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UN DIALOGO NECESSARIO TRA TEOLOGIA E PENSIERO BOLIVARIANO

Tratto da: Adista Documenti n° 8 del 24/01/2009

Da alcuni anni, in vari Paesi dell’America Latina, (specialmente Bolivia, Ecuador, Venezuela e Paraguay), i processi elettorali hanno portato al governo persone e gruppi sociali impegnati su una linea di cambiamento strutturale della società. Questo processo rivela contraddizioni interne e presenta difficoltà inerenti ad ogni cammino di trasformazione. Tuttavia, non si può negare che abbia una dimensione rivoluzionaria che i partiti politici tradizionali e i tentativi rivoluzionari precedenti non hanno mai raggiunto. Questo processo di trasformazione sociale e politica suscita l’en-tusiasmo delle fasce popolari, ma provoca preoccupazione e perplessità nei settori più conservatori. Purtroppo, in tutti i Paesi, la gerarchia cattolica e settori significativi di altre Chiese hanno assunto una posizione ostile al processo rivoluzionario o, perlomeno, si sono mostrati discretamente favorevoli all’opposizione schierata in difesa dei vecchi privilegi. Per vari fattori, ho avuto la grazia di accompagnare, da lontano, ma come amico, il processo di trasformazione in Bolivia (dove coordino ogni anno, dal 1979, corsi biblici per operatori pastorali e popolo della base). Ero in Bolivia quando gli indigeni di una regione di Santa Cruz denunciarono di essere vittime di un regime di schiavitù e il cardinale di Santa Cruz rilasciò alla stampa una dichiarazione contraria, negando che in Bolivia esistesse la schiavitù.

Per ragioni che non saprei neppure spiegare, ho avuto l’occasione di stabilire dei contatti personali con il presidente Chávez e sono stato varie volte in Venezuela. Egli mi ha scelto per introdurre il suo intervento al Forum Sociale Mondiale del 2006 a Caracas. Un’altra volta, ho preso parte al gruppo degli osservatori internazionali alle elezioni presidenziali del 2006. Recentemente, sono stato in Venezuela come assistente dei movimenti contadini, nell’accampamen-to internazionale della gioventù bolivariana a Barinas.

Il mio contatto con l’Ecuador risale agli anni ‘80. È a Cuenca che ho scritto gran parte del libro Teologia da Terra, insieme a José Luis Caravias che lavorava lì. Recentemente, ho guidato a Riobamba un incontro nazionale della “Chiesa dei poveri” e ho potuto accompagnare il processo sociale e politico del Paese immediatamente dopo l’approvazione della nuova Costituzione nazionale, per la quale ha votato a favore la maggioranza del popolo, mentre l’episcopato cattolico si è compattamente espresso contro.

Riguardo a questo processo di trasformazione nel continente, la mia proposta, rivolta ai cristiani legati alla Teologia della Liberazione, è quella di un nuovo radicamento nel processo in corso. Solo così, a partire dalla prassi, potremo elaborare elementi nuovi della Teologia della Liberazione per il processo sociale e politico che si sta sviluppando in America Latina.

 

1. Per comprendere qualcosa di questo processo politico

In tutta la storia dei Paesi del continente, si sono registrati movimenti di trasformazione sociale che sono stati soffocati dal potere dominante. Soprattutto a partire dagli anni ‘60, in vari Paesi dell’America Latina, gruppi rivoluzionari e movimenti di trasformazione politica hanno tentato di prendere il potere. In Nicaragua, il Fronte Sandinista si è scagliato contro la dittatura di Somoza. In El Salvador, le comunità contadine hanno dato origine al Fronte Farabundo Martí di Liberazione Nazionale. In Guatemala, varie rivolte indigene sono state soffocate violentemente. In Colombia, la guerriglia ha preso la via dei monti attraendo persone come padre Camilo Torres. Nei Paesi del Sud, movimenti e lotte rivoluzionarie hanno avuto luogo nel Brasile della dittatura militare, nel Cile prima di Allende, nell’Ar-gentina dei generali, in Uruguay e in altri Paesi. Nella maggior parte di questi movimenti rivoluzionari, l’elemento nuovo è stato offerto dalla partecipazione dei cristiani che, in molti casi, dichiaravano di partecipare in quanto cristiani, mossi dalla loro fede. È stato questo fatto nuovo a condurre pastori e teologi a riflettere sulla fede cristiana a partire da questa esperienza rivoluzionaria. E ciò è stata una delle radici dell’allora nascente Teologia della Liberazione.

