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IL BANCHETTO DELLA FEDE

Tratto da: Adista Documenti n° 64 del 20/09/2008

È una gioia ed un privilegio essere qui con voi, coraggiosi “pazzi a causa di Cristo” (1 Cor 4,10), che avete risposto alla chiamata al servizio di leadership in questi tempi difficili. Le passate assemblee della LCWR e della CMSM hanno chiarito abbondantemente che, nelle nazioni industrializzate con una cultura laica come Stati Uniti e Canada, la vita religiosa attraversa un’epoca di grande transizione, con tutte le difficoltà e i tormenti che tale passaggio comporta. L’au-mento dell’età media, la scarsità numerica e i decessi sollevano questioni difficili sulla forma della vita religiosa in futuro; una riconfigurazione implica nuovi strategici modelli di relazione, mentre inattese esperienze spirituali liberano immaginazione ed energie per la missione. Spesso ho ripetuto la semplice verità che non possiamo scegliere quando vivere nella storia. Siamo nati in un certo momento, ed abbiamo un pugno di anni per lasciare il nostro segno, nel bene e nel male. Quindi, per quanto difficile e faticosa possa essere, questa epoca incerta è il nostro tempo, l’unico che abbiamo. E voi dovete esercitare la vostra leadership!

Per farlo, dovete alimentarvi abbondantemente alla vera fonte della fede. La vita religiosa, infatti, è fondata sulla relazione con il Dio vivente, ancorata ad essa tanto profondamente da esserne sostenuta e nutrita nonostante la tribolazione, e da trarne forza per la missione. L’immagine della montagna che ispira quest’assemblea esprime la promessa che tale montagna sarà luogo di questo nutrimento. Come ci dice il profeta Isaia nella nostra bellissima preghiera del mattino: “Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte, un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti, di cibi succulenti, di vini raffinati”. Qui come altrove nella Scrittura, un pasto delizioso che nutre il corpo serve come metafora dell’insegnamento divino che nutre lo spirito. In questa presentazione, su questo santo monte, vi invito a festeggiare al banchetto della fede.

Un luogo chiave in cui trovare il menu per questo banchetto è il Credo, un breve compendio della fede che si recita insieme come una preghiera. (...).

 

Adesione all’amore

Le parole con cui il Credo si apre, “Credo…”, indicano che siamo qui impegnati in un atto di fede.

Ciò non significa dare il nostro consenso intellettuale ad una serie di verità. Piuttosto, dicendo “credo”, vogliamo dire che osiamo basare la nostra vita su questa storia. La fede, nella visione biblica, è sempre un dono di Dio che ci consente di avere fiducia in colui che ci ha promesso la sua fedeltà. Martin Lutero si espresse così: la fede è affidarsi a Dio, l’unico da cui il tuo cuore dipende, verso cui inclina, su cui conta e riposa. Nel nucleo, che cosa spiega il Credo? Che l’indescrivibile mistero di Dio è impensabilmente vicino, e riversa amore misericordioso nel nostro buio, nell’ingiustizia, nel peccato e nella morte. Fede significa credere che ciò è vero, poggiare il proprio cuore su questa roccia. Dicendo “credo”, aderiamo a questo Amore con tutto l’essere, rischiando una relazione che ha il potere di trasformare la nostra vita e il nostro ministero. E lo facciamo insieme, come comunità.

