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IL CAMMINO DELLA GUARIGIONE INTERIORE

Tratto da: Adista Documenti n° 44 del 25/04/2009

(...) La confessione è accompagnata da un insieme di im-magini eteronome che suscitano fastidio: legge, castigo, giudizio, sentenza, espiazione. La maggior parte di esse è condannata a eclissarsi a causa della scomparsa della cosiddetta coscienza del peccato. Negli ambienti conservatori, questa scomparsa della coscienza del peccato e, pertanto, della confessione, è un'immagine che incute terrore. Ma non ve n'è motivo, in quanto tale scomparsa non è una perdita, nella misura in cui la rappresentazione eteronoma della realtà che essa comporta cede il posto ad una rappresentazione teonoma e più conforme ai tempi. Più che cercare di salvare immagini familiari dell'antichità, la nostra preoccupazione dovrebbe essere quella di restituire ad una realtà impolverata il suo sfolgorio. Ciò esige che si faccia chiarezza sul carattere in fondo eteronomo e pertanto passeggero del concetto di peccato, per poi formulare nuovamente questo concetto, ormai libero dalla sua matrice eteronoma, in un linguaggio teonomo. L'analisi si restringe al pensiero giudaico-cristiano: non consideriamo qui le concezioni di altre religioni.

Per via del suo passato antichissimo, il concetto di peccato si è configurato in un ambiente completamente eteronomo, come espressione della coscienza di un angoscioso squilibrio nella relazione più importante dell'essere umano: quella con la sua origine e il fondamento della sua esistenza, Dio. Come tutto quello che diciamo su Dio, anche questo concetto utilizza un linguaggio figurato. Questo implica che l'essere umano abbia contravvenuto alle prescrizioni di un potentato che tutto sa. E con ciò desta la giusta ira di questo potentato, si carica di una colpa e può incorrere in un castigo. (...) Finché Dio non ha perdonato al peccatore la sua mancanza, questi sente gravare sulla propria vita una minaccia. Il concetto di peccato è immerso perciò in un'at-mosfera molto poco amichevole, caratterizzata dalla minaccia e dal pericolo, a causa dell'ira destata e del castigo che deve venire. L'essere umano vorrebbe liberarsi di questa minaccia e pertanto cerca di fare nuovamente pace con Dio. Sa come placare l'ira di potentati terreni: deve umiliarsi, confessare la propria colpa, mostrare pentimento o contrizione, implorare perdono, offrire regali, cosicché il malumore sparisca e la buona volontà perduta venga recuperata interamente o parzialmente, in modo tale da evitare la pena incombente. Quello che ha successo tra gli esseri umani deve averlo anche con questo Dio pensato antropomorficamente. Quello che qui corrisponde all'offerta di regali è il sacrificio di espiazione.

La risposta sperata è il perdono. Ma il perdono non suppone che cambi qualcosa dal punto di vista esistenziale nel colpevole. (...). Il potentato divino fa come se dimenticasse quanto avvenuto e condona il debito contratto. Non è necessario parlare di un cambiamento esistenziale nella persona dell'amnistiato. Ma questa amnistia è condizionata: il colpevole deve deplorare la sua azione. Non è necessario che il motivo del pentimento o contrizione sia molto elevato. Basta che abbia paura della pena che lo minaccia. Ma questa paura, come avverte Immanuel Kant, toglie valore etico ed esistenziale all'azione umana. (...). L'unica cosa che gli si chiede è la promessa di comportarsi diversamente in futuro. Per questo, in tale modo di pensare, il buon proposito gioca un ruolo importante.

Questa analisi rivela il carattere eteronomo non solo del concetto di peccato ma anche degli altri concetti dello stesso campo semantico, come quelli di colpa, castigo, espiazione, pentimento, contrizione, perdono, remissione di colpa, buon proposito. Questo arsenale tutto intero trova posto solo al-l'interno dell'immagine eteronoma di Dio come signore extramondano con la maggior parte delle caratteristiche di un signore intramondano. Alla luce dell'autonomia, appare chiara la mancanza di consistenza di tale rappresentazione eteronoma in cui il peccato è una trasgressione di una legge divina e rappresenta un'offesa al santissimo legislatore. (...). Questo rafforza il sospetto che la rapida scomparsa della pratica della confessione nella Chiesa occidentale vada di pari passo con la rapida avanzata del pensiero autonomo e che per questo i tentativi di modernizzare la confessione, per esempio rivestendola da conversazione terapeutica in una confortevole sala di confessioni, non porterà ad alcuna soluzione.

