Gaza: l'umanità non è vinta
A quanti hanno eletto il domicilio a Gaza
Carissimi,
Netanyahu è stato messo in difficoltà dal suo esercito, da gran parte della società israeliana, da diversi governi che si sono svegliati, dal crescente sdegno dell’opinione pubblica internazionale e dalla solidarietà con le vittime dei domiciliati a Gaza, e ha annunciato l’invasione ma non l’annessione di Gaza, la fine e la continuazione del "lavoro", la sospensione dell’aggressione a patto della resa, l’assoggettamento dei palestinesi ma scaricandolo sugli Stati arabi. Segno che l’umanità non è vinta.
Sul significato dell’elezione del domicilio a Gaza vi trascriviamo qui l’intervista a Raniero La Valle pubblicata dall’Unità del 7 agosto:
«Parla lo scrittore e saggista Raniero La Valle
Su Gaza l’Europa ha perso testa e cuore, riconoscere oggi la Palestina è vano perché Israele l’ha reso impossibile
«L’iniziativa di prendere il domicilio simbolico nella Striscia è un atto di speranza: un popolo, ucciso, risorge. L’Europa? Ha perso la testa e anche il cuore. Riconoscere lo stato palestinese è vano nella realtà»
INTERVISTA di Umberto De Giovannangeli 6 Agosto 2025 alle 10:00
Raniero La Valle, scrittore saggista, politico, una delle grandi firme di una Rai che, ahinoi, non c’è più. La Valle ha scritto un bellissimo libro Gaza delle genti. Israele contro Israele (Bordeaux, 2024), ed è tra gli ispiratori di importanti iniziative a favore del popolo palestinese. Ne parla con l’Unità.
Eleggere il proprio domicilio a Gaza. L’iniziativa che la vede tra i promotori sta avendo un importante riscontro. Quale ne è il senso nel momento in cui Benjamin Netanyahu annuncia che Israele occuperà la Striscia di Gaza?
Il genocidio è compiuto, Netanyahu ha deciso di “finire il lavoro”. Gaza è condannata. La decisione viene da lontano, sta scritta nella legge costituzionale del 2018, altrimenti non si andava a festeggiare i “rave party” sul confine di Gaza. L’iniziativa di prendere il domicilio simbolico a Gaza è un atto di speranza contro la speranza. Un popolo, ucciso, risorge. La proposta è partita da un piccolo gruppo di persone la sera del 23 luglio. Nella notte giunsero 50 adesioni, il 24 ne arrivarono 1.500, il 25 luglio 2.318, il 26 furono 1960, al 29 luglio i nomi erano arrivati a 5.235, tutti pubblicati sul sito “Prima loro”; poi abbiamo perduto il conto, perché per mille rivoli, dai commenti agli articoli del sito, ai Facebook, ai social, se ne sono aggiunti altre migliaia, e ne giungono ancora (lo si può fare all’indirizzo: domiciliatiagaza@primaloro.com). Ciò vuol dire che la proposta ha risposto a un’esigenza diffusa, molto spesso angosciata, di gridare contro il genocidio, di fare qualcosa, anche se solo di poter dichiarare la propria immedesimazione nella tragedia delle vittime, contro l’omertà dei governi, la complicità dei giornali, l’indifferenza dei partiti. Era come se tutti ricordassero il monito lanciato da un martire dei nazisti, il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, quando dal carcere di Tegel aveva ammonito: “Chi non grida per gli Ebrei, non può cantare il gregoriano”, ossia non si può tornare alle cure e alla vita quotidiana se non si grida contro lo sterminio; così ora non si può assistere ogni sera, alla televisione, ai bambini amputati, affamati, scheletriti, alle folle prese a fucilate con le scodelle vuote in mano in cerca di cibo, alla folla degli uccisi, degli scacciati, dei profughi senza fare altro che assistere, o passare alla pubblicità. L’obiezione è che l’elezione di domicilio a Gaza è solo simbolica, non vuol dire trasferire armi e bagagli a Gaza, come irridono, per criticare sui giornali questa iniziativa, gli analfabeti dell’umano. Tutti sanno che il domicilio è una cosa diversa dalla residenza; lo dice anche il Codice civile, il domicilio è il luogo di elezione che uno dichiara come “sede principale dei suoi affari e interessi”, ed eleggerlo lì dove non si abita non comporta né obblighi né formalità, mentre la residenza è lì dove si ha la residenza abituale. Ma oggi l’irrompere di questo simbolo, pur in un ambito ristretto come il nostro, è il sintomo che ove lo si chiedesse, milioni di persone in tutto il mondo direbbero che Gaza è il proprio luogo d’elezione, l’oggetto principale delle proprie cure; come alcuni ci hanno scritto: “Sotto le macerie batte il mio cuore insieme ai familiari palestinesi sepolti vivi” o “la situazione di quei disperati, prigionieri, uccisi ed affamati, mi impedisce di dormire serenamente”.