 

La legge e il caso

Il Credo inizia dicendo “Credo in un solo Dio…” e continua affermando che la prima firma di questo indescrivibile Uno è creare tutto ciò che esiste nel cielo e sulla terra, visibile e invisibile. Come in un’opera d’arte si trova qualcosa dell’artista che l’ha creata, così, dai tempi biblici in poi, si è notato che la bellezza e il potere del mondo naturale possono rivelare la gloria del Dio invisibile che l’ha creato. Nel XIII secolo il teologo francescano Bonaventura osservò acutamente: “Chi non è illuminato dallo splendore del creato è cieco; chi non si fa raggiungere dal suono della loro voce è sordo; chi non loda Dio per tutte queste creature è muto; chi dopo tante prove non riconosce il creatore di tutte le cose è stolto (stultus est)”. Questa relazione stabilisce il principio teologico per cui la presenza della grazia di Dio viene comunicata tramite le cose visibili. La teologia sacramentale ha sempre insegnato che le semplici cose terrene – pane, vino, acqua, olio, la relazione incarnata, sessuale del matrimonio – possono essere portatori di grazia divina. Quindi è da qui che bisogna partire, perché il creato è il sacramento primigenio, il veicolo primario della benedizione divina. “Il mondo è carico della bellezza di Dio”, scriveva il poeta Gerard Manley Hopkins, e il Credo inizia affermando che Dio crea e ama il tutto. Questo è l’insegnamento della tradizione cattolica. Ad esso la contemporanea ricerca scientifica sta portando una spinta dinamica, con la sua consapevolezza che il mondo non è creato una volta per tutte in modo statico, ma si è evoluto attraverso una stupefacente gamma di cambiamenti per arrivare ad essere il luogo che abitiamo oggi. Vista con gli occhi della fede, questa nuova conoscenza trabocca di riferimenti alla creazione e al suo creatore. (...).

Quando la teologia dialoga con questa storia scientifica, emergono almeno due aspetti importanti. Primo, che il creatore del cielo e della terra è ancora al lavoro. Il mondo stupefacente avviato dalla cosmologia del Big Bang e dalla biologia evolutiva indica che la creazione non ha avuto luogo solo all’inizio, ma che anche ora il mondo si modella per il futuro. La creazione continua di Dio opera non solo sostenendo il mondo, ma anche continuando a portare avanti il nuovo. Come?

Quando chiediamo alla scienza come funziona l’evolu-zione, apprendiamo che in ogni fase della storia del mondo, il caso, la sorte, gioca un ruolo. Nuove specie compaiono in modi intrinsecamente imprevedibili. Le cose vanno avanti lisce fino a quando casualmente viene introdotto un minuscolo cambiamento: un gene muta per il bombardamento dei raggi solari, un uragano devia il corso di alcuni uccelli su un’isola nuova, la Terra è colpita da un asteroide. Ciò provoca cambiamenti lievi fino al punto di rottura. Allora da questo disordine emerge, dalla natura stessa, un ordine più complesso adatto alle nuove condizioni.

Tecnicamente parlando, eventi casuali all’interno di una regolarità codificata nel corso di eoni hanno dato forma al mondo che abitiamo oggi, e continuano a farlo. Se ci fosse solo legge nell’universo, la situazione stagnerebbe. Se ci fosse solo il caso, le cose diventerebbero così caotiche che non potrebbero esserci strutture ordinate. Ma il caso che lavora all’interno delle leggi della natura rompe il modello consolidato, mentre la legge lo tiene sotto controllo, e in milioni di anni la loro interazione permette l’emergere di forme di vita davvero nuove.

Questa conoscenza scientifica comporta che il creatore non solo fondi le regolarità della natura, essendo fonte di legge e di ordine, ma che consenta anche le interruzioni di regolarità che alla fine portano la novità. Il creatore abbraccia l’accidentalità delle mutazioni casuali, in quanto fonte non solo di legge e ordine, ma anche della frattura che causa il cambiamento originario. La creatività divina è molto più strettamente alleata al disordine di quanto la nostra vecchia teologia abbia mai immaginato. Nell’universo evolutivo che ne emerge, non dobbiamo sorprenderci di trovare la creatività divina volteggiare vicinissima alla turbolenza.