 

Dal "peccato" a una "miseria esistenziale"

Riesce la teonomia a dare un nuovo contenuto al concetto di peccato e anche ad una parte dei concetti che gli sono affini? Come già sottolineato, il peccato è un'espres-sione figurata eteronoma, dietro a cui si nasconde essenzialmente l'angosciosa esperienza di una rottura nella relazione tra l'essere umano e il suo fondamento originario e santo. Anche questo è linguaggio figurato, ma teonomo, più intramondano e per questo più in accordo con i tempi. Quello che qui si chiama fondamento originario assume la figura di un legislatore nel pensiero eteronomo e la rottura con lui la figura di una infrazione alla legge. Ma l'essenziale non è qui, bensì nel fatto che questa rottura che è stata espressa con la parola peccato è una catastrofe per l'essere umano, e la peggiore di tutte, in ragione dell'assoluta dipendenza e della minaccia fondamentale del suo essere.

Per cogliere la serietà di questa catastrofe non abbiamo bisogno in alcun modo del linguaggio biblico del legislatore e dell'infrazione. (...). Possiamo partire dall'idea di Whitehead o dalla teologia di Paul Tillich che indicano con il concetto di Dio il fondamento più profondo della realtà cosmica totale e per questo anche della nostra essenza. Ciò non rende meno cattiva questa rottura nella relazione con Dio. Al contrario. Significa che la nostra essenza è stata stravolta e deformata, che siamo caduti in una tremenda miseria esistenziale. In confronto con ciò, un'infrazione alla legge continua sempre ad essere qualcosa di esteriore, di superficiale (...). Si sente occasionalmente la critica che i cattolici prendono alla leggera le mancanze etiche perché pensano che basti riconoscerle in confessione perché possano essere facilmente dimenticate. Questa opinione è originata proprio dall'impressione che il peccato e il castigo siano cose esteriori, infrazioni della legge e remissione della pena. In realtà il peccato significa una distruzione interiore e il perdono un processo esistenziale di faticosa conversione e ricostruzione.

Nell'interpretazione teonomica, l'unica cosa importante è il rinnovamento interiore. La dislocazione esistenziale si sana, la miseria fondamentale si mitiga. Si esce dal vuoto e dalla tenebra, dallo stato di caos in cui ci si muoveva, e si torna all'armonia interiore. Questa conversione si realizza nel nucleo del nostro essere quando arriviamo ad unirci allo splendore del miracolo originale che è il fondamento del nostro essere. Solo in questa unificazione la nostra necessità più profonda trova la pienezza definitiva. "Ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te" (Agostino), o "Il mio essere, come un deserto, ha sete di te" (salmo 143) sono parole che spiegano ciò di cui parliamo. Esprimono un linguaggio più benevolo della matrice semantica eteronoma della parola peccato. È vero che anche quelle parole vengono da un tempo in cui si pensava in termini eteronomi, ma vanno oltre questo tempo per il loro carattere mistico. Poiché in esse si avverte un'esperienza esistenziale di miseria, di povertà, di insoddisfazione che si cerca di colmare con qualunque sostituto e dell'anelito corrispondente ad essere salvati a partire da lì. Esse parlano della desiderata ricostruzione di una relazione d'amore spezzata, del reincontro con l'amato perduto.

