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40 ANNI DOPO LA CONFERENZA DI MEDELLIN

Tratto da: Adista Documenti n° 60 del 06/09/2008

Il documento di Aparecida proclama con molta forza di volersi porre in continuità con la Conferenza di Medellín. Tale affermazione ha rallegrato molti cattolici che avevano l’impressione che in America Latina la Chiesa si fosse allontanata da Medellín. Tuttavia, guardando con più attenzione ai documenti delle due conferenze, è impossibile non percepire differenze fondamentali.

Il Documento di Medellín intendeva applicare il Concilio Vaticano II in America Latina. Effettivamente, a Medellín il messaggio basilare veniva dalla Gaudium et Spes. Ma la Conferenza di Medellín era anche un’applicazione del Patto delle Catacombe firmato da 40 vescovi in una catacomba di Roma alla fine del Concilio. Con questo patto i vescovi assumevano l’impegno di una vita povera al servizio dei poveri. Molti di coloro che firmarono il Patto erano vescovi del Terzo Mondo e c’era tra loro un gruppo importante di latinoamericani. È chiaro che c’era dom Helder Câmara all’origine di questo Patto. Ed esso era nell’aria a Medellín, nonostante, per ovvie ragioni, non venisse mai menzionato.

La Curia romana era diffidente, malgrado Paolo VI avesse accettato la proposta di Medellín con grande soddisfazione. Così, cambiò qualcosa della programmazione per ridurre la durata degli interventi di vescovi come Leonidas Proaño, assegnando la metà del suo tempo a dom Eugenio Sales, che era pienamente affidabile e naturalmente sarebbe stato molto più moderato. La curia romana eliminò anche dalla lista degli assessori quattro belgi, tutti legati all’Uni-versità di Lovanio, ritenuta pericolosa. Io ero uno dei quattro. Ma la curia, rappresentata a Medellín dal cardinal Samoré, uno dei tre presidenti, non riuscì ad orientare i dibattiti e la redazione del documento, che venne pubblicato immediatamente al termine della Conferenza così come era stato redatto dalle commissioni. Il card. Samoré non riuscì a sospendere la pubblicazione del testo prima che fosse inviato a Roma per le correzioni. Al suo ritorno a Roma, il cardinale venne severamente punito. Ma ormai il documento era nelle mani dei latinoamericani.

Dalla Rivoluzione Francese, che aveva iniziato il processo di distruzione della cristianità dell’Occidente (romana), fino al Vaticano II, i documenti della Chiesa erano basati sulla riaffermazione dell’identità cattolica, identificata con l’istituzione definita nel Concilio di Trento, e sull’invito alla conversione ai popoli che si erano allontanati dalla Chiesa. Si credeva che la formulazione del cattolicesimo integrale avrebbe condotto alla conversione del mondo peccatore, che sarebbe tornato al seno materno della Chiesa. Il processo a cui si anelava era la conversione del mondo alla Chiesa. E il mondo non si era convertito.

Giovanni XXIII volle cambiare questo orientamento. Volle che la Chiesa guardasse al mondo in maniera più positiva e proclamò la fine dell’era delle condanne. Condanne che ricadevano sui cattolici che miravano ad un avvicinamento alla nuova società nata dalle rivoluzioni moderne. Giovanni XXIII creò nel Concilio un ambiente favorevole a questa posizione, ma non tutti quelli che votarono a favore dei testi conciliari compresero e approvarono interiormente. D’altra parte tali testi sono molto eterogenei, perché la maggioranza volle accontentare la minoranza conservatrice inserendo idee che erano contrarie a quello che si proclamava in altre parti. Ciascuno poteva scegliere i testi di proprio gradimento.

Il Concilio avanzò sempre più sulla linea data da papa Giovanni XXIII, che venne assunta da Paolo VI. Il passo finale e definitivo fu dato nella Gaudium et Spes. In questa Costituzione la Chiesa prese ad orientamento il servizio all’umanità. Implicitamente il tema dominante è quello di una conversione della Chiesa al mondo. È ciò che Paolo VI sottolineò e difese chiaramente nel suo discorso di chiusura. Il centro era l’essere umano e la Chiesa era al servizio dell’essere umano.