La storia della continua azione divina creativa porta ad una seconda questione fondamentale. Il mondo naturale, lungi dall’essere solo uno strumento per le necessità umane, ha un suo intimo valore davanti a Dio. La teologia, nei secoli recenti, è stata molto antropocentrica. Ma che cosa ha fatto Dio per miliardi di anni prima che arrivassimo noi? Ora cominciamo a capire che il mondo non costituisce solo uno sfondo per le nostre vite o un palco per il nostro spettacolo, ma è una creazione amata, apprezzata da Dio in quanto tale.

Oggi le pratiche umane del consumismo, dell’inquina-mento e della riproduzione stanno arrecando un danno terribile ai sistemi che sostengono la vita sul nostro pianeta, all’aria, all’acqua e al suolo e alle altre creature che formano con noi una sola comunità di vita. L’immagine si fa più cupa quando vediamo la profonda connessione tra devastazione ecologica e ingiustizia sociale. I poveri soffrono in modo sproporzionato del danno ambientale: saccheggio dei popoli e saccheggio della terra da cui essi dipendono vanno a braccetto. Perché, fino a poco fa, noi che crediamo che Dio ha creato il mondo non ci siamo levati in difesa del mondo naturale? Una ragione sta nel fatto che, a causa del legame dell’antica teologia con la filosofia greca, abbiamo ereditato un potente dualismo che divide tutta la realtà in spirito e materia e che svaluta la materia e il corpo, considerando lo spirito più vicino a Dio. Ora dobbiamo sviluppare una teologia vitale della terra/materia/corpo, che renda più giustizia al mondo che Dio crea e ama così tanto. (...).

 

Un’enorme sfida controculturale

Seconda affermazione: “Credo in un solo Signore, Gesù Cristo…”. Il banchetto della fede non finisce con la storia di Dio creatore. In uno sviluppo successivo totalmente sorprendente, il Credo afferma che il creatore del cielo e della terra non si è fermato, soddisfatto della sua semplice creazione, ma ad un certo punto è diventato personalmente figlio della Terra. Il Credo racconta la storia della venuta di Gesù nel mondo: nato da Maria, soffrì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto; resuscitato dai morti, promise che sarebbe tornato. Questo racconto storico riceve il suo potere dal fatto che in questo essere umano il Dio trascendente si avvicina radicalmente alla carne umana, in materia terrena fatta di polvere di stelle. Membro autentico della razza umana, ha vissuto una vita storica dall’inizio alla fine, “provato in ogni cosa, a somiglianza di noi, escluso il peccato” (Eb 4,15). Una cosa sola con noi nella sua umanità, Gesù è nella sua persona “una cosa sola” con il Padre, Verbo divino espresso in termini finiti. Qui ci troviamo al centro di ciò che, nella fede cristiana, è più spiccatamente cristiano. I dettagli storici, allora, contano, perché Gesù è la misericordia di Dio in persona. Ciò che egli fa svela il carattere di Dio. (...).

Quando la teologia dialoga con la storia di Gesù, emergono almeno due aspetti. Primo, la sequela di Gesù lancia una enorme sfida controculturale. Nelle nazioni ricche, per esempio, i cristiani benestanti seguono modelli di consumo che contribuiscono alle tremende condizioni di milioni di poveri che nel mondo lottano per la vita. Ancora, molti cristiani bianchi privilegiati violano la dignità di persone di colore o di immigrati da vari Paesi. Ancora, la Chiesa stessa continua a vivere in base a valori patriarcali che, oggettivamente, relegano le donne ad uno status di seconda classe, governato da strutture, leggi e rituali maschili.

La sfida del vangelo, resa chiara nella condanna da parte di Gesù dei modelli di dominazione/subordinazione, ci invita all’azione in difesa della giustizia, che trasformerà le strutture di sfruttamento, siano esse basate sulla classe, la razza, l’etnia, il genere, l’orientamento sessuale, o altri elementi in base a cui ci dividiamo, in vista dell’avvento del regno di giustizia e di pace di Dio.

