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Terreno comune cercasi

- Né pro-life né pro-choice: la suora benedettina Usa Adrienne Kaufmann sul difficile confronto sull'aborto

Tratto da: Adista Contesti n° 62 del 06/06/2009

Julie Polter Direttrice associata di “Sojourners”

Da “Sojourners”, rivista statunitense di fede, politica e cultura (giugno 2009). Titolo originale: “Catholic benedictine Adrienne Kaufmann on the nitty-gritty work of seeking common ground on abortion”

 Dal 1993 al 1996, Adrienne Kaufmann, Osb, è stata condirettrice del Common Ground Network for Life and Choice che fino al 1999 era un programma dell’organizzazione per la risoluzione dei conflitti internazionali Search for Common Ground. A partire da un processo di dialogo avviato dalla Kaufmann, la rete ha contribuito a mettere insieme gruppi pro-life e pro-choice in venti città del Paese per dialogare in modo costruttivo e lavorare su temi come la riduzione delle gravidanze durante l’adolescenza. Kaufmann ora è responsabile delle vocazioni al Monastero Mother of God di Watertown, South Dakota. La direttrice associata di Sojourners Julie Polter ha parlato con la Kaufmann il 18 maggio.

 

Qual è stata la sua reazione al discorso del presidente Obama a Notre Dame?

Sono molto contenta che non abbia eluso il problema e che non l’abbia gonfiato fino a renderlo l’alfa e l’omega della sua relazione con i cattolici o con la Chiesa cattolica. Credo che voglia sinceramente lavorare su un terreno comune e cominciare da cose su cui si possa agire insieme, non dai temi più controversi. Questo è quanto ho sentito, soprattutto, e ho pensato che è una cosa grandiosa.

 

Nutre qualche speranza sul fatto che stiamo giungendo ad un nuovo momento nella nostra scena politica in cui può cominciare ad esserci dialogo, anche all’interno degli schieramenti politici?

Ho qualche speranza. La mia speranza più profonda viene dal fatto che credo davvero che il presidente Barack Obama sia un uomo integro che può essere preso in parola quando dice che dobbiamo lavorare sulle cose che ci accomunano. E quando dice, come ha fatto di recente, che non dobbiamo demonizzarci a vicenda.  È stato un punto molto importante del suo discorso. Al centro dell’esperienza del Common Ground c’è il dialogo ed un comportamento rispettoso e non demonizzante. E la volontà di aprire la comunicazione ed esplorare aree di cooperazione. Lui ha certamente creato un clima favorevole.

Penso che il ramo legislativo del governo federale abbia una strada da percorrere. Ci vuole tempo per lavorare insieme. Penso che se succederà davvero, la gente di questo Paese dovrà alzarsi e dire, come maggioranza: “Ne abbiamo abbastanza degli avversari politici. Non voteremo per voi se non smettete di giocare a questo gioco e non cominciate un processo di cooperazione”. Il Paese sta soffrendo per questo.

I membri del Congresso, sia senatori che deputati, in questo Paese passano perché la maggior parte non ha la politica al centro dei propri interessi… Abbiamo dato anche troppo potere a chi sta a Washington, e poi ce ne lamentiamo tutto il tempo.

 

Se ho capito bene, negli anni ’90 lei ha compiuto molto lavoro nell’ambito del Common Ground con il Parlamento del Minnesota. Che cosa ha funzionato, che cosa no e perché?

Non abbiamo lavorato con il Parlamento del Minnesota in quanto tale. Ma un democratico pro-choice e un repubblicano pro-life che facevano parte del Parlamento del Minnesota, hanno partecipato alla giornata di dialogo del Common Ground  Network for Life and Choice nelle Città gemelle (St. Paul e Minneapolis, ndt).  È stato un dialogo lungo una giornata. La ragione per cui vi parteciparono è che volevano esplorare questo progetto come possibile strada per portare i legislatori pro-choice e pro-life a lavorare insieme su questioni sulle quali entrambi potessero trovarsi d’accordo, e a fare qualche progresso reale sulla questione dell’aborto al di fuori dello spazio del Common Ground, una volta tornati in Parlamento.

Hanno partecipato alla giornata di dialogo, l’hanno vissuta come qualcosa di positivo e di possibile da realizzare a livello parlamentare locale. Quindi sono tornati ai rispettivi elettorati repubblicano e democratico e hanno condiviso la loro esperienza dicendo “Pensiamo che qui vi sia una possibilità. Vorremmo avere un gruppo impegnato in questo tipo di dialogo a livello statale”. Non sono riusciti ad ottenere un appoggio. Ciò che mi hanno riferito è che i legislatori di Stato credevano sul serio che avrebbero ottenuto un maggiore successo politico solo mantenendo vivo il conflitto ed accentuando le differenze invece che lavorando insieme su ciò che di comune avrebbero potuto scoprire.

