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Il Consiglio Italiano per i Rifugiati Ecco perché Maroni e il governo hanno sbagliato a respingere i “clandestini” in Libia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 57 del 23/05/2009

Quando lo vado a trovare, nell’ufficio del Consiglio Italiano per i Rifugiati, annidato su tre piani di pochi locali ciascuno, in uno stabile un po’ fatiscente, di proprietà comunale, di via del Velabro, nella splendida area dell’antica Roma tra il Tevere e il Palatino, Christopher Hein è sotto pressione. Chiamano da tutte le parti. Il New York Times, il Pais, Le Monde, i quotidiani tedeschi, radio locali. E naturalmente i giornali italiani. “È un’occasione storica per l’Italia e per la problematica del diritto d’asilo”, mi dice Christopher che del CIR è direttore dalla sua nascita, all’inizio degli anni ’90. E, dunque, concede pazientemente una intervista dietro l’altra. Si potrebbe proprio dire che non tutto il male viene per nuocere. Quando mai il problema dei richiedenti asilo sarebbe finito in prima pagina se il ministro Maroni non avesse dato l’ordine di respingere i 238 profughi raccolti in mare e riportarli, con navi militari italiane, nella Libia da cui erano partiti?

In Italia, dice Hein, non c’è ancora una legge organica sul diritto d’asilo. Ci sono una giungla di decreti e circolari, ma non c’è un testo unico, come si è fatto invece per il problema più generale dell’immigrazione. E quindi c’è una grande confusione. I vari decreti che via via vengono promulgati per attuare le direttive europee spesso si contraddicono uno con l’altro. E, d’altra parte, alcuni aspetti del problema dei rifugiati non sono affatto regolati. Ad esempio il percorso che deve affrontare lo straniero una volta riconosciuto il suo status di rifugiato. Tutta la strada dell’integrazione.

Non che tutto funzioni male. La procedura oggi vigente in Italia per il riconoscimento dello status di rifugiato è buona. E buona, cioè alta, è la percentuale di riconoscimenti; superiore alla media europea. Ma ci sono forti lacune nel sistema di accoglienza, sia nella fase di attesa durante l’iter per l’esame delle domande di riconoscimento sia poi quando il riconoscimento c’è stato.

Una proposta di legge per dare organicità alle complesse questioni del diritto d’asilo giace in Parlamento da parecchi anni.

Chiedo ad Hein chi abbia ragione sul numero delle richieste d’asilo ritenute valide tra quelle avanzate dagli stranieri arrivati sui barconi e accolti in Italia, a Lampedusa, prima del blocco voluto dal Ministro dell’Interno. L’organismo dell’Onu per i rifugiati dice che il 70% delle persone sbarcate nell’ultimo anno hanno fatto la domanda di asilo e che circa la metà di queste domande è stata accolta. Dunque il 35% del totale. Il ministro Frattini e lo stesso presidente del Consiglio viceversa hanno detto che non si arriva al 10%. “Sbagliano” taglia corto Hein. “Sono giusti i dati forniti dall’Acnur. Sono gli stessi dati che abbiamo noi”. Dunque, di quei primi 238 stranieri respinti e riportati in Libia si può presumere che un centinaio venivano effettivamente da paesi nei quali rischiavano la vita per motivi politici o etnici o religiosi.

E la questione delle acque internazionali? Il governo dice che l’Italia non era tenuta ad accogliere quei 238 africani perché non erano in acque italiane. No, dice Hein, la competenza era italiana perché la nave che li ha raccolti era italiana. E dunque andavano rispettate le leggi che vincolano l’Italia a non respingere potenziali rifugiati verso i luoghi dove la loro vita potrebbe essere minacciata. E qui le norme sono molteplici: l’art. 10 della nostra Costituzione, l’art. 33 della Convenzione di Ginevra sui rifugiati del 1951 (che l’Italia ha firmato), l’art. 19 del Testo Unico sull’immigrazione (la pur criticata Bossi-Fini, che ha “corretto” la precedente Turco-Napoletano) la quale stabilisce chiaramente che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”.

Quanto, infine, al delegare alla Libia il controllo sul diritto o meno all’asilo, cioè allo status di rifugiato, delle persone arrivate in quel paese dalle regioni subsahariane dell’Africa, Christopher Hein dice che questa responsabilità non è per nulla delegabile. Si potrebbe delegare alla Libia di iniziare la procedura di asilo, ma non certo di svolgerla e di concluderla. E, comunque, tutto questo va organizzato. Il CIR stesso ha proposto, da tempo, che lo straniero possa fare richiesta di asilo (in Italia) presentandosi alla rappresentanza italiana all’estero – ad esempio al consolato a Tripoli, in Libia –, che poi comunica tempestivamente alla Commissione nazionale italiana per l’asilo la richiesta per un primo esame di massima. Ma tutto ciò – ruolo della Libia, ruolo del consolato italiano a Tripoli, ruolo di altri organismi internazionali o comunque umanitari che possono concorrere a questa procedura in terra libica – deve essere “istruito”. Dobbiamo avere garanzie che funzioni. Ma su questa strada, di fatto, non si è nemmeno cominciato.

Dunque, il respingimento dei 238 profughi lo scorso 7 maggio, e gli altri avvenuti dopo, sono contrari al diritto sia internazionale sia italiano.

Poi, certo, il problema, epocale, dell’immigrazione per povertà, per riscattare la propria vita, resta. Ma è un altro problema.

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