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RELIGIOSO, ALLA RADICE DELLA FEDE. UN LIBRO DI GABRIELLA CARAMORE

Tratto da: Adista Notizie n° 47 del 21/06/2008

34487. ROMA-ADISTA. “Ho voluto guardare alla posizione di chi sta sul limitare delle cose, non per amore della inappartenenza, ma per fiducia che si possa, esitando, dilatare sguardi e conoscenza”. Così Gabriella Caramore - scrittrice e autrice del programma in onda su Radio3 Rai “Uomini e profeti” - nella prefazione del suo ultimo libro La fatica della luce. Confini del religioso (Morcelliana 2008, pp. 243, 16 euro). Il “confine” è scelto dalla Caramore come “luogo fecondo per conoscere il proprio tempo e la propria storia” e per guardare “oltre ciò che arriviamo a comprendere, per guardare a quel luogo che alcuni chiamano Dio”. Ma il confine cui allude l’autrice è ben lungi dal costituire un tratto di demarcazione, magari di chiusura, o comunque di chiarificazione identitaria in tempi che sembrano dominati dalla paura per la violazione dei confini e degli argini. Più che di disegnare un bordo, il confine ha qui la funzione di essere “stazione di infinite metamorfosi, di multiformi configurazioni”.

È così che il cammino lungo il confine, lo spingersi verso un limite estremo dell’ignoto, può da un lato iniziare ai territori della trascendenza, dall’altro arricchire lo sguardo sulla concretezza storica e mettere in guardia da molti pericoli, a cominciare da quelli che corrono le ‘istituzioni sacre’: “L’idea di un Dio – scrive la Caramore –, tanto più grande, inconoscibile, irraggiungibile rispetto alle piccole creature che si affacciano intorno ai loro limiti, dovrebbe escludere che esista in mezzo agli esseri umani un’etica degli ‘assoluti’, di dettami morali che qualcuno stabilisce per tutti, e invece sollecitare a ricercare un’etica ‘relativa’ alle nostre limitate possibilità, attenendosi alla difesa dei più deboli, affaccendandosi nella costruzione di un bene comune, perché sia possibile per tutti assaporare ‘tutto quello che offre il mondo’, come diceva un antico monaco cinese”. “Perciò – aggiunge l’autrice – è tanto più grave che oggi vi siano religioni, Chiese, esponenti di fedi che pretendono di indicare, se non di imporre, modalità di comportamento pratico con valore di ‘assoluti’, invece che testimoniare fedeltà alla difficile ed esigente parola del loro Dio, ma lasciando che la morale di ciascuno e della società civile trovi le soluzioni per una morale, una politica, una civiltà da condividere”. Del resto la tentazione di imporre più che di testimoniare, è figlia di quella stessa paura della relazione che porta a trasformare i confini in protezioni tramite le quali distinguere, escludere, discriminare e combattere. E quando bisogna proteggere qualcosa, non importa quali sono gli alleati a cui si chiede aiuto.

Il paradosso cui si giunge - esaminato dall’autrice attraverso un lungo percorso che lambisce i territori della preghiera, della questione del male, della morte, della libertà, del credere e del non credere - è quello di una religione che più si chiude per salvaguardare la propria identità e più in realtà perde il contatto con le proprie radici, con il senso più profondo dell’esperienza religiosa. È il rischio di una “Chiesa ‘atea’, nel senso che ha altri dei, ma non ‘quel’ Dio della promessa”, di una Chiesa che pensa a “salvare se stessa”, perché “spaventata dall’essere diventata minoritaria”. Ma in questo modo la Chiesa rischia appunto di non aver “più bisogno di Dio”, finendo per “ritrovarsi incapace di formulare un linguaggio che torni a suscitare stupore, dinamismo, prospettiva”. (emilio carnevali)

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