrafficante semplicemente per aver messo in agenda una riunione con me e con altri leader indigeni. Per loro, era la prova definitiva (ride). Alla fine l’incontro non ci fu e molti compagni dissero che la colpa era mia (ride ancora di più). Ma c’è stato un altro cambiamento fondamentale nelle accuse. Dopo l’11 settembre, non siamo più comunisti o trafficanti, siamo terroristi. Nel 2002, l’ambasciatore degli Stati Uniti ha detto ai giornali della Bolivia che io sono il Bin Laden andino e che i cocaleros sono i talebani. E questo ha un senso pratico: se siamo classificati come terroristi, il governo nordamericano ha tutte le carte in regola per appoggiare l’opposizione qui da noi. Come ha fatto, sfacciatamente.

 Aumentano i  leader della sinistra al potere in America Latina. È un momento particolare nel percorso della regione, no?

Sono rimasto soddisfatto della riunione del Gruppo di Rio che ha discusso della crisi fra la Colombia e l’Ecuador. La questione è stata risolta dai leader della regione. È finita l’epoca del padrone che decideva per tutti. È stato un momento storico. Come la vittoria dei governi espressione di movimenti sociali. C’è Lula, dirigente sindacale. C’è Michelle Bachelet, rappresentante delle donne, come pure Cristina Kirchner in Argentina, abbastanza discriminate in una regione maschilista quale il Sudamerica. E possiamo aggiungere Chávez, un militare ribelle, un uomo che lavora per la Patria Grande, come Simón Bolívar.  È un complesso di politici che rappresenta lotte di decenni, giunto al potere con l’intenzione di liberarci dall’impero. Per questo parlo di democrazie liberatrici. E non ci mancano le risorse. Stamattina ho incontrato imprenditori francesi che sono venuti a parlarmi del potenziale del litio. Mi hanno detto che tra qualche tempo sarà possibile guidare una macchina alimentata da litio. Sono rimasto impressionato.

 E cosa proponevano?

Di fare una fabbrica per mettere a frutto il litio. Possiamo diventare il terzo maggiore produttore al mondo. Da qui ad un anno e mezzo potremmo esportare non solo litio, ma borio, potassio, manganese. Se la madre terra offre simili risorse naturali, perché dobbiamo lasciare che ci saccheggino? Abbiamo l’obbligo di pensare all’integrazione regionale, di unirci perché i benefici delle nostre risorse naturali siano innanzitutto del nostro popolo. In nome della giustizia e dell’uguaglianza. n

 

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