La predilezione divina per i più piccoli e marginali non implica che Dio opti solo per coloro che sono emarginati. L’amore di Dio è universale, non esclusivo. Ma la storia di Gesù ci porta a capire che Dio ha cura particolare per coloro che soffrono. Come Maria, la giovane ebrea incinta del Messia, canta nel suo gioioso “Magnificat”: “Dio, mio Salvatore, rovescia i potenti dai troni, innalza gli umili; ricolma di beni gli affamati, rimanda i ricchi a mani vuote” (Lc 1,52­53). È quello che significa un amore che rende giustizia, il tipo di amore che rappresenta la misericordia di Dio in un mondo spezzato.

 

Un Padre sadico?

Questa lettura del ministero di Gesù e le sue implicazioni stanno facendo emergere nella teologia un secondo aspetto relativo alla sua morte. Una delle peggiori idee teologiche a cui aggrapparsi riguardo a questo evento è che Dio avesse bisogno - che persino lo volesse - del sacrificio della morte di Gesù per perdonare il peccato umano. L’idea ha cominciato a diffondersi nell’XI secolo, quando il teologo Anselmo di Canterbury elaborò la cosiddetta teoria della soddisfazione per provare la necessità della croce. Basando la sua tesi sul feudalesimo della sua società, lo considerò una dimostrazione della misericordia di Dio: così come la disobbedienza offende l’onore del signore del castello, che il vassallo deve restaurare con un atto adeguato di soddisfazione, così i nostri peccati offendono il Signore dell’univer-so. Ma poiché non vi è nulla che possiamo fare per ricostituire l’onore divino, perché siamo limitati, il Dio infinito si è fatto essere umano ed è morto, pagando così il nostro debito. Quindi, vedete, la misericordia di Dio è più grande di quanto potevamo immaginare. In quel contesto, la posizione di Anselmo sottolinea la misericordia di Dio. Nelle mani dei predicatori più modesti, però, questa è rapidamente diventata un’idea tossica: cioè che i nostri peccati hanno talmente offeso Dio che egli richiede la morte come risarcimento. Tommaso d’Aquino, Duns Scoto e altri hanno criticato questa teoria e la necessità che le soggiace, ma essa ha avuto successo per i successivi mille anni.

Oggi sono molteplici le critiche a quest’idea secondo cui Dio chiedeva la morte di Gesù per il perdono dei peccati. Tra le altre, questa idea fa sembrare che lo scopo primario dell’avvento di Gesù sia stato quello di morire, riducendo così l’importanza del suo ministero e ignorando la resurrezione. In termini di spiritualità, essa glorifica la sofferenza più della gioia come cammino verso Dio. La Teologia della Liberazione critica il modo in cui rende le persone passive di fronte alla sofferenza ingiusta invece di inculcare la volontà di resistere. La teologia femminista critica il modo in cui rappresenta un padre che offre suo figlio alla morte, collegando questo aspetto all’esperienza della violenza domestica e all’abuso sui bambini.

Forse la cosa peggiore di tutte è però l’immagine di Dio che ne deriva, quella di un monarca il cui onore offeso deve essere placato dalla sofferenza. Paragoniamola con l’imma-gine di Dio offerta dalle parabole di Gesù. È come se nella parabola del figliol prodigo il padre dicesse al figlio che fa ritorno: “No, non puoi tornare finché non mi hai ripagato di ciò che mi hai portato via”; il fratello maggiore affermasse “Ti aiuterò io”, lavorando strenuamente nei campi e morendo alla fine di stanchezza; e a quel punto il padre dicesse: “Bene, adesso puoi venire”. Si vede come ciò contraddice banalmente ciò che Gesù ci ha insegnato sulla misericordia di Dio.