Oggi, il processo nuovo che si sta registrando in vari Paesi non ha un legame diretto con i movimenti rivoluzionari degli anni ‘60. I movimenti che, in vari Paesi, lavorano oggi a favore di una trasformazione non si considerano marxisti, com’era comune a quell’epoca. Né hanno origine in un partito di sinistra. Per questo, forse è più giusto proporre come riferimento dell’attuale processo rivoluzionario la ribellione degli indigeni nel sud del Messico (1º gennaio 1994) e il movimento zapatista. Al momento dell’entrata in vigore del Trattato di Libero Commercio tra Messico, Stati Uniti e Canada (Nafta), gli indigeni si sono ribellati esigendo ascolto e proponendo un altro modello di vita e di società. E malgrado la risposta violenta del governo e la devastazione della regione attraverso vari massacri, commessi da militari e paramilitari, non si è registrata da parte degli zapatisti alcuna violenza. Si è trattato di una rivoluzione nonviolenta, condotta attraverso la poesia del subcomandante Marcos e tramite internet. Nonostante tutte le difficoltà e il logoramento inerenti a un processo di questo tipo, gli indigeni sono riusciti a realizzare due incontri internazionali dell’u-manità per la vita, contando sulla presenza di parlamentari dell’Europa e di vari altri Paesi del continente. È a partire da qui che hanno preso il via quelle mobilitazioni che hanno dato forza alla Confederazione delle Nazioni Indigene del-l’Ecuador e ai movimenti indigeni delle Ande peruviane e della Bolivia.

In Venezuela, il processo ha inizio negli anni ‘70. Il giovane colonnello Hugo Chávez Frias, insieme ad altri militari, dà vita ad un movimento nazionalista e per la giustizia sociale. Nelle periferie di Caracas si creano circoli di pensiero bolivariano. È questa l’origine del processo di trasformazione della società venezuelana, estremamente segnata da disuguaglianze sociali, dove una piccola élite controllava tutto il Paese per poi godere dei propri immensi profitti a Miami e a Parigi e dominare, dall’estero, la stampa, la compagnia petrolifera e tutte le ricchezze del Paese. E mentre si succedono vari presidenti, accusati di corruzione, questo nuovo movimento si costituisce su due basi: sull’esercito nazionale e sui settori popolari delle baraccopoli e dei quartieri poveri delle città più popolose. Nel 1991, Chávez e i suoi compagni promuovono un tentativo di colpo di Stato e vengono catturati. Quando escono di prigione, si recano direttamente nei quartieri popolari, portando avanti il lavoro di coscientizzazione e creando le condizioni per il cambiamento. E questo avviene con l’elezione del 1999.

All’inizio del suo governo, il presidente Chávez fa suo l’ideale bolivariano, ma non ha ancora le idee chiare riguardo all’opzione socialista. Matura questa convinzione solo dopo il tentativo di colpo di Stato sofferto nel 2002. È allora che egli dichiara di essersi convinto che non c’è alternativa: “Socialismo o Morte!”.