La nostra esperienza di insoddisfazione ha a che vedere con il nostro rifiuto o la nostra incapacità di amare, dove per amore non deve intendersi un sentimento. Il vero amore significa quell'uscita da se stessi per cui siamo stati creati. Perché Gesù ci ha aperto gli occhi per vedere che l'essenza del miracolo originale della creazione è l'amore, un amore che si sforza di esprimersi in tutte le cose e di trasformarle tutte per dare loro forma divina. Ma, invece di lasciare che questo Dio ci penetri per cambiarci a poco a poco, manteniamo la nostra corazza. E allo stesso tempo sperimentiamo con ciò che ci manca l'essenziale e che restiamo insoddisfatti nel nostro intimo. Se non fosse lui ad attrarci, non ci sentiremmo divisi dolorosamente tra la forza gravitazionale della cura dell'io e l'attrazione che egli esercita verso l'amo-re, tra quello che siamo e quello che egli vorrebbe che fossimo. Non sperimenteremmo questa specie di carenza che non conoscono gli animali, questa quiet desperation che, secondo il filosofo americano Henry David Threau, caratterizza la vita della maggioranza degli esseri umani. La teonomia si incontra qui con l'idea più tradizionale che l'unico peccato autentico è il rifiuto ad ascoltare Dio.

Se il concetto di miseria sostituisce quello di peccato, scompaiono dalla scena anche i buoni propositi, come pure la considerazione dell'entità della propria colpa, che peraltro è un'espressione che viene dai tribunali, dove è determinante per l'entità della pena. Non sappiamo neppure fino a che punto dobbiamo parlare di colpa, perché non sappiamo qual è la parte della libertà in quello che facciamo e qual è quella della nostra impotenza e dei determinismi presenti in noi. Persino il colpevole abuso della nostra libertà ha a che vedere in pieno con la nostra miseria fondamentale, che consiste precisamente nel nostro allontanamento dal nostro fondamento originario. Per questo, invece di buoni propositi, ci muoviamo verso l'appello alla misericordia, alla liberazione e alla pienezza; in linguaggio biblico, alla redenzione. Con ciò diamo testimonianza del fatto che non possiamo salvarci da noi stessi. E quanto più intensamente salirà da noi questo appello, tanto più ci apriremo alla corrente vitalizzante dell'amore che cerca di farsi strada nelle nostre profondità e tanto più ci uniremo ad esso.

Se il peccato è stato sostituito dalla povertà, dalla miseria, dall'angoscia, dal tormento, anche il linguaggio biblico del perdono e della remissione della colpa deve essere sostituito da quello della salvezza, della salute, della convalescenza. Perché sono questi i nomi del cambiamento esistenziale verso il bene che si realizza nel nostro intimo.

 

Salute invece di perdono. Ma cosa resta della contrizione?

(...) Perdonare suppone che qualcuno si senta offeso, ferito, danneggiato. Se un cane mi abbaia, ciò mi lascia indifferente. Non mi sento ferito. Se un uomo mi aggredisce, ciò non mi lascia indifferente. Questa vulnerabilità ed eccessiva sensibilità (...) e il conseguente bisogno di vendetta stanno a dimostrare che mi sento sminuito, toccato, minacciato nella mia autostima. La mia reazione è una forma di autodifesa (...). Perdonare è non ammettere questa inclinazione, non vendicarsi, non ripagare l'altro con la stessa moneta, fare come se non fosse successo nulla. Questo è magnanimità, ma presuppone un precedente sentimento di offesa, l'impressione che il mio essere tanto precario sia in qualche modo in pericolo. Come si potrebbe attribuire a Dio tale reazione? Egli non si sente ferito da quello che facciamo, molto spesso per di più in una situazione di mancanza di libertà. Egli è pura irradiazione ed è sempre rivolto al nostro bene, non a se stesso. Parlando teonomamente di lui, non si può parlare di perdono (...).

D'altra parte, quello che facciamo non gli è indifferente. Non siamo per lui come cani che abbaiano. Proprio perché è amore, non può risultargli indifferente se noi continuiamo ad essere senza amore, se ci facciamo male e sminuiamo noi stessi mantenendogli la porta chiusa. Egli continua a chiamarci alla porta, ci fa pressioni malgrado la nostra cattiva volontà, finché non cambiamo, non apriamo, non usciamo dalla nostra miseria, non veniamo risanati dal nostro tormento. (...). Gesù difende il suo atteggiamento con i pubblicani e i cosiddetti peccatori con l'argomento che non sono i sani ma i malati ad aver bisogno di un medico. (...). Gli evangelisti interpretano le sue guarigioni come segni della salvezza esistenziale concessa a quanti, incontrandolo, credono in lui. (...). È chiaro dunque che il perdono non è l'unica espressione figurata corretta del processo interiore di rinnovamento di un essere umano operato da Dio.

