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La terza enciclica Carità e verità tra San Paolo e Michael Novak

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 81 del 18/07/2009

Non è una lettura piacevole, la terza enciclica di papa Benedetto XVI, Caritas in veritate, e già in questo la distanza dalla Spe salvi che l’ha preceduta è netta. Se quello era un testo smilzo di una settantina di pagine, interamente di pugno di Ratzinger e di lettura agevole – a prescindere dal giudizio che si poteva dare dei contenuti – dalle oltre 140 pagine della Caritas in veritate emergono con chiarezza la sua gestazione complessa, i ripensamenti, le molte mani che hanno contribuito a scriverla, la distanza del pontefice da alcuni dei temi trattati. Oggi, però, all’indomani della sua uscita, la questione si può riassumere – in termini magari un po’ brutali – nel vecchio dilemma: il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto?

Nella sua enciclica sociale papa Ratzinger rinnega o porta avanti l’apertura al mondo contemporaneo e alle sue forze sociali della Populorum progressio? Mantiene ferma una qualche forma di ‘opzione per i poveri’ oppure sposa sostanzialmente le tesi di personaggi come Michael Novak (sociologo cattolico americano), per cui messaggio cristiano e capitalismo ‘puro’ possono andare serenamente a braccetto? La Chiesa si pensa ancora come attore che lotta per liberazione dell’uomo, di tutto l’uomo, insieme alle parti migliori dell’umanità oppure è decisa a ridurre il suo ruolo a guardiano delle ‘Colonne d’Ercole’ bioetiche, oppure a fornitore di ‘valori morali’ al capitalismo? Chi leggerà la Caritas in veritate, troverà motivi per tutte queste letture, e anche per molte altre.

Nella prima decina di pagine – evidentemente di pugno dello stesso pontefice – papa Ratzinger spiega il motivo del suo ‘rovesciamento’ di San Paolo, che nella lettera agli Efesini parla di veritas in caritate (“veritatem autem facientes in caritate”, Ef 4,15): la carità, pur essendo “la più grande” tra le cose donate da Dio all’uomo e destinata a non avere “mai fine”, deve essere temperata da una buona dose di verità, pena il rischio di “fraintenderla”, di “svuotarla di senso”, di scivolare nel “sentimentalismo”, di farne “un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente” oppure “una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali”. Rischio reale se – come spesso oggi capita alla Chiesa – all’azione ‘umanitaria’ non si accompagnano un’analisi e una proposta sociale e politica radicali, ma che per il pontefice va contrastato invece facendo della carità un mezzo per “accreditare la verità”, soprattutto “oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso di essa incurante e ad essa restio”; principio riaffermato anche in conclusione, quando si dice che “oggi la questione sociale è diventata radicalmente questione antropologica”. La carità, insomma, come arma contro il relativismo, e poco più.

Epperò, nelle molte pagine del testo, chi vorrà potrà trovare molti segnali positivi: la Chiesa parla dell’indispensabile compito di “ridistribuire” le ricchezze giocate dello Stato, chiede un rafforzamento dei sindacati e della loro azione, difende l’accesso all’acqua e al cibo come “diritti universali”, invoca una riforma agraria. Più in generale, parla di un mercato – e di una società – che non possono essere regolati solo ed esclusivamente dalla regola della massimizzazione del profitto: e questo, al di là degli appelli generici sul ritorno dell’etica nell’economia, significa che c’è bisogno di un mercato in cui “il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità possono e devono trovare posto entro la normale attività economica” (e non in un sistema parallelo e alternativo) perché il mercato, come la società, per funzionare hanno “bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione guidate dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono”.

Dicono i bene informati che nelle ultime fasi di elaborazione della Caritas in veritate, l’impronta mercatista imposta al testo dal banchiere Ettore Gotti Tedeschi e da altri, che volevano una Chiesa schierata ‘senza se e senza ma’ a fianco del capitalismo così com’è, sia stata temperata e ridimensionata dall’apporto della concezione “sociale” e “plurale” dell’economista Stefano Zamagni; dicono anche che chi sperava di rovesciare l’impronta ‘sessantottina’ della Populorum progressio sia stato alla fine ‘sconfitto’ da un testo che si pone – ratzingerianamente – in continuità con il magistero precedente. Ma la logica del ‘meno peggio’ non si addice alla Chiesa: quanto sia pieno il bicchiere lo dirà come agirà, in futuro, la Chiesa.

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