Non si tratta di un socialismo di stampo sovietico e neppure cubano. Malgrado tutta la vicinanza a Cuba e a Fidel Castro, la rivoluzione bolivariana presenta altri principi. Si parla di un “albero con tre rami”: il ramo bolivariano che deriva da Simon Bolívar (all’inizio del XIX secolo) e si esprime nell’uguaglianza e nella dignità di tutte le persone e principalmente delle culture oppresse; il ramo simoniano (da Simon Rodríguez, educatore e maestro di Bolívar) che insiste sull’educazione come strumento di cambiamento; e infine il ramo zamorrano (da Ezequiel Zamorra, generale, compagno di Bolívar) che parla della necessità di un’unione civile e militare nel processo di trasformazione sociale e politica. 

Una caratteristica di tutti questi movimenti di trasformazione nei diversi Paesi è la loro opzione per la democrazia formale, con i suoi processi elettorali e la sua liturgia tradizionale. Per questo, in Venezuela come in Ecuador e in Bolivia, il primo compito della rivoluzione è stato di ottenere che il popolo approvasse un nuovo progetto di Costituzione nazionale, pensata e scritta non più per mantenere privilegi e disuguaglianze tradizionali, ma per garantire giustizia e dignità per tutti. Inoltre, in tutti i Paesi interessati da questo processo, la riforma agraria, realizzata in modo pacifico e nel rispetto dei principi della proprietà privata produttiva, è stato uno dei primi frutti del nuovo corso. Ciò ha suscitato l’odio e la violenza dei settori che avevano sempre detenuto la proprietà di estensioni illimitate di terra e che ora si trovano di fronte un limite massimo di 10mila ettari di terra.

In Paraguay, il cambiamento sta appena iniziando e con molte difficoltà, dovute al fatto che il presidente Fernando Lugo e i suoi compagni hanno vinto le elezioni con un’al-leanza di partiti eterogenei: ora che i contadini esigono la riforma agraria, esplodono nel governo le differenze e le contraddizioni di classe.

In tutti i Paesi, il problema fondamentale è quello della concentrazione della terra e anche del rispetto della natura. Le nuove costituzioni cercano di dare la priorità a questi elementi. 

 

2. E la gerarchia ecclesiastica in questo processo?

In Venezuela, il presidente Chávez e i portavoce della rivoluzione bolivariana non esitano a dire che l’ispirazione di questo processo è cristiana e che, per la rivoluzione, è fondamentale il criterio spirituale derivato dal Vangelo. In Ecuador, il presidente Rafael Correa si è formato a Lovanio, dove è stato alunno del teologo François Houtard, e si dichiara discepolo della Teologia della Liberazione. In Bolivia, i movimenti che appoggiano il nuovo processo vogliono unire elementi delle antiche religioni indigene con il cristianesimo, che è l’opzione della maggior parte delle comunità indigene già inserite nella società nazionale. In Paraguay, il presidente è stato vescovo fino a pochi anni fa e, se ha chiesto il passaggio allo stato laicale, non è stato per una crisi di vocazione o per un problema personale, ma per rispondere al Diritto Canonico e rispettare la legge ecclesiastica.

In tutti questi Paesi, l’episcopato si è chiaramente schierato contro il processo rivoluzionario. Forse per influenza della storia passata relativa all’episcopato cubano e ai vescovi della Nicaragua sandinista degli anni ‘80, i vescovi del Venezuela si mostrano ostili a Hugo Chávez e alla proposta bolivariana. Un alto dirigente della Conferenza dei religiosi del Venezuela mi ha confessato che il popolo povero non era mai stato trattato con tanta dignità. Ringraziandolo per la testimonianza, gli ho chiesto: “Allora lei è a favore del governo rivoluzionario?”. E lui mi ha risposto: “No, sono contrario”. E ha spiegato: “Abbiamo paura che il governo ci sottragga i collegi cattolici e porti il Paese verso un comunismo ateo”.