Da un punto di vista storico, la crudele morte di Gesù in croce è il prezzo che ha pagato per il suo ministero. Il governatore romano in collusione con i leader religiosi individuò in lui una minaccia, e questa minaccia venne eliminata. Ma proprio qui, dove non ci si aspetterebbe di trovare la divinità – in mezzo alla tortura e all’esecuzione capitale da parte dello Stato –, il vangelo colloca la presenza di Dio. Ecce homo: ecco l’uomo, ecco il volto sofferente di Gesù che morì gridando in agonia: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” (Mc 15,34).

Come dobbiamo dunque intendere la croce? Non come morte richiesta da Dio come risarcimento per il peccato, ma come evento dell’amore divino con cui il creatore del mondo è entrato nell’unione più intima con la sofferenza umana, il peccato e la morte, per curare, redimere, liberare dal-l’interno. (...). La posizione che emerge oggi è che Gesù non è venuto a morire, ma a vivere, e ad aiutare gli altri a vivere nella gioia dell’amore divino. In altri termini, Dio non è un padre sadico né Gesù è stato una vittima passiva di un decreto di morte divino. (...). Il crocifisso non è annichilito ma portato a nuova vita nell’abbraccio di Dio, che apre il futuro in modo inatteso.

L’Alleluia di Pasqua promette un futuro benedetto per tutti i morti. Invece di condurre ad un’apatica indifferenza, questa convinzione spinge i cristiani a entrare nella lista di coloro che lottano contro l’ingiustizia per il benessere di coloro che soffrono, comprese tutte le persone crocifisse, rifiutate come se la loro vita non avesse significato, perché è qui che si trova Dio in Cristo, è qui che cerca di portare gioia nell’amata creazione, anche qui, anche ora.

 

Quando il figliol prodigo è la Chiesa

“Credo nello Spirito Santo...”. Il banchetto del Credo continua man mano che le azioni dello Spirito di Dio vengono portate a tavola. Essa – le metafore al femminile vengono usate nella Bibbia e nella tradizione mistica – dà vita (vivificantem!), ispira i profeti, conferma la Chiesa una, santa, cattolica e apostolica, consacra le persone nel battesimo e nel perdono dei peccati, e assicura la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Per tutta l’importanza di queste attività, lo Spirito ha un’identità piuttosto nebulosa nel-l’immaginazione cristiana, a differenza del Dio creatore e di Dio incarnato in Gesù Cristo. Oggi i teologi assimilano lo Spirito a Cenerentola, che lavora nelle cucine mentre le sorellastre vanno al ballo. Ma come una madre che tesse nuova vita nel suo grembo, come una ostetrica che lavora per far nascere un bambino, come una lavandaia che lava le macchie e rinnova la terra, come una mamma uccellina che tiene al sicuro i suoi pulcini sotto le sue ali spiegate, come il potere del vento, il calore del fuoco, il ristoro dell’acqua fresca, lo Spirito non è lontano da noi, essendo, come Paolo disse ai greci di Atene, l’unico in cui “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28).

Quando la teologia dialoga con questa trascurata tradizione dello Spirito che dà vita, emergono molti aspetti. Qui ne sottolineiamo due, che hanno a che fare con la rabbia e il dolore. Riguardo al primo, per concentrarci sulla nostra situazione, focalizzerò l’attenzione sulla Chiesa. Il potere dello Spirito di unificare, di formare comunità, pervade tutto il mondo. Lo Spirito Santo crea la comunione di tutte le cose create con Dio e tra di esse. In questa multiforme realtà, lo Spirito forma la Chiesa, una, santa cattolica e apostolica, quella particolare comunità di discepoli che porta avanti la presenza e la missione di Gesù nella storia. Nelle espressive parole di Edward Schillebeeckx, “la Chiesa è l’unico reliquiario di Gesù nel mondo”, rendendo l’amore di Dio, rivelato tramite la sua vita, morte e resurrezione, tangibile in ogni nuova epoca. Come istituzione, l’obiettivo primario della Chiesa non è la promozione della pietà individuale e della vita morale, per quanto queste siano importanti. Prima di tutto, la Chiesa è la presenza sacramentale del dono di Dio di sé al mondo, un dono che promette un futuro liberante, che da parte di Dio è già vittorioso in Cristo. Quando la Chiesa come popolo di Dio risponde alla sua chiamata e testimonia questa grazia al mondo, questa è opera dello Spirito. (...).

