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IL CONCILIO, FRA RIMOZIONI E QUESTIONI APERTE. UN CONVEGNO A 50 ANNI DALL’INDIZIONE DEL VATICANO II

Tratto da: Adista Notizie n° 73 del 04/07/2009

35091. ROMA-ADISTA. “Tra memoria e profezia: le aperture del Concilio e le sfide di oggi” è il titolo del convegno che si è svolto a Roma, lo scorso 20 giugno, promosso da una serie di gruppi ecclesiali di base (fra cui Liberamente Noi, La Tenda, Comunità di base San Paolo, Cipax e Noi siamo Chiesa) per ricordare i 50 anni dall’indizione del Concilio Vaticano II.

Raniero La Valle ha aperto la prima delle due tavole rotonde. La sua tesi è che ciò che ha bloccato la spinta conciliare, e che deve essere rimosso, è una sorta di “convenzione” che ha visto d’accordo sia i conservatori che i progressisti. La “convenzione” è che il Concilio abbia avuto una natura essenzialmente pastorale, escludendo pertanto una sua rilevanza teologica. La Valle ha citato, tra i progressisti che, ancora recentemente, hanno fatto propria questa interpretazione riduttiva (“una pietosa bugia”, l’ha definita), il teologo Armido Rizzi, il quale sul numero di Servitium del settembre-ottobre 2008 ha sostenuto che il Vaticano II non è stato un concilio di taglio effettivamente teologico, se non per quanto riguarda, ma anche qui solo in modo parziale, l’ecclesiologia. Per Rizzi la riflessione teologica sui temi conciliari è venuta dopo; del resto, se fosse avvenuta nel corso delle sessioni conciliari si sarebbe arrivati all’anatema. Ma per La Valle questa interpretazione è sbagliata. A suo avviso già il discorso con cui Giovanni XXIII ha aperto il Concilio conteneva la chiara intenzione di porre sul tappeto questioni di dottrina. Questo era il senso del “balzo innanzi … verso una penetrazione dottrinale…” e dell’istanza di “cambiare il rivestimento della fede”, per riferire alcune delle espressioni usate da papa Roncalli. Dunque, la sfida di oggi è superare “il dogma dell’invarianza”, è riaccostarsi al Concilio come “evento che sta dentro la storia della salvezza”, che anzi è esso stesso “salvezza”. La Valle ha invitato a riprendere in mano i preamboli delle costituzioni “che sono veri e propri preamboli di dottrina, e che ri-raccontano la storia della salvezza agli uomini del nostro tempo”. “È un modo nuovo, liberante, persuasivo” di raccontare la storia della salvezza, dice La Valle a proposito di questi testi, “come non succedeva da mille anni”. Di questa novità conciliare ha portato due esempi. Uno antropologico: “Nel Concilio non è per il peccato che si lavora con il sudore della fronte, o si partorisce con dolore”. Dio, dopo il peccato originale, non ha cacciato nessuno. Il Concilio, dunque, supera il pessimismo sull’uomo che ha accompagnato tanto a lungo la Chiesa, e non induce a considerare inevitabile la malvagità della politica e del potere. L’altro fronte è teologico: il Concilio non fa menzione della dottrina (anselmiana, e poi sempre ripresa) dell’espiazione, della riparazione, del sacrificio risarcitorio di Cristo. Dio è entrato nella storia umana, con il Figlio, non per un sacrificio riparatore ma per svelare il suo segreto; per svelare “il versante divino dell’essere umano”.

Se, dunque, per La Valle la sfida oggi non è di difendere il Concilio, ma di proporne le prospettive teologiche sin qui non raccolte, per Giovanni Franzoni arroccarsi in difesa del Concilio è ugualmente una battaglia perdente; ma la ragione, per lui, è un’altra: il Concilio è stato solo un momento dentro un processo nato ben prima. La crescita del discorso religioso ha avuto, con il Concilio, “un’impennata” (all’interno della Chiesa cattolica), ma l’evento-Concilio non è stato determinante. I padri conciliari portavano con sé, dalle loro chiese locali, esperienze ricche di elementi di novità che il Concilio ha, in parte, raccolto, ma non certo anticipato. “I documenti conciliari – per Franzoni – erano il minimo di ciò che si potesse dire per poter continuare a fare ciò che già si faceva nelle chiese locali”, o, almeno, in molte di esse. Dunque, per l’ex abate di S. Paolo, che fu giovanissimo padre conciliare, oggi “dobbiamo difendere a oltranza non tanto i documenti del Concilio, ma le esperienze pastorali che sono in corso; per questo vale la pena di spendere la nostra vita”. Franzoni ha ricordato poi che, già nei giorni del Concilio, molti padri, fuori dall’aula conciliare, erano portatori di una “metodologia della ricerca di fede” che era ben diversa dalla “metodologia dogmatica” prevalente nella Curia romana. “La discussione fuori dall’aula conciliare avanzava dubbi su tutto”, osserva Franzoni. Ed oggi la sfida è proprio questa: stare dalla parte della discussione libera, “sempre e su tutto”, come è nelle corde dell’ebraismo; e non invece restare prigionieri dei dogmi, che sono “la negazione, la preclusione ad avanzare nella ricerca di fede”.

Paola Gaiotti ha seguito Franzoni nella lettura di un Vaticano II che, per gran parte, fu “una conferma di ciò che molti già vivevano o sentivano”. Per l’ex parlamentare due sono le sfide odierne: il pieno recupero della Chiesa come popolo di Dio e una lettura positiva della secolarizzazione. Su entrambi i fronti, per la Gaiotti, il momento più alto della Chiesa italiana del post Concilio è stato il convegno “Evangelizzazione e promozione umana” del 1976. Fu “un’esperienza unica nella Chiesa”. Fu “un modo collettivo di essere Chiesa che non avevamo conosciuto prima e che non avremmo più conosciuto dopo”. In questo senso dalla Gaiotti è venuto un ricordo grato a mons. Bartoletti, allora segretario della Conferenza episcopale italiana. E proprio alle “carte” di preparazione di quel convegno ecclesiale, che ebbe l’opportunità di studiare nell’estate precedente il convegno, ha fatto riferimento, per sottolineare quanto vi fosse di lettura intelligente e serena della secolarizzazione, vista “non come una malattia da morirne, ma come qualcosa che è a gloria di Dio”. (giampiero forcesi)

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