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LA POSTA IN GIOCO

- È necessario ripensare il rapporto tra Chiesa e Israele

Tratto da: Adista Contesti n° 50 del 09/05/2009

Questo articolo di Olivier-Thomas Venard, teologo alla scuola biblica  e archeologica francese di Gerusalemme, è stato pubblicato sul settimanale cattolico francese “La vie” (16/4/2009). Titolo originale: “Les vrais enjeux d’un voyage de Benoit XVI en Israel”

Nelle attuali circostanze la visita del papa in Israele solleva diversi problemi cruciali per la vita della Chiesa in Israele e nei Territori occupati, problemi troppo poco conosciuti al grande pubblico. In confronto, le recenti questioni che hanno agitato l’universo mediatico rischiano di essere il dito che nasconde la luna. Preghiera del Venerdì Santo, beatificazione di Pio XII, scandalo Williamson o condanna della guerra a Gaza, questi fascicoli sono certamente delicati. Tuttavia, a dar retta a Ygal Palmor, portavoce del governo israeliano, questi non devono influenzare la valutazione del viaggio pontificio. All’apice dell’affaire Williamson, egli ha dichiarato che l’incidente non aveva niente a che fare con la visita del papa. Visita di un capo di Stato nello Stato di Israele. È su questo piano, propriamente politico, che la visita del papa è un’importante posta in gioco per la Chiesa.

 

La vera posta in gioco: la sopravvivenza della Chiesa in Israele

 

Il lento soffocamento dei cristiani palestinesi. Il 20 febbraio, una quarantina di cristiani palestinesi indirizzava una lettera colma di deferenza al Santo Padre, nella quale esprimeva la propria confusione. Nel momento in cui la visita del papa avrebbe dovuto farli gioire, come per esempio è successo fra i giordani, questa li inquieta. Lamentano di essere considerati dagli israeliani in accordo con la loro politica. Insistono sui danni in termini umani causati dall’Amministrazione coloniale nella piccola minoranza cristiana. Per non fare che qualche esempio: i 147mila cristiani che vivono dal lato israeliano del muro di separazione e i cristiani delle città e dei villaggi dell’altro lato non possono più avere degli scambi normali; i palestinesi cristiani necessitano di permessi speciali per potersi spostare da una frazione del territorio ad un’altra; considerando le grandi difficoltà dei matrimoni interreligiosi, la possibilità di trovare moglie o marito si è considerevolmente ridotta; peggio, alcune “leggi temporanee” in vigore dal giugno 2002 hanno frammentato ulteriormente gli statuti diversificati per zone stabiliti dall’Amministrazione israeliana per i palestinesi; coppie sposate si sono trovate separate dal muro, non avendo più, uno dei congiunti, lo statuto amministrativo richiesto e vedendosi espulso da Gerusalemme; i cristiani arabi nativi di Gerusalemme e emigrati non ottengono più di un visto… da turista, quando tornano nella loro città natale!

 

Una grazia israeliana rivelatasi dannosa. Alle difficoltà umane evocate, si aggiungono alcuni ostacoli strutturali posti dallo Stato d’Israele alle comunità cristiane. Un briciolo di storia è qui necessario. Il 30 dicembre del 1993, lo Stato del Vaticano ha accordato allo Stato d’Israele il riconoscimento diplomatico lungamente atteso, firmando un “accordo fondamentale” che lasciava i dettagli della sua applicazione a negoziazioni future. Ora, da quindici anni, i negoziatori si sono regolarmente incontrati senza mai raggiungere un risultato. Innanzitutto, gli accordi Vaticano-Israele non sono mai stati ratificati dalla Knesset, cosa che significa che non fanno parte della legislazione israeliana. Le negoziazioni stesse sono state regolarmente bloccate dal rifiuto da parte israeliana di firmare gli accordi ai quali si era pervenuti… Diversi amici ebrei israeliani, anche negli ambienti diplomatici, ci hanno fatto partecipi della loro “vergogna” per il modo in cui il loro Paese tratta la Chiesa cattolica.