Il problema, ovviamente, è che, in quanto comunità di esseri umani, la Chiesa conosce il peccato, ed è sempre bisognosa di riforma. Attualmente il radicato sistema clericale di potere patriarcale, oltre a creare le condizioni dello scandalo degli abusi sessuali, a volte è stato anche profondamente diffidente nei confronti del carisma della vita religiosa e della direzione in cui questo avrebbe condotto la Chiesa. Penso a vicende che hanno colpito i gesuiti e la giustizia sociale, all’opzione di tante congregazioni religiose femminili per uno stile collegiale di leadership e di obbedienza, ecc. In questi casi, il potere dello Spirito di formare comunità mostra la sua efficacia, come confessa il Credo, conferendo la grazia del perdono che può aprire le porte al futuro.

Lo illustrerò con un aneddoto relativo al mio settore di competenza.

Alcuni anni fa, il mio collega alla Catholic University Charles Curran fu messo sotto inchiesta per il suo insegnamento che divergeva dalla posizione della Chiesa sul controllo delle nascite (Humanae Vitae). Convocato a Roma dal cardinale Ratzinger, uscì dall’incontro consapevole di non essere stato convincente. Sarebbe stato condannato come teologo cattolico e destituito dalla sua carica in facoltà: un’umiliazione pubblica, un disastro personale, e, implicitamente, una condanna anche dei tanti teologi e vescovi altrettanto critici nei riguardi di questo insegnamento non infallibile sulla contraccezione artificiale. Il giorno dopo era domenica. Bernard Häring, il grande teologo morale che insegnava a Roma, vecchio professore e mentore di Curran, celebrava messa in una cappella per Curran e per i suoi consiglieri dell’univer-sità. Il vangelo era la parabola del figliol prodigo. Guardando Charlie, Häring impostò la sua omelia più o meno così: oggi, il figliol prodigo è la Chiesa. Sta prendendo il tuo tesoro – la tua formazione, il tuo talento, la tua reputazione, il tuo contributo – e lo sta buttando via, dandolo ai maiali. Lo Spirito di Gesù ti chiama ad essere il padre di questa parabola, non a rifiutare ma ad accogliere il figliol prodigo. Perdoni la Chiesa? Häring con questa domanda guardò ogni persona negli occhi. La messa non continuò finché i presenti non lottarono con la loro rabbia e permisero allo Spirito di portarli altrove.

Perdonare non significa condonare azioni dannose, o smettere di criticare e di resistere. Ma significa attingere ad una fonte di compassione che avvolge la ferita e succhia via il veleno, consentendoci di andare avanti e dare un contributo positivo, senza ostilità. Questa è l’opera dello Spirito, che riconcilia al livello più profondo, cosicché la comunità aderisca e testimoni con ricchezza di grazia.

 