È finito con ciò anche il tempo di una realtà tanto profondamente umana come la contrizione? Non proprio. (...). Contrizione significa dolore, non tanto in quello strato superficiale del nostro essere che ha a che vedere con il guadagno materiale, il prestigio o la salute, quanto negli strati più profondi, in cui si soffre per la fine di una relazione umana o perché si è perduto un essere amato che, a ragione o a torto, si considerava assolutamente necessario alla propria felicità. Ci si lamenta di qualcosa, si soffre per qualcuno.

Lamentarsi o soffrire non ha originariamente nulla a che vedere con la paura di sanzioni e castighi (...). È la coscienza dolente di stare separati dalla nostra origine fondamentale indispensabile e pertanto dalla nostra pienezza, per esserci consegnati all'inerzia della nostra autoaffermazione. Così, la contrizione diventa un richiamo all'anelito di conversione. (...). E la dinamica di questo dolore innesca già di per sé un movimento di superamento di questa separazione (...).

 

La confessione

E con ciò siamo infine arrivati alla confessione, il sacramento con cui la Chiesa annuncia e concede il perdono di Dio all'essere umano colpevole. (...). Bisogna mostrare pentimento (il nome latino del sacramento, poenitentia, significa letteralmente pentimento, per quanto penitenza sia diventata a poco a poco un sinonimo di tortura autoinflitta come castigo volontariamente assunto), confessare la propria colpa e questo con tutte le circostanze aggravanti, poiché il sacerdote è seduto lì per compiere la funzione di giudice: deve conoscere la gravità del delitto e giudicare se si compiono le condizioni per l'amnistia divina, annunciare il perdono e dare una penitenza. (...).

Negli ambienti devoti si attribuisce la scomparsa accelerata della confessione alla secolarizzazione che lascia Dio fuori dalla vita quotidiana, con la conseguente perdita della coscienza del peccato. È vero che la coscienza del peccato si perde, ma non perché Dio sia stato allontanato dalla vita quotidiana, bensì perché un Dio rivestito di eteronomia è un corpo estraneo in un clima culturale che accetta l'auto-nomia. (...). Il nome stesso del sacramento della confessione tradisce la sua origine eteronoma. Si tratta di confessare la propria colpa e pertanto si entra nel dominio del giudizio. A ciò si aggiunge che la parola è contenuta in una sfera negativa di sentimenti, immersa in un'aura di paura, avversione, vergogna, non in quella benefica e luminosa della guarigione, del rinnovamento, della pienezza da parte del Dio che ci attrae e di cui abbiamo bisogno come il campo secco ha bisogno della pioggia. Per questo il sacramento necessita di un altro nome come pure di un'altra forma.

 

Sacramento o festa della guarigione

Meglio che sacramento della "confessione" sarebbe possibile chiamarlo sacramento della cura o della guarigione, segnalandolo come una tappa in un processo di convalescenza o di ricostruzione. (...). L'insensata ma tenace idea che si possa ottenere dal Dio nell'alto dei cieli una remissione o diminuzione della pena mediante l'autocastigo ha risvegliato l'illusione che si possano ottenere da lui altre cose mediante lo stesso metodo. Allora la  parola adeguata non è più espiazione ma "mortificazione". (...). In seguito, si impose l'idea erronea che il nostro autocastigo fosse di gradimento a Dio. (...). Così si arrivava a mortificarsi con fame, freddo, veglie, disciplina, cilicio, catene e in mille altri modi, solo per essere graditi a Dio e mostrargli quante cose gli venivano riservate. La vivida presentazione dell'immagine di Gesù sofferente portò molti cristiani devoti a volersi identificare con lui, mortificandosi in varie maniere.

