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Macroscopiche contraddizioni

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 92 del 19/09/2009

«È una barzelletta cattocomunista», dice il signor B. a proposito delle minacce alla libertà di stampa. Ma come? Da quando i cattocomunisti raccontano barzellette? Tristi, torvi, dediti a misteriose pratiche penitenziali, i cattocomunisti – si sa – preferiscono il cilicio al Bagaglino, le vacanze in convento ai bagordi del Billionaire, dieci giorni in certosa all’altra Certosa, la mal nommée. E poi non sanno ridere, seriosi come sono, sempre pronti a denunciare ciò che non va, le trovate della Lega, le simpatiche ragazzate di Bossi, padre e figlio, con i giochini su Facebook. Peccato che i cattocomunisti esistano soltanto nell’immaginazione del signor B. e dei suoi accoliti: sarebbe stata la spiegazione perfetta, la prova regina del complotto contro uno statista di specchiata moralità, Superman della politica e della modestia.

E che non si parli di regime, «perché il 90 per cento della stampa in Italia è in mano ai cattocomunisti». Cattocomunisti anche le veline, anche le tre reti Mediaset, anche quei giornali che del «terzismo», né di qua né di là, hanno fatto una linea editoriale? Noi che comunisti non siamo mai stati – «catto», sì; fedelmente e ostinatamente «catto» – non riusciamo a ridere alle barzellette del signor B. E allora proviamo a ricordare i fatti.

Da alcuni mesi assistiamo a una campagna martellante, a tratti impietosa, e a un susseguirsi di rivelazioni sui comportamenti del Premier: una esibizione di panni sporchi senza precedenti, una lunga serie di fatti sordidi e noiosi, di cui si sarebbe preferito non sapere nulla. Ma… ma non era stato proprio lui, il signor B., ad aver fatto del corpo, del look, dell’immagine (trucco, lifting, trapianto di capelli, bandana) un elemento chiave della sua comunicazione politica? Non era stato lui, con i suoi magazine, a costruire l’immagine rassicurante del presidente tutto lavoro e famiglia? Non era stato il suo modello di comunicazione a confondere pericolosamente pubblico e privato?

La novità dirompente della scesa in campo del signor B. è di avere scompaginato gli schemi tradizionali della politica, di aver costruito una success story mescolando tifo calcistico, modelli del varietà televisivo e tecniche da venditore. Insomma, una forma di neo-populismo che fa leva sul carisma dell’attore principale e sulla presa diretta con le masse, su un feeling che non ha bisogno di faticose mediazioni. Weberianamente, ora il carisma rischia di trasformarsi in routine, di perdere lo smalto, di rivelarsi per quello che è, illusione spettacolare. E il feeling si spezza, sotto il peso degli scandali. Ecco perché le reazioni si fanno più scomposte e nervose.

Quando, incalzato dai lettori, il direttore di Avvenire, Dino Boffo, ha osato esprimere qualche timida riserva su comportamenti che non brillano per sobrietà e che non sembrano improntati alla virtù della temperanza, è stato infilzato con inaudita brutalità, linciato a mezzo stampa. La vicenda è fin troppo nota. Ora B. dice di essere stato all’oscuro di ogni manovra. E gli si può credere. Resta, però, il fatto che zelanti pretoriani si siano investiti della missione di lavare l’offesa e di rendere pan per focaccia ai «moralisti senza morale», ignorando volontariamente la diversità dei casi: da una parte un Presidente del Consiglio; dall’altra, un privato cittadino, sia pure direttore di un giornale.

La macroscopica contraddizione di un Premier che è anche proprietario di giornali, di testate televisive, di case editrici, come in nessun’altra democrazia, si manifesta nella maniera più brutale. È il mai risolto conflitto di interessi, l’anomalia che da quindici anni avvelena la vita politica in Italia. Tutto nasce da lì. Dalla confusione di ruoli. Dall’intreccio di interessi privati e pubblici. E, fatto più grave, dal quasi monopolio dell’industria culturale, le officine del berlusconismo, come le chiama Barbara Spinelli, che producono modelli di comportamento, stili di vita, un ethos diffuso. Perché il problema non è il signor B. o gli eventuali vizi privati di un settantenne che potrebbero suscitare ribrezzo e tristezza.      

È l’ethos che il berlusconismo ha banalizzato in questi anni: la ricerca del successo a tutti i costi, la ricchezza ostentata, la spintarella, l’aiutino; l’avvilimento e la mortificazione del corpo femminile; l’estetica del trucco, del maquillage, del silicone, della «bella presenza», del sorriso a ventiquattro carati, in una patetica e impossibile negazione dell’invecchiamento e della morte. E poi le leggi ad personam, i condoni, con la convinzione che con i soldi (e, nel migliore dei casi, con qualche avvocato in Parlamento) tutto si aggiusta.

In questo clima, le sue parole, più che una barzelletta, sono un incubo: «la maggioranza degli italiani vorrebbe essere come me, si riconosce in me e condivide i miei comportamenti». Ma su una cosa il signor B. ha ragione: le minacce più gravi alla libertà di stampa non vengono da lui o dal conflitto di interessi, dalle denunce contro l’Unità e dalla richiesta di risarcimenti milionari, vengono dal servilismo di troppi giornalisti, dall’autocensura, dalla viltà spacciata per equilibrio o moderazione, dal «tengo famiglia» che fa chiudere un occhio di fronte ai diritti umani calpestati, alla xenofobia dilagante, ai migranti respinti e riconsegnati ai centri di detenzione dell’amico Gheddafi.

Da «catto», sono questi i peccati più gravi, non le abitudini sessuali vere o presunte del signor B. E non c’è ferita più dolorosa del semplice sospetto che la mia, la nostra Chiesa abbia potuto barattare il silenzio o la timidezza su politiche inique con prebende, favori, soldi per le scuole private e leggi in materia di bioetica. Resta l’altra ipotesi, quella della tradizionale prudenza ecclesiastica. Ma come l’obbedienza, anche la prudenza – quando si confonde con la rinuncia o con il silenzio complice – non è più una virtù.

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