 

La persecuzione amministrativa e finanziaria delle comunità cristiane in Israele: tre problemi da risolvere prima dell’arrivo del papa.

Tre grandi problemi si pongono. Il primo è lo statuto legale della Chiesa in Israele. Finora, lo Stato d’Israele applica una legge del 1924 (all’epoca del mandato britannico) per lasciare che gli affari concernenti beni ecclesiastici siano trattati dal potere esecutivo. La radicalizzazione nazionalista e affarista degli ambienti politici israeliani rende questa situazione sempre più pericolosa. Israele, che si vuole “sola democrazia” del Medio Oriente, sarebbe onorata di accordare alla Chiesa accesso al potere giudiziario: l’accesso ad un potere giudiziario indipendente dal potere esecutivo è uno dei fondamenti dello Stato di diritto.

Il secondo problema da risolvere è quello dell’esenzione dalla tassa fondiaria locale (in ebraico arnona) per le comunità cristiane. La risoluzione 181 delle Nazioni Unite del 1947, che riconosceva lo Stato di Israele, specificava che le proprietà religiose che erano state in precedenza esenti dalla tassazione avrebbero conservato questa esenzione. Questa dispensa di imposta è giustificata dal fatto che la maggior parte delle comunità religiose della Terra Santa non genera alcun profitto: orientate al mantenimento dei Luoghi Santi, all’accoglienza dei pellegrini, al sostegno ai poveri o alla vita accademica, esse dipendono finanziariamente per lo più dalla carità cristiana nel mondo. Tassarle significherebbe prelevare un’imposta sulla questua! L’accordo fondamentale del 1993 proseguiva su questa linea. Ma nel dicembre 2002, invece, Israele fa passare una legge che tassa tutte le proprietà religiose (con solo una tariffa meno elevata per i luoghi di culto). Ora, la Chiesa non ha i mezzi per pagare, tanto meno se l’amministrazione israeliana invia delle fatture retroattive (a Gerusalemme est annessa, esse risalgono fino al… 1967). Si tratta di milioni!

L’ultimo grande ostacolo, posto in essere dalla politica israeliana, alla presenza cristiana in Terra Santa concerne il rilascio dei visti. È un problema molto generale ma sembra più acuto per i cristiani. Già da diversi anni la libertà di circolazione del clero all’interno del Patriarcato latino di Gerusalemme non esiste più. C’è stato un periodo in cui il superiore del seminario patriarcale di Beit Jala non aveva il diritto di incontrare il suo vescovo, il Patriarca, che viveva soltanto a qualche chilometro, ma… dall’altra parte del muro (in seguito questo superiore è diventato vescovo in Tunisia). I seminaristi giordani non possono andare troppo spesso in vacanza dalle loro famiglie, pena la possibilità di non avere più il visto per rientrare. Le comunità che si augurerebbero di rimpolparsi con membri giunti dai Paesi arabi vicini devono rinunciarci: questi visti sono rifiutati. Anche per i religiosi occidentali venuti a vivere da diversi anni nelle loro comunità in Terra Santa le procedure sono divenute complesse e la durata dei visti si è accorciata. I segretariati delle nostre istituzioni accademiche che si occupano di scuola passano ormai giornate intere al Ministero dell’Interno per ottenere i visti dei nostri studenti; ormai è anche prassi comune rivolgersi a diplomatici ecclesiastici o civili di alto rango per ottenere i visti in tempo per cominciare l’anno accademico.

È dunque la presenza umana e la struttura economica e giuridica delle comunità cristiane ad essere precarizzata dalla politica di Israele dal 1993. La situazione è così difficile sotto tutti gli aspetti che l’accordo fondamentale del 1993 è ormai oggetto di rimpianto pubblico. Il vecchio nunzio apostolico in Israele, oggi a Washington, mons. Pietro Sambi, non ha esitato a dichiarare che in fondo le relazioni della Chiesa con Israele erano migliori prima del 1993, quando non esistevano relazioni diplomatiche con il Vaticano.

