IL TERREMOTO DEI “MURI”
Tratto da: Adista Documenti n° 76 del 01/11/2008
Nel 2009 ricorre il ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, simbolo del bipolarismo di un mondo diviso in due sistemi: capitalista e socialista. Ora assistiamo al declino di Wall Street (Strada del Muro), in cui si concentrano le sedi delle maggiori banche ed istituzioni finanziarie. Il muro che dà il nome alla strada di New York fu eretto dagli olandesi nel 1652 e abbattuto dagli inglesi nel 1699. New Amsterdam lasciò spazio a New York.
L’apocalisse ideologica nell’Est europeo, mai prevista da alcun analista, rafforzò l’idea che fuori dal capitalismo non vi fosse salvezza. Ora, la crisi del sistema finanziario rovescia il dogma dell’immacolata concezione del libero mercato come unica panacea per il buon andamento dell’economia.
Non è ancora la fine del capitalismo, ma è forse l’agonia del carattere neoliberista che ha ipertrofizzato il sistema finanziario. Accumulare fortune è diventato più importante che produrre beni e servizi. La bolla speculativa si è gonfiata e, improvvisamente, è scoppiata.
Si ripete, tuttavia, la vecchia ricetta: dopo aver privatizzato i guadagni, il sistema socializza le perdite. Viene meno la cantilena “meno Stato, più iniziativa privata”. Nell’ora della crisi, ci si appella allo Stato come ciambella di salvataggio sotto forma di iniezione di 700 miliardi di dollari (5% del Pil degli Stati Uniti, il costo di tutto il petrolio consumato in un anno in quel Paese) per anabolizzare il sistema finanziario.
Il piano di salvataggio delle banche di Bush prevede una quantità di soldi sufficiente a sradicare la fame nel mondo. Ma chi si preoccupa dei poveri? A causa dell’aumento dei prezzi degli alimenti, negli ultimi dodici mesi il numero di affamati cronici è salito da 854 milioni a 950 milioni, secondo Jacques Diouf, direttore generale della Fao.
Chi pagherà la fattura del Proer (programma di sostegno alla ristrutturazione del sistema finanziario del Brasile, ndt) usamericano? La risposta è ovvia: il contribuente. Si prevede la disoccupazione immediata di 11 milioni di persone vincolate al mercato di capitali e al settore edilizio. I fondi pensione, decapitalizzati, non avranno modo di onorare i diritti di milioni di pensionati, soprattutto di chi ha investito nella previdenza privata.
La restrizione del credito tende a inibire produzione e consumo. Le banche di investimento si mettono a riposo. Le imposte subiranno aumenti. Il mercato resterà in regime di libertà vigilata: vale ora il modello cinese di controllo politico dell’economia, e non più del controllo della politica da parte dell’economia come avviene nel neoliberismo.
Nel 1967, J. K. Galbraith richiamava l’attenzione sulla crisi del carattere industriale del capitalismo. Nomi come Ford, Rockefeller, Carnegie o Guggenheim, modelli degli imprenditori, sparivano dallo scenario economico per lasciar spazio alla vasta rete di azionisti anonimi. Il valore dell’impresa era trasferito dal parco industriale alla borsa valori. Nel decennio successivo, Daniel Bell avrebbe lanciato l’allarme sull’intima associazione tra informazione e speculazione, indicando le contraddizioni culturali del capitalismo: l’accumulazione in conflitto con lo stimolo consumista; i valori della modernità destituiti dal carattere iconoclasta delle innovazioni scientifiche e tecnologiche; legge ed etica in antagonismo quanto più il mercato si erge ad arbitro delle relazioni economiche e sociali.
Se la caduta del Muro di Berlino portò all’Est europeo più libertà e meno giustizia, introducendo clamorose disuguaglianze, il terremoto di Wall Street obbliga il capitalismo a ripensare se stesso. Il casinò globale rende il mondo più felice? Ovviamente no. Il fallimento del socialismo reale significa la vittoria del capitalismo virtuale (reale solo per un terzo dell’umanità)?. Di nuovo no.
Non si misura il fallimento del capitalismo dalle sue crisi finanziarie, bensì dall’esclusione – dall’accesso a beni essenziali di consumo e ai diritti di cittadinanza, come alimentazione, salute ed educazione – di due terzi dell’umanità. Sono quattro miliardi le persone che, secondo l’Onu, vivono tra la miseria e la povertà, con un reddito quotidiano inferiore a tre dollari.
Bisogna cercare, con urgenza, un altro mondo possibile, economicamente giusto, politicamente democratico ed ecologicamente sostenibile.
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