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Quale “Chiesa di popolo”?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 107 del 24/10/2009

Chi si era rassegnato alla profezia di una Chiesa “piccolo resto” sarà sorpreso dal  rilancio dell’idea di una Chiesa “di popolo”. Se ne era parlato al Convegno di Verona nel 2006. Poi sono tornati sul tema Papa Benedetto e il cardinale Bagnasco, il segretario della Cei Crociata, il presidente della Fisc don Zucchelli…

Già al tempo del Concilio vari teologi e pastori sottolineavano che la Chiesa è un popolo e non un’élite. I cristiani sperano di essere numerosi: uomini e donne, giovani e anziani, sani e malati, santi e peccatori, ferventi e tiepidi, obbedienti e critici. Gesù infatti non si è rivolto solo agli “eletti”, ai “perfetti” o agli “spirituali”. E il popolo cristiano è formato spesso di ignoranti, ladri e straccioni, toccati dalla Grazia insieme con gli intellettuali, gli eroi, i mistici.

Tuttavia bisogna conservare ben chiaro che far parte del popolo di Dio (per quanto sia vasto e d’incerti confini) è una decisione personale e impegnativa. Troppo spesso era prevalsa l’idea che il popolo di Dio potesse esser composto da persone che neppure sapevano di appartenervi, ma che si adattavano a certe consuetudini delle quali neppur comprendevano il senso. L’alleanza fra il trono e l’altare  (dei poteri politici, economici, militari e mediatici con la struttura istituzionale e visibile della Chiesa) aveva fatto un “miracolo”: intere nazioni risultavano abitate da uomini e  donne che si dichiaravano cristiani all’ 80, 90… 99 per cento.

Ora noi non abbiamo alcuna nostalgia per quella cristianità di abitudine e di apparenza, dove la libertà, anche di coscienza, veniva schiacciata. Non solo perché essa non rende testimonianza al progetto di libertà che Dio ha sull’uomo, ma anche perché questo tipo di cristianità si accompagna a culture e regimi politici autoritari e violenti; monarchie illiberali, principi cristiani, totalitarismi reazionari che trovavano nella religione un alleato prezioso. Ed anche perché un cristianesimo non radicato nella coscienza e nella libertà, e non nutrito dello scandalo della Croce, della povertà e dell’amore, non ha solide radici. Lungo i secoli abbiamo visto scomparire cristianità che sembravano fiorenti, mentre piccole comunità hanno resistito alle più grandi avversità.

Qualcosa del genere sta accadendo anche oggi: le grandi cristianità occidentali sono entrate in un tunnel oscuro; altre chiese locali, piccole e recenti, mostrano vivacità e forza, anche se ci si può domandare quanta sia l’apparenza  e quanta la realtà. Lo scrive Henri Boulad s.j., che conosce da vicino molte situazioni in tutto il mondo (la “lettera” è sul Regno 16/2009 pag 580-81; noi ne parliamo a pag. 11). Il suo giudizio è documentato e preoccupato: l’istituzione e l’abitudine soffocano lo Spirito. Quasi ovunque la Chiesa conosce situazioni di crisi profonda e non vale nascondersi la realtà. Questo coraggioso  gesuita dà voce alla parte più consapevole della Chiesa (vescovi compresi) quando si augura una triplice riforma: teologica, pastorale e spirituale. Perché ciò sia possibile non c’è che una strada: ritornare in stato di Concilio. Il Vaticano II aveva aperto la strada; e se oggi possiamo ancora sperare, in Italia, di poter essere una cristianità di popolo è perché c’è stato un Concilio: altrimenti saremmo una cristianità di muri, istituzioni, danari, numeri… e poco altro.

Tornare in stato di Concilio vuol dire sollecitare ogni credente ad una nuova libertà e responsabilità di riflessione, di azione e di comunione, riaprendo i luoghi di consultazione e di dialogo, a cominciare dai consigli pastorali. Il padre Boulad suggerisce la convocazione  a livello di chiesa universale di un sinodo generale per tre anni, partecipato da tutti i cristiani: laici, preti, religiosi e vescovi. Forse la Chiesa degli apostoli avrebbe fatto proprio così… e non allo scopo di diventare una chiesa piccola e catacombale, ma di diventare una grande, viva chiesa di popolo nutrita della Parola, animata dallo Spirito che libera, inquieta, muove, trasforma…

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