 

Verso un chutzpah pontificio?

 

La domanda che si pone è dunque semplice: perché sono stati firmati questi accordi? A questa domanda, sempre mons. Sambi rispondeva che facendolo “la Santa Sede poneva in essere un atto di fede, rimandando la realizzazione delle promesse israeliane in merito alla regolamentazione degli aspetti concreti della vita della Chiesa in Israele”. Effettivamente ci si può domandare se il personale del Vaticano non abbia confuso in quel momento dialogo ecumenico (giacché le relazioni con l’Ebraismo lo rilevano) e relazioni diplomatiche. I responsabili cattolici hanno pensato di fare dialogo giudaico-cristiano quando invece erano in trattativa con dei diplomatici, nel quadro di una relazione Stato-Stato tra il Vaticano e Israele. Ora, gli Stati non hanno dei sentimenti, non hanno che interessi: si è dato a Israele ciò che chiedeva senza esigere la controparte. Israele è semplicemente soddisfatto del risultato ottenuto. In questa logica la Chiesa non avrebbe che da prendersela con se stessa se non ha capito le regole del gioco.

In sintesi, molti cattolici di Israele e dei Territori occupati subiscono oggi le conseguenze di una infelice confusione di generi. E temono che una visita del papa senza una regolamentazione preliminare dei principali problemi non farebbe che aggravare la situazione. In Medio Oriente, regione in cui l’onore riveste una grande importanza culturale, venire senza avere la sicurezza di significativi passi in avanti su tutti i punti menzionati significherebbe sminuirsi agli occhi di tutti. Soprattutto significherebbe lanciare agli Israeliani il segnale che possono continuare a trattare come vogliono i cristiani locali: i dignitari della Chiesa continueranno a fare come se niente fosse.

Si capisce qua e là che “passi avanti significativi” riguarderebbero uno o l’altro dei tre spinosi fascicoli che abbiamo ricordato. Ma gli effetti di una notizia di questo tipo sono stati numerosi, in tutti questi ultimi anni… Forse è venuto il momento per il personale dello Stato del Vaticano di accettare di parlare a quello dello Stato di Israele con un linguaggio che capisca (dopo tutto, anche nel “dialogo”, la prima regola è parlare un linguaggio comune). Forse è venuto il momento per la diplomazia vaticana di parlare al personale politico dello Stato di Israele con un linguaggio che capisca. O quello che praticano è la chutzpah, o “facciatosta”, che in Israele è una virtù sociale. In breve, perché il viaggio pontificio stesso non potrebbe essere una delle poste in gioco nei negoziati che si trascinano dal 1993? Perché non far sapere che in caso di mancati passi in avanti nella regolazione delle principali controversie, il viaggio sarebbe annullato e distribuito alla stampa mondiale un dossier completo che spiega le difficoltà?

 

Conclusione

 

Non è sicuro che la diplomazia vaticana voglia andare così lontano. Quantomeno si può pensare che un discorso chiaro del papa in Terra Santa su queste questioni potrebbe avere conseguenze positive. In effetti, c’è un’“alchimia” umana e spirituale speciale intorno alla persona del Santo Padre – è il “mistero” del papato. Da diversi decenni, i nostri amici ebrei tengono particolarmente alla stima del papa. Un po’ come se il successore di Pietro avesse ritrovato, alla nostra epoca, qualcosa del ministero originario di Pietro, apostolo della Circoncisione. Al di là dei timori che si possono avere in anticipo, la presenza del papa in Terra Santa può produrre “del nuovo”. È con questa speranza che i cristiani si preparano ad accoglierlo: faranno di tutto affinché questo viaggio contribuisca profondamente alla pace, nella Chiesa, tra Chiesa e Israele, tra Palestinesi e Israeliani, e nel mondo. n

 

 

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