In Ecuador, l’episcopato, in cui è molto forte la presenza dell’Opus Dei, si è pronunciato contro il governo di Rafael Correa e contro il progetto di Costituzione, con la motivazione che la nuova Carta costituzionale avrebbe aperto la porta al divorzio, all’aborto e al riconoscimento delle coppie omosessuali. In realtà la Costituzione non affronta tali questioni e i vescovi, sconfitti, sono stati motivo di scandalo per molte persone semplici che non hanno capito perché mai i loro pastori non fossero stati al loro fianco al momento di cambiare il Paese.

In Paraguay, subito dopo l’insediamento di Lugo, questi è stato ricevuto nella cattedrale di Asunción per un Te Deum presieduto dall’arcivescovo alla presenza di tutto l’epi-scopato nazionale. La cerimonia è stata molto tradizionale e poco ecumenica, e ha espresso una visione della cristianità vecchia e alienante. L’arcivescovo, nella sua pomposa allocuzione, ha fatto riferimento a diversi arcivescovi di Asunción, ma, in nessun momento, ha citato il nome del nuovo presidente, né si è riferito a lui personalmente. Il giorno successivo, la messa a São Pedro, dove il presidente aveva esercitato il ministero episcopale, è stata più democratica e aperta, ma in uno stesso ambiente di cristianità chiusa in se stessa e in una chiarissima separazione tra fede e politica.

I processi dei diversi governi hanno incontrato opposizione e difficoltà. I mezzi di comunicazione, quasi tutti nelle mani dell’élite, antica proprietaria delle terre e delle ricchezze nazionali, non accettano di perdere i propri privilegi e fanno di tutto per screditare il processo rivoluzionario. Malgrado sia il presidente che è passato per il maggior numero di referendum e votazioni, Hugo Chávez viene descritto come un dittatore. Evo Morales è definito dai suoi avversari “sporco indio” e la sua volontà di evitare lo scontro è considerata un limite e una debolezza. Lugo non conta sul sostegno della gerarchia ecclesiastica, mentre i suoi avversari lo accusano di essere ancora troppo vescovo. L’importante è superare queste visioni reazionarie dell’élite e guardare al cammino rivoluzionario nei diversi Paesi come a un processo che va oltre Chávez, Morales, Correa e Lugo. Essi sono riferimenti importanti, ma il processo va al di là di essi. A La Paz, ho chiesto a un’indigena che vendeva prodotti artigianali al margine della strada: “Ed Evo come va?”. E lei mi ha guardato e risposto senza esitazione: “Va bene, ma se così non fosse lo manderemmo via. Già ne abbiamo mandati via tre e lui lo sa!”. È vero!

 

3. E la Teologia della Liberazione?

In tempi di inverno ecclesiale, in cui c’è poca libertà di ricerca e ancora meno possibilità di libera espressione negli ambienti di Chiesa, è naturale che anche i fratelli e le sorelle più legati alla Teologia della Liberazione si confinino nelle accademie e nelle università. Alcuni si sono fatti presenti nel cammino delle comunità indigene in Bolivia e in altri Paesi andini (Diego Irarrázaval, Antonietta Potente, Javier Albó).  E anche nell’accompagnamento delle comunità afro-discendenti (teologie nere) e nella teologia femminista latinoamericana c’è una grande vitalità e una ricerca di attualizzazione. Inoltre, già da alcuni anni, l’Asett (Associazione Ecumenica di Teologi/ghe del Terzo Mondo) esorta la Teologia della Liberazione ad approfondire il Pluralismo culturale e religioso e a costituirsi come Teologia Pluralista della Liberazione. Questo nuovo cammino ha dato vita nuova alla Teologia Latinoamericana. Tuttavia, ad eccezione di alcune presenze, poche e brillanti (Leonardo Boff, José María Vigil e altri/e), la Teologia della Liberazione non si è mostrata molto presente nel cuore stesso di questo nuovo processo latinoamericano. Alcuni teologi sono inseriti in processi di base, lavorando in ambito locale. Questo è fondamentale e prioritario. Ma, come segno visibile di questa presenza, sarebbe necessario che, nella stessa riflessione delle comunità, si conducesse una riflessione teologica sul processo bolivariano. Per questo, sarebbe fondamentale aprire un dialogo tra la Teologia e il pensiero bolivariano come viene espresso dai gruppi  che guidano il processo. Ora, il fatto che gli episcopati si siano pronunciati contro, senza accettare il dialogo, sembra aver condotto alcuni teologi a comportarsi alla stessa maniera. E senza questo dialogo, che io sappia, tale questione (quella di una riflessione teologica sul processo bolivariano o rivoluzionario dei diversi Paesi) non ha conquistato visibilità. In Venezuela, più di un teologo legato alla Teologia della Liberazione si è pronunciato contro il processo bolivariano. E così è mancata una riflessione più sistematica e profonda su questo aspetto.