Conversione del mondo alla Chiesa o conversione della Chiesa al mondo. Questo è il dilemma. Fin dall’introduzio-ne, il Documento di Medellín definisce chiaramente il proposito della Conferenza. "La Chiesa latinoamericana, riunita nella II Conferenza Generale del suo Episcopato, ha posto al centro della sua attenzione l’uomo di questo continente, che vive un momento decisivo del suo processo storico. Ma in questo modo non crede di aver ‘deviato’, bensì di essere ‘tornata verso l’uomo’, cosciente del fatto che, ‘per conoscere Dio, è necessario conoscere l’uomo’. Poiché Cristo è colui in cui si manifesta il mistero dell’uomo. La Chiesa ha cercato di comprendere questo momento storico dell’uomo latinoamericano alla luce della Parola che è Cristo. Ha cercato di essere illuminata da questa parola per prendere coscienza in maniera più profonda del servizio che le tocca prestare in questo momento".

Così, invece, inizia l’introduzione del Documento de Aparecida:

"Con la luce del Signore resuscitato e con la forza dello Spirito Santo, noi vescovi d’America ci siamo riuniti ad Aparecida, Brasile, per celebrare la V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi. Lo abbiamo fatto come pastori che vogliono continuare a stimolare l’azione evangelizzatrice della Chiesa, chiamata a fare di tutti i suoi membri dei discepoli e missionari di Cristo, Via, Verità e Vita, perché i nostri popoli abbiano vita in Lui".

Fin dalle prime parole, la differenza è evidente. In un caso il centro è l’essere umano, nell’altro è la Chiesa. In entrambi c’era un’opzione di base e tutto il lavoro delle due assemblee è consistito nell’esplicitare tale opzione esaminandola nei diversi aspetti.

Altra differenza importante appare nella metodologia adottata. A Medellín le 16 commissioni seguirono il metodo del vedere, giudicare e agire. In ogni questione il punto di partenza era quello di vedere la situazione; quindi si cercava nella rivelazione cristiana la norma che si applicava a quella situazione, il giudicare; infine, venivano le raccomandazioni pastorali per l’azione, l’agire.

Nel documento di Aparecida, l’insieme del testo è diviso in tre parti: una affronta il vedere, un’altra il giudicare e la terza l’agire. Alcune commissioni hanno esaminato la situazione, altre la dottrina, e altre ancora l’azione. Il risultato è che non appare alcuna relazione tra il vedere, il giudicare e l’agire. L’agire non ha nulla da spartire con il vedere e così via. Ufficialmente ad Aparecida i vescovi hanno adottato il metodo del vedere, giudicare a agire, ma in maniera non operativa. Non si può dire che la dottrina sia la risposta alla situazione dell’America Latina. Essa vale per qualunque luogo al mondo. E neppure l’agire è la risposta alla situazione sociale o ecclesiale.

A Medellín ogni commissione redasse il suo testo. Ad Aparecida il testo è stato opera di una commissione di redazione. Il risultato è che nel documento di Aparecida c’è maggiore omogeneità di stile e di vocabolario e più coesione tra i temi. Ma il discorso dei vescovi è soffocato dal discorso della commissione di redazione. Il testo è migliore dal punto di vista letterario e più omogeneo, ma ha molta meno ripercussione.

Il documento di Medellín è chiaramente centrato sul tema della povertà. Esso fu il prolungamento del Patto delle Catacombe. In tale opzione possiamo discernere il riconoscimento della conversione di vari vescovi e vari sacerdoti in America Latina, che si avvicinarono ai poveri, convivendo con essi, soffrendo e vivendo il loro dolore e le loro umiliazioni. Tutto questo già esisteva prima di Medellín. C’era già la traiettoria di dom Helder Câmara e di vari vescovi del Brasile che avevano fatto l’opzione per i poveri. C’era già la lotta di Leonidas Proaño a favore degli indios in Ecuador, di José Dammert in Perú, di Samuel Ruiz in Messico, di Enrique Angelelli in Argentina e di vari altri. C’era già la marcia di vari sacerdoti verso il mondo dei poveri in vari Paesi. E c’era la presenza di Paolo VI, animato dal Concilio e fortemente impegnato in questa linea, che esortava i vescovi ad un maggiore impegno con i poveri.

"La Chiesa dell’America Latina, considerate le condizioni di povertà e di sottosviluppo del continente, avverte l’urgenza di tradurre questo spirito di povertà in gesti, comportamenti e norme che la rendano un segno più chiaro ed autentico del Signore. La povertà di tanti fratelli esorta alla giustizia, alla solidarietà, alla testimonianza, all’impegno, allo sforzo per il suo superamento per il compimento pieno della missione salvifica affidata da Cristo" (14. Pobreza de la Iglesia, 6).