Per quanto la mortificazione sia stata lodata e praticata nella tradizione cristiana, essa riposa su presupposti medievali e completamente eteronomi, di cui la modernità si è già liberata. È possibile immaginare una relazione d'amore in cui una delle parti si tortura per ottenere qualcosa dall'altra o per mostrarle quanto è grande il suo amore? Chi gode di tali dimostrazioni d'amore dell'altro o altra verso di sé presenta un'infermità mentale. (...).

Ma anche la forma esteriore del sacramento ha poco futuro nella modernità. Ricorda troppo un processo, con autocolpevolizzazione e riduzione della pena e del castigo o penitenza, che è arrivata ad essere ridicolmente piccola. Ma la confessione tradizione è solo la seconda forma che ha assunto il sacramento e si distanzia molto dalla prima, silenziosamente abbandonata durante il IV secolo: il peccatore tornava ad essere ricevuto nella comunità ecclesiale dopo aver dimostrato a sufficienza con il suo modo di vita, malgrado il suo grave delitto precedente, pubblicamente noto,  di meritare un posto in essa. Tornare a riceverlo nella comunità era il segno creativo che egli era nuovamente in mezzo al torrente di vita che viene da Gesù. (...).

Per questo è possibile pensare ad una festa di guarigione in cui i temi del peccato e del perdono siano sostituiti da quelli di infermità e di convalescenza, o di disgrazia e salvezza, o di miseria e pienezza, o di schiavitù e liberazione. Ma arrivare a star meglio, tanto nell'anima quanto nel corpo, è un processo lungo e faticoso, aspetto che manca completamente nel linguaggio figurato del perdono. E mentre confessione e perdono lasciano la falsa impressione che si tratti di un qualcosa piuttosto di esteriore e rapido, la festa della guarigione si caratterizza per il suo orientarsi verso un processo di miglioramento esistenziale. Questo orientamento si otterrebbe attraverso un rito da celebrare in un'atmo-sfera ispiratrice, in cui la preghiera, il canto, la meditazione e l'annuncio giocassero un ruolo creativo, mediante la partecipazione della comunità. Questo rito di conversione non pretenderebbe di dare la salute con una parola magica. Non vorrebbe essere altro che un momento di intensità nel processo di cura che abbraccia tutta la nostra vita. (...). Il processo di guarigione consiste essenzialmente nel fatto che, in un atto di profondo desiderio di salute e salvezza, in mezzo al nodo cieco della propria impotenza e colpa, ci si affida alla misericordia del Dio che ci cerca per porre termine all'allontanamento esistente tra noi e il suo amore che ci attrae.

 

Misericordia, pietà, riconciliazione

Parlare di perdono vuol dire parlare della misericordia di Dio. Se lasciamo da parte il campo semantico di peccato e perdono, per tornare a quello di miseria esistenziale e salute, ciò non significa in alcun modo che sia meglio smettere di parlare di misericordia e di pietà. Al contrario, pietà e misericordia hanno a che fare con "povertà" e indicano un gesto di abbassamento per prendersi cura del povero nella sua miseria. Il samaritano misericordioso non perdona ma aiuta. E se si ha pietà di un essere umano, ciò significa solo che questi non può salvarsi da sé, con le sue proprie forze, dalla situazione difficile in cui si trova, non che si sia reso colpevole di qualcosa.

Forse il nome di "festa della riconciliazione" potrebbe essere un buon nome per la forma di confessione che può sostituire l'attuale. (...). Lo stesso Catechismo impiega correttamente l'espressione, chiamando la confessione "sacramento della riconciliazione". Ma riconciliazione suppone una lite precedente. Due parti hanno litigato e vogliono porre fine alla contesa. Ma un Dio che entra in lite è un'im-magine tanto poco sostenibile quanto quella di un Dio che castiga o concede l'amnistia. (...). Anche dal lato dell'essere umano è difficile parlare di una lite con Dio. Possiamo protestare contro quello che ci succede e lottare con Dio come Giobbe, ma quello che si chiama peccato consiste piuttosto nel rifiuto di ascoltare il richiamo di Dio. Questo richiamo senza parole è la pressione che egli esercita nelle nostre profondità perché non ci si preoccupi di se stessi ma si viva per gli altri.  (...).

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