Riflettiamo da anni sulla relazione tra Fede e Politica, tra Socialismo e Cristianesimo, tra Spiritualità e Rivoluzione. Giulio Girardi è stato un pioniere nell’accompagnare i primi passi della rivoluzione sandinista e la sua opera su Cristianesimo e Sandinismo potrebbe ispirare oggi l’elaborazione di una nuova opera collettiva “Cristianesimo e Bolivarianismo”. Non per canonizzare il processo, ma per collaborare con esso e aiutarlo anche a purificarsi.

Quando la Teologia della Liberazione ha preso avvio, i movimenti sociali rivoluzionari in cui si inserivano i cristiani presentavano vari aspetti che la Chiesa e l’etica cristiana consideravano negativi: l’opzione per la lotta di classe, la violenza rivoluzionaria e così via. Vari di quei gruppi erano marxisti e professavano un ateismo dogmatico. Tuttavia nemmeno questo impediva ai cristiani di farne parte. Malgrado i difetti e i limiti di questi gruppi, i teologi della Liberazione non si rifiutavano di pensare la loro teologia a partire da questa prassi. Perché rifiutarsi oggi di pensare ad una presenza ecclesiale e ad una conseguente teologia a partire dai processi in corso in diversi Paesi latinoamericani?

Non esiste alcun processo sociale e politico puro e senza difetti. Accusano Hugo Chávez di essere accentratore e autoritario, persino un po’ caudillo. Si rimprovera a Evo Morales il fatto di pensare il Paese più per gli indigeni che per l’insieme della società. Rafael Correa vuole cambiare il suo Paese, come Lula, mantenendo i paradigmi di un’economia neoliberista. E così via. Senza dubbio, tutti questi governi hanno dei limiti e in nessun modo possono essere considerati santi e immacolati. Tuttavia, è nella realtà concreta di processi come questi che dobbiamo inserirci, collaborando con ciò che punta in direzione della liberazione dei nostri popoli. Ora, non si può negare che, con tutti i loro difetti, essi abbiano rappresentato un servizio nuovo ed efficiente alla liberazione dei più poveri.

Vari di questi governi, anche per tentare di superare l’opposizione degli episcopati, si sono dichiarati cristiani e cattolici. È un tipo di dichiarazione inadeguato e poco ecumenico. La funzione di questi governi dovrebbe essere laica e pluralista. Mi sembra un assurdo che il nuovo presidente del Paraguay vada in una cattedrale cattolica per un Te Deum e non visiti nessuna chiesa evangelica né partecipi ad alcun culto indigeno, tra i tanti che esistono nel suo Paese (gli ho scritto questo in una lettera personale).

Il presidente Hugo Chávez sta invitando i teologi/ghe della Liberazione a riunirsi a Caracas – sotto la sua ospitalità – per riflettere sugli elementi di una spiritualità ecumenica, nata nel processo rivoluzionario bolivariano. Leonardo Boff ed io gli abbiamo risposto che siamo interessati a partecipare a questa riflessione. Voi che mi leggete potete considerarvi invitati.

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