C’è chi potrebbe obiettare: sono solo gesti simbolici.
I simboli hanno una carica potente, perché vogliono dire mettere insieme una realtà e la sua figura. E se la figura fosse che prima centinaia, poi migliaia, poi innumerevoli persone in tutto il mondo si unissero alla popolazione di Gaza, così da far diventare idealmente i figli e abitanti di quella terra numerosi “come le stelle del cielo e come la sabbia che è sul lido del mare”, come degli Ebrei dice la Bibbia, ciò trasposto nella realtà renderebbe impossibile per chiunque pensare di sradicarli, di ucciderli, o di trasformarli in servitori di ricchi bagnanti. E verrebbe così annunziata la sconfitta di tutti i poteri indiscriminati e genocidi. Questo è il significato di questa iniziativa, vista dalla parte delle vittime e di quanti prendono parte per loro. Ma per Israele il significato è ancora maggiore, perché il segnale di questa condanna di massa di quanto esso sta compiendo a Gaza rivela la profondità dell’abisso in cui sta cadendo. Anzitutto è caduta la barriera linguistica che artatamente Israele aveva eretto per sventare ogni critica alle sue politiche; l’espediente era che non si potesse parlare di genocidio, e che ogni dissenso dalla condotta di Israele fosse un rigurgito di antisemitismo (la stessa Onu come “palude dell’antisemitismo”, nelle parole di Netanyahu all’Assemblea delle Nazioni Unite). Era stato il ministro degli Esteri Abba Eban che, dopo la guerra dei Sei Giorni, aveva scritto a tutte le ambasciate di opporre l’accusa di antisemitismo a ogni dissociazione dalle scelte dello Stato ebraico. Ed ora quest’argine è caduto, per mano di Netanyahu, che degli antisemiti è il peggiore, il quale ha trascinato nell’orrore e nel discredito lo Stato di Israele e messo a rischio anche la diaspora ebraica, che non ce la fa a esprimere il proprio dissenso da lui in modo politicamente efficace. Ma al genocidio ormai si grida nello stesso Israele. David Grossman, che alle guerre di Israele ha sacrificato un figlio, ora dice: “Voglio parlare come una persona che ha fatto tutto quello che poteva per non arrivare a chiamare Israele uno Stato genocida. E ora, con immenso dolore e con il cuore spezzato, devo constatare che sta accadendo di fronte ai miei occhi. Genocidio. È una parola valanga: una volta che la pronunci, non fa che crescere, come una valanga appunto”.