Nell’abbraccio di Dio

Un secondo aspetto di questa portata del banchetto riguarda il nostro dolore, dolore per la perdita delle persone amate, delle energie personali, dei modelli amati di vita. Il Credo afferma la resurrezione del corpo e la vita del mondo che verrà. Qui vi è una logica semplice, che inizia dal Creatore del cielo e della Terra e finisce con colui che dà la vita, che porta qualcos’altro dopo la morte. In entrambi i casi iniziamo praticamente dal nulla: nessun universo all’inizio, nessun futuro per chi muore alla fine. Nel primo caso, lo Spirito volteggia sul caos per creare il mondo. Alla fine, lo Spirito si muove nuovamente in un nuovo atto di creazione che porta le persone dalla loro morte terrena ad una nuova vita. Secondo questa logica, la speranza nella vita eterna per sé, per gli altri e per l’intero cosmo non è una qualche stravaganza attaccata come un gancio alla fede, ma è la fede nell’unico Dio portata alla sua conseguenza radicale. È la fede nel Creatore che non si blocca a metà strada ma segue la strada coerentemente fino alla fine, nella fiducia che il Dio che ha avuto la prima parola abbia anche l’ultima, che è la stessa parola: che vi sia vita. Il proposito divino nel creare il mondo non è l’annichilimento ma la trasformazione in nuova creazione. Tutte le immagini bibliche della fine dei tempi – la festa nuziale, la luce, il banchetto, il raccolto, il riposo, il tornare a casa, il ritrovarsi, le lacrime asciugate, il vedersi faccia a faccia e il riconoscersi – tutto questo indica una comunione vivente nella vita di Dio stesso. Non moriamo nel nulla ma nell’abbraccio di Dio. Lo Spirito Santo, che dona la vita, è il fondamento di questa consolazione anche quando lacrime di sofferenza scorrono sulle nostre guance.

Chiudendo il cerchio con il ritorno all’inizio del Credo, in cui abbiamo parlato dell’evoluzione dell’universo, possiamo vedere che la nostra speranza umana di vita eterna esprime veramente il dinamismo dell’universo stesso. Miliardi di anni prima che facessimo la nostra comparsa nell’evoluzione, il cosmo era già stato seminato con una promessa, gravido di sorpresa. La nostra speranza religiosa incarna questo struggente desiderio cosmico. Piuttosto che un ideale immaginario proiettato su un universo indifferente, come sostiene oggi il pensiero moderno e postmoderno, la nostra speranza porta avanti in fedeltà il perenne movimento dell’universo verso il futuro, promesso ma ignoto. I corpi si corrompono, ne risultano caos e disintegrazione; ma lo Spirito, Signore che dà la vita, ha ancora qualcosa di inimmaginabile in mente. 

 

Verso l’avventura

C’è ancora molto per cui festeggiare, ma per ora concludiamo. Alla fine della preghiera del Credo, la comunità dice “Amen”, che significa sì, che sia così. Che sia così cosa? Il Credo, antico e ancora vibrante, dà una risposta molto sostanziosa. Ci alimenta con la consapevolezza che Dio, Creatore del mondo intero che dà la vita, pur restando per sempre mistero ineffabile, si avvicina nella realtà storicamente tangibile di Gesù Cristo e nella nostra personale esperienza di grazia. Questo Dio vivente è presente ed operante fin dall’inizio, lungo ogni minuto, e fino alla fine, per curare, redimere e liberare anche quando noi e il mondo ci troviamo di fronte ad un vicolo cieco. Dire “Amen” esprime la convinzione che questo amore esiste come realtà più grande di qualsiasi altra e ci impegna a vivere nella sua luce. Per molti secoli i nostri antenati nella fede si sono alimentati di questa storia, e poi, passando il testimone di mano in mano, l’hanno trasmessa alle generazioni successive. Oggi siamo noi a correre questa staffetta. Il teologo tedesco Karl Rahner ebbe un’intuizione felice quando diversi decenni fa scrisse: “Il cristiano devoto del futuro o sarà un mistico, uno che ha sperimentato qualcosa, o non sarà”. Uno che ha sperimentato qualcosa: essere un cristiano e, in modo intenso, essere uno che vive la vita religiosa, significa sperimentare la verità di questo credo, assaggiare la sua bontà, e far sì che il suo nutrimento pervada i nostri cuori e le nostre menti. Poi, rafforzati da questo banchetto, potrete continuare il viaggio nella vita religiosa e nel ministero di leadership, non perché siete obbligati, ma per la sua bellezza morale e la sua grazia spirituale. Allora, dire “Credo in un solo Dio”, fondare i nostri cuori su questo Dio, sarà sentire una chiamata verso l’avventura.

E che la gente dica: Amen.

 

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