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Welfare “fai da te”/1 Davanti al “carrello della spesa”, scena muta di sinistra e sindacati

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 78 del 11/07/2009

Mentre il dibattito politico si arena nella stucchevole contrapposizione tra ottimisti e catastrofisti, le situazioni di difficoltà per le imprese e per i lavoratori aumentano progressivamente e mettono in luce la mancanza totale di risposte complessive in grado di arginare il deterioramento della realtà economica nazionale. In realtà la crisi in Italia è andata ad aggravare fenomeni già in atto da lungo tempo: tra i più evidenti, come noto, i bassi salari e la conseguente perdita di potere d’acquisto di larga parte dei ceti sociali medio-bassi e la crescita esponenziale delle disuguaglianze sociali con l’aumento della povertà assoluta e relativa.

In mancanza di strategie e politiche nazionali si assiste allo sviluppo di iniziative di contrasto alla crisi a livello locale da parte di nuovi soggetti che si assumono anche il compito di salvaguardare elementi di coesione sociale e di tenuta di determinati territori.

Sono percorsi di welfare non istituzionale, in parte innovativi, anche se non privi di ambiguità: azioni che dichiaratamente si propongono come temporanee e di emergenza, con funzione di ponte tra la solidarietà ed il richiamo al mutualismo; interessanti da valutare nella loro evoluzione per comprendere se si tratta di ipotesi di lavoro trasferibili su larga scala o solo di interventi a termine. Si è parlato, a questo proposito, di assistenza “fai da te” alludendo al moltiplicarsi delle iniziative di solidarietà promosse nell’ambito del privato sociale e sostenute dal volontariato. In realtà alcune di queste iniziative si vanno strutturando in modo più complesso della semplice spinta solidaristica ed assistenziale.

Facciamo due esempi molto diversi: il primo è relativo alla ripresa di interesse per il tema del welfare aziendale, il secondo, più noto, riguarda l’intervento della Chiesa.

Per welfare aziendale intendiamo qui le iniziative delle imprese per favorire le condizioni di vita dei propri dipendenti attraverso al creazione di servizi interni alle fabbriche o nel territorio o, in generale, altre forme di facilitazioni, che vanno incontro alle difficoltà di conciliazione tra la vita di lavoro e la vita delle famiglie. È una tradizione che viene da lontano: rappresentata in Italia dal modello di Adriano Olivetti ad Ivrea con la forte integrazione tra la fabbrica e la città e la presenza dell’industria come fattore di sviluppo complessivo anche sul piano sociale e culturale, attraverso la promozione di istituzioni e di servizi ai cittadini; un modello in parte ripreso da molte grandi fabbriche, prima con le case per i lavoratori ed in seguito con altri servizi. Molte aziende si sono inoltre progressivamente radicate nel proprio territorio, andando a rappresentarne un pezzo di identità ben oltre il contributo all’occupazione ed al reddito.

Più di recente i grandi gruppi, privati e pubblici, si sono orientati a fornire servizi ai dipendenti soprattutto per le lavoratrici, quali asili nido interni alle aziende ed altri servizi socio-sanitari; ma non mancano esperienze di servizi più sofisticati, da quelli di creazione di sportelli consulenziali per il disbrigo di pratiche amministrative e fiscali, ai soggiorni-studio per i figli dei dipendenti, alle strutture sportive ed ai centri benessere. Esperienze che dopo una prima fase di espansione si sono ridotte negli ultimi tempi, per effetto della crisi delle grandi concentrazioni industriali e dei fenomeni di delocalizzazione, con il conseguente appannamento di quei legami stretti tra realtà produttive e territorio.

Inoltre mentre in altri paesi tali iniziative sono sostenute da contributi statali, in Italia non esistono agevolazioni alle imprese che promuovono servizi per i dipendenti: in Gran Bretagna il governo Blair ha introdotto una specifica legge per finanziare iniziative co-gestite da imprese e sindacati per bilanciare la vita di lavoro e quella familiare.

L’iniziativa promossa dal gruppo Luxottica, il colosso degli occhiali, vera e propria fabbrica di territorio del Cadore, è in controtendenza e vuole rispondere in modo più diretto e semplice alle difficoltà economiche dei lavoratori: il gruppo, attraverso un accordo con i sindacati, ha varato il “carrello della spesa”, un contributo mensile di 110 euro per i lavoratori, erogato in forma non monetaria e consistente in un buono acquisto presso la Coop Trentino, che ha rapidamente aderito all’iniziativa, garantendo sconti ed offerte.

Perché non un aumento in busta paga? Semplice, perché tale aumento, anche sotto forma di una tantum, sarebbe tassato ed i lavoratori ne percepirebbero la metà: i benefit  sono esentasse, come i ticket per la mensa, e non si tratta di elusione fiscale perché la legge lo consente fino all’importo di 258 euro. Contenti i lavoratori, contenta la Coop, e soddisfatti i sindacati (in fabbrica non si sciopera da anni) che respingono l’accusa di cogestione e parlano di ritorno al vecchio mutualismo. La Luxottica afferma di non voler fare paternalismo, ma di ritenere che ci sono interessi aziendali nel mantenere sia il radicamento territoriale (la fabbrica è una delle poche del settore che ha scelto di non delocalizzare le produzioni) sia il senso di appartenenza dei lavoratori, come garanzia per il mantenimento dei livelli di qualità della produzione. Staremo a vedere se l’iniziativa avrà carattere di emergenza per fronteggiare la crisi o se si estenderà ad altri benefit e ad altre aziende; per ora le iniziative di questo tipo sono poche e non hanno avuto lo stesso impatto mediatico del caso Luxottica.

Certo è un colpo alla sacrosanta lotta per l’aumento dei salari; è un oggettivo arretramento rispetto ai diritti del welfare universalistico che faticosamente si erano fatti strada grazie alle battaglie dei lavoratori; apre scenari inquietanti per il futuro della contrattazione.

Ma a fronte di una perdurante afasia della sinistra e dei sindacati su come innovare nel welfare per tenere insieme i diritti sociali conquistati e la crisi della spesa pubblica, sarebbe un errore non approfondire ed interrogarsi, proprio a partire dai quelle dinamiche di territorio che sembrano sempre più rinchiudersi in logiche autoreferenziali. Vedremo, a riguardo, come istanze analoghe, anche se con obiettivi e prospettive diverse, alimentano anche le iniziative della Chiesa.

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