Non solo Grossman…
Il genocidio è ammesso anche da due organizzazioni israeliane per i diritti umani, B’Tselem e Physicans, che denunciano e descrivono nei loro rapporti per “for Human Rights” un “intento genocida in tutto e per tutto”. E ancora più lancinante per il governo di Israele è la rivolta di piazza, gli israeliani che agitano cartelli con la scritta “Libero il ghetto di Gaza”, le madri che dicono: “quando mia figlia mi chiederà: e tu dov’eri?” potrò dire “io c’ero”, e le donne che fanno chiasso con le pentole vuote come gli affamati di Gaza, come ha documentato Lucia Goracci, l’inviata del Tg3 in Israele. Un altro rovescio per il governo Netanyahu e i suoi accoliti, più o meno “religiosi” o “ortodossi”, è l’eterogenesi dei fini che si è realizzata nel perseguire l’azione su Gaza. La Striscia di Gaza è stata una preoccupazione costante di Israele, perché, con la sua popolazione esclusivamente palestinese, rende difficile una colonizzazione o uno sbriciolamento come in Cisgiordania. Per rendere sicuro Israele dal pericolo rappresentato dalla spina nel fianco di Gaza, la prima scelta del governo era stata perciò di isolarla, ed evitare ogni contiguità o rapporto con i palestinesi, al punto che Sharon ordinò ai coloni già insediativisi di ritirarsi e rientrare in Israele: ciò provocò una sollevazione contro di lui dei rabbini che vietarono all’esercito di obbedirgli, e dei coloni e dei sionisti per i quali Israele non doveva rinunziare a nessun lembo della terra di Israele, fino al punto che Sharon fu raffigurato con la divisa da nazista e ripudiato. Netanyahu e i suoi governi hanno fatto invece la scelta opposta: si sono compromessi con Hamas coadiuvandola per usarla contro l’ANP e, quanto alla contaminazione con i palestinesi, gli Ebrei, anche non israeliani, sono andati a fare i loro rave party fin sul confine di Gaza, ciò che era una provocazione. Ne è seguito lo scempio del 7 ottobre, usato poi da Israele per vendere al mondo, sempre più inorridito, la sua soluzione finale: così Gaza, da sterilizzata che era, è diventata la pietra d’inciampo, il massimo rischio nel quale sta precipitando Israele.
Macron ha annunciato il riconoscimento dello Stato di Palestina da parte della Francia, così la Gran Bretagna del premier britannico Keir Starmer e altri Paesi europei. L’Italia, invece, non lo farà, mentre continuiamo a vendere armi a Israele.
Forse di più è quello che ha fatto Mattarella, dicendo che in ciò che Israele sta compiendo a Gaza «è difficile non ravvisare l’ostinazione a uccidere indiscriminatamente». Gli ha risposto il Presidente israeliano Herzog, che ha detto di nutrire grande rispetto per Mattarella, ma “Israele non ha alcuna ‘intenzione di uccidere indiscriminatamente’”. Eppure, lo stesso Herzog, il 18 marzo scorso quando Israele ruppe la tregua durata due mesi a Gaza, aveva detto che era “impossibile non rimanere profondamente turbati per quello che sta accadendo sotto i nostri occhi” e di essere profondamente preoccupato per il suo “impatto sull’equilibrio della nostra Nazione”. È impensabile riprendere i combattimenti per portare a compimento la sacra missione di riportare in patria gli ostaggi.
Lei è stato anche senatore della Repubblica. Cosa ha provato quando nell’Aula della Camera dei deputati Matteo Salvini ha ricevuto il premio Italia-Israele?
Mi pare una cosa priva della minima importanza. Se non me lo diceva lei, neanche lo sapevo.
A Gaza, oltre l’umanità, è morto anche l’ultimo sussulto di dignità dell’Europa?
L’Europa ha perso la testa ed anche il cuore. Ora tre Stati dicono di voler riconoscere lo Stato palestinese. Va benissimo come pressione politica, ma è del tutto vano nella realtà, perché Israele lo ha ormai reso fisicamente impossibile. Ha ragione la Meloni quando dice che non si può riconoscere uno Stato che non c’è. Ha ragione anche Caracciolo quando dice: “Si va dritti alla soluzione finale secondo Netanyahu: noi o loro. Illusione: sarà loro e noi. I vinti palestinesi e gli israeliani vincitori barricati nel piccolo Grande Israele allargato a Gaza e Cisgiordania più coriandoli di Siria e Libano. Giungla nella giungla. Noi, “neo-domiciliati a Gaza”, diciamo che “se dopo il crimine ci fosse un futuro”, la soluzione sarebbe la riconciliazione tra Israeliani e Palestinesi, il perdono come culmine dell’umano, l’abolizione volontaria e consapevole della memoria del male ricevuto, la costituzione di un ordinamento, uno o due Stati, con pieni diritti in ciascuno per ambedue i popoli, secondo quanto essi stessi decideranno. Una sorta di “Stati Uniti di Gerusalemme” in una comunità mediterranea ed europea»
Con i più cordiali saluti,
da “Prima Loro”
*Foto United Nations tratta da Flickr
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