Per questo Medellín aveva accenti profetici: "Un sordo clamore proveniente da milioni di esseri umani chiede ai loro pastori una liberazione che non arriva loro da nessuna parte" (14. Pobreza de la Iglesia, 2).

L’educazione sarebbe stata un’"educazione liberatrice", cioè in grado di trasformare l’educando in soggetto del proprio sviluppo". L’educazione è effettivamente lo strumento chiave per liberare i poveri da ogni sottomissione" (4. Educación, II, 1).

Medellín non aveva quindi paura della parola liberazione. La usò molte volte senza alcun aggettivo. Adottò il tema della liberazione quando la Teologia della Liberazione ancora non esisteva. A lanciare la Teologia della Liberazione fu la Conferenza di Medellín. Questo non venne mai nascosto e tutti i teologi presero Medellín come riferimento privilegiato.

Le raccomandazioni pratiche erano ispirate allo stesso spirito. "Riguardo ai sacerdoti, incoraggeremo quanti si sentono chiamati a condividere la sorte dei poveri, vivendo con loro e lavorando con le loro stesse mani" (14. Pobreza de la Iglesia, 9a).

Quanto alla pastorale delle élite, "questa evangelizzazione deve relazionarsi ai segni dei tempi. Non può essere atemporale né astorica. I segni dei tempi osservati nel nostro continente, soprattutto nella sfera sociale, costituiscono infatti un ‘dato teológico’". (7. Pastoral de las elites, II, 2).

Il Documento di Medellín non ha paura della parola giustizia. L’uso o meno della parola è un buon segnale di identificazione. Le classi dirigenti hanno orrore della parola giustizia. Si sentono sfidate. La povertà è ancora una parola accettabile, ma mai quando è associata alla parola giustizia. È un buon esercizio cercare quante volte un documento usi questa associazione tra povero e giustizia. L’opzione per i poveri non spaventa molto quando non è associata a questa parola.

La ripercussione di Medellín fu straordinaria. La Conferenza di Puebla volle porsi in continuità con Medellín: "Ci siamo posti nella dinamica di Medellín, la cui visione della realtà abbiamo assunto, diventata fonte di ispirazione per tanti dei nostri documenti pastorali dell’ultimo decennio" (Puebla, n. 25).

José Marins ha condotto uno studio dei documenti ispirati a Medellín fino a Puebla. Egli cita 457 documenti di conferenze episcopali o gruppi di vescovi ispirati esplicitamente al Documento di Medellín. In testa c’è il Cile con 70 documenti, seguito dalla Bolivia con 53, dal Brasile con 50, da El Salvador con 41, dalla Colombia con 33, dall’Argentina con 30 (José Marins e la sua équipe, De Medellín a Puebla. La praxis de los padres de América Latina, ed. Paul., Sao Paulo, 1979).

Era prevedibile che il Documento di Medellín non suscitasse solo adesioni. Gli furono rivolte anche critiche. Le più gravi da parte dello stesso Celam, la cui direzione venne radicalmente cambiata nel 1973, soprattutto grazie all’azione di Alfonso López Trujillo, segretario generale e organizzatore della Conferenza di Puebla. Il grande argomento ripetuto instancabilmente fu che la Conferenza di Medellín era stata male interpretata. Nei suoi propositi, la Conferenza di Puebla avrebbe dovuto rettificare le false interpretazioni di Medellín.

A Puebla non si produsse l’attesa rettifica. Per molti aspetti, Puebla rese più esplicito quanto c’era a Medellín. Tuttavia l’argomento della falsa interpretazione di Medellín ebbe lunga vita negli ambienti conservatori.

Molti storici, osservatori, sociologi, teologi e pastori hanno ritenuto che a Medellín la Chiesa latinoamericana avesse raggiunto la piena maturità. Che avesse pensato e parlato a nome proprio. Che avesse guardato a se stessa con occhi propri e non con occhi altrui. Medelllín andò oltre il Concilio Vaticano II, soprattutto rispetto alla questione della povertà. Giovanni XXIII voleva che si proclamasse la Chiesa dei poveri. Malgrado gli sforzi del cardinal Lercaro, non riuscì a farsi comprendere. Ma il tema venne assunto dai leader dell’episcopato latinoamericano e divenne l’anima e il centro della Conferenza di Medellín. La Chiesa latinoamericana assunse un proprio atteggiamento che le attribuì nel mondo un carattere molto speciale.

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