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Sì, anzitutto partecipare

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 12 del 31/01/2009

La domanda, ridotta all’osso, è questa: in un periodo di forte crisi politica, per un’organizzazione, semplice o articolata che sia, è necessaria una maggiore o minore dose di democrazia? Di fronte ai travagli del Partito democratico tanti, sia pure con sfumature diverse, sono favorevoli alla seconda soluzione. Si sono sentite affermazioni del tipo: “useremo ora le primarie cum grano salis”; “bisogna mettere un freno all’ingorgo delle primarie”. Si potrebbe dire: Dio acceca chi vuole perdere.

Partiamo dalla considerazione che il termine “primarie”, abusato nella generalizzazione mediatica, in realtà si addice soltanto alla procedura che porta alla scelta di un candidato per una successiva elezione aperta ad una pluralità di elettori, non più circoscritti a quelli che hanno partecipato alla prima (appunto, primaria). Ebbene, già su questo meccanismo, mutuato soprattutto da quello statunitense per presentare il candidato alle elezioni presidenziali, qualcuno, dopo un breve periodo di entusiasmo, sembra ricredersi ed esprime qualche dubbio. Serviranno a scegliere le persone migliori? Non permangono troppe ambiguità? Quali i meccanismi di controllo e rivolte a chi? E gli strascichi successivi? Tante obiezioni. Ma su questo piano rimangono ancora ragionevoli e discutibili. Si apre dunque un dibattito.

Ben più forti e drastiche, direi definitive, quelle che si rivolgono all’uso di primarie per la scelta di dirigenti di partito. Che in realtà sono operazioni da chiamare più correttamente “elezioni dirette del segretario”, “aperte”, “diffuse” o con altri termini, che non indicano primarie in senso stretto, ma un meccanismo che prevede l’estensione del potere di scelta e di voto dei dirigenti non solo agli iscritti, ma anche ai simpatizzanti e agli elettori. Per molti è una specie di anomalia da guarire, un’incurabile ingenuità che sta procurando danni (quali?), che bisogna limitare o addirittura bloccare. Come è possibile, dicono, che i dirigenti di un partito possano essere scelti da chi non vuol condividere fino in fondo quel partito, le sue procedure, i suoi percorsi, le sue regole, fino ad iscriversi? A che serve tesserarsi – ha detto uno dei massimi dirigenti – se poi anche un non-tesserato può eleggere il segretario?

Qui – a mio modesto avviso, invece – si gioca tanta parte del futuro non solo del Pd, ma della democrazia italiana. Pensare che sia una sciocchezza, nelle condizioni di credibilità in cui oggi sono i partiti, la decisione di aprire porte e finestre per chiamare le persone, gli interessati, i simpatizzanti, a decidere della vita del partito significa, nei fatti, rinchiudersi nel recinto dell’intoccabilità, dell’autoreferenzialità. Solo nella, coraggiosa e rischiosa, certo, dimostrazione che non si ha nulla da temere dall’allargamento della partecipazione fino agli estremi confini si può testimoniare poi un radicale ripensamento del modo di fare politica.

La domanda che proviene dai cittadini poggia su due colonne: la partecipazione e la responsabilità. Ossia la “partecipazione” come “coinvolgimento, passione, esposizione in prima persona alle vicende della democrazia”; insieme alla responsabilità, la capacità, appunto, di dare risposte, di assumere in modo coerente il percorso analisi-scelte-effetti, e quindi il portato del successo o dell’insuccesso del proprio operato. “Soltanto nella democrazia la partecipazione e la responsabilità convivono in una tensione reciproca” e per questo in democrazia “stanno e cadono insieme”, scrive Franco Riva nel suo bel libro “Partecipazione e responsabilità. Un binomio vitale per la democrazia” (Città Aperta edizioni, pp. 94, Euro 10).

I cittadini su questi due parametri giudicano e valutano l’operato di una forza o coalizione politica che si definisce diversa da quella contrapposta.

Scrive Luigi Pizzolato sul numero 1/2008 di Appunti di cultura politica: “è il tempo di rilanciare la socialità cancellata, facendo vedere come le insicurezze e i bisogni, anche individuali, si risolvano più costitutivamente nella relazionalità… La città del nostro tempo ha bisogno di proposte civili che non alimentino gli smarrimenti e le distanze, ma che ricuciscano il tessuto lacerato; che rassicurino l’individuo nelle condizioni di debolezza”. Ecco: la politica, e in particolare il partito o i partiti che si richiamano esplicitamente a questo patrimonio di valori, sanno dare risposte concrete su questo profilo?

È evidente: il metodo delle primarie (anche applicato all’elezione degli organismi dirigenti di un partito), non è la soluzione di ogni problema. Ma è condizione necessaria (sebbene non sufficiente) per riavviare una relazionalità (strettamente abbinata alla fiducia, risorsa assai scarsa quanto preziosa) elemento costitutivo di un partito, di una comunità cittadina, di uno Stato. Se adesso dovesse arrivare ai cittadini il segnale che “abbiamo sbagliato, ora torniamo a fare da soli”, qualsiasi percorso di recupero di credibilità sarebbe impossibile. E tornerebbero a vincere i soliti noti.

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