Questi due deputati hanno partecipato per un po’ al dialogo nell’area di St. Paul-Minneapolis,  perché dalla giornata di dialogo è nato un gruppo. Ed essi in prima persona ne hanno beneficiato. Ma non sono riusciti a convincere altri parlamentari ad impegnarsi seriamente nel progetto.

 

La demonizzazione degli avversari è considerata una tattica efficace ed appropriata da molti, nella nostra sfera politica. Lei, che promuove il dialogo sul terreno comune, che cosa pensa ci si guadagni a non demonizzare gli altri?

Penso che ciò che guadagnano sia una prospettiva più sfumata, più completa sulla verità.  Sono convinta che ognuno abbia in sé un pezzo di verità. Il grande vantaggio derivante dal non demonizzare è capire che stanno parlando ad una persona che ha pensato con attenzione alle loro idee, ha avuto esperienze diverse dalle loro, una persona che sta sinceramente cercando di vivere bene in questo mondo. Quando possiamo gettarci alle spalle lo stereotipo vuoto e vedere la persona reale, allora siamo pronti ad apprendere il suo pezzo di verità senza compromessi. Non è che diciamo “ti obbligheremo a vedere le cose nel nostro modo”, non si tratta di questo. Diciamo solo: “Riesci a capire la mia prospettiva?”. Accordo o disaccordo sono laterali. Ma quando demonizziamo non agiamo così, pensiamo di conoscere già la prospettiva, ce l’abbiamo già disegnata in testa, e non vogliamo sentire nessun’altra ragione.

 

Credo di poter dire che lei si definirebbe pro-life…

No.

 

Come descriverebbe la sua posizione?

Ho una posizione pro-nonviolenza. Non accetto l’etichetta pro-life, né quella pro-choice. La ragione è che queste etichette sono state private di qualsiasi sfumatura. Quando accetto l’etichetta di pro-life, accetto tutti gli stereotipi tanto dei pro-life quanto dei pro-choice sulle persone pro-life. Lo stesso avviene con i pro-choice. Sono assolutamente convinta che si tratti di questioni morali, etiche, sociali. Ora, invece, pro-life e pro-choice sono etichette politiche. La gente può dire “è una filosofia”. Non credo che sia così, nel vivere concretamente la vita negli Stati Uniti. Sono definizioni politiche. Per me non è una questione politica. Si tratta, come comunità di esseri umani, di cercare di vivere responsabilmente in questo mondo, di essere responsabili gli uni nei confronti degli altri; possiamo trovare modi nonviolenti di affrontare le differenze? Possiamo trovare modi nonviolenti di risolvere i problemi? Ecco che cos’è, per me, tutto questo.

 

Perché il lavoro sul terreno comune è così importante per lei?

La ragione per cui mi ci sono impegnata è perché non credo nella violenza. Quando si diventa avversari politici, ci sono vincitori e vinti. Io non credo che il mondo sopravvivrà se continuiamo così, con il tipo di potere che abbiamo, a giocare a questo gioco di vittoria e sconfitta. Lo scopo della mia vita, prima di tutto, è di impiegare la mia energia in modo tale che questo mondo diventi un po’ più simile al Regno che Gesù indicava. Non si tratta di definire dei nemici. Gesù ha detto di amare i propri nemici, di fare del bene a quelli che ci odiano, di pregare per quelli che ci perseguitano. Penso che il messaggio sia piuttosto chiaro. Peraltro, sono ben lungi dal viverlo in modo perfetto. Sono imperfetta e sciocca come chiunque altro. Ma ci provo. E cerco di impiegare la mia energia in luoghi in cui la vita diventa migliore, più cooperativa, più pacifica, più simile al Regno che dovremmo costruire.

Ecco perché per me è importante. Perché ero esausta di combattere così aspramente, in quegli anni. Ho spaziato in grandi circoli, così ho molti amici pro-life, e molti  pro-choice. Francamente non ne potevo più di cercare di essere un ponte aiutando una parte a comprendere l’altra. “No, non hanno detto questo!”, “No, non è così. Loro non sono così”. Basta! Cercare di essere un ponte significava soltanto, per me, andare ovunque. L’ho odiato. E mi sono detta, entrando al Conflict Analysis and Resolution Program alla George Mason University: “Nella mia dissertazione cercherò di trovare un modo per affrontare i conflitti sociali più diffusi in modo migliore”.

Ecco perché mi sono impegnata nello sviluppare un processo di dialogo sul Common Ground. Ci deve essere un modo migliore, per mettere insieme le persone, che dire restiamo separati in questi settori e lanciamoci pistolettate o pietre o parole a vicenda ogni giorno con violenza.  E così ci comportiamo violentemente e spendiamo tutte le energie sugli altri, e i problemi non vengono nemmeno affrontati. Ecco ciò che mi ha esasperato. Mi sono detta: se posso dare un qualche contributo, ecco questo sarà il mio impegno.

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