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La parte migliore

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 110 del 31/10/2009

Cosa dovrebbe fare un paese normale dove aumentano le disuguaglianze, dove la fascia di povertà si allarga e aumentano le esigenze di una società complessa e sempre più anziana dimostrando la fragilità del proprio sistema di protezione sociale? Cosa dovrebbe fare se, inoltre, ha il debito pubblico tra i più alti del mondo, che si accompagna ad un’evasione fiscale vergognosa e un sistema industriale fragile? E se, infine, si avvertono le profonde crepe di un tessuto sociale segnato da individualismo esasperato e delegittimazione delle più elementari regole di convivenza? Dovrebbe, se tutto ciò rappresentasse un allarme vero, provare a valorizzare fino in fondo il suo capitale sociale, quella ricchezza fatta di gruppi, associazioni, cooperative, volontariato, comitati, impegno civico organizzato e collettivo. Quello che in un’espressione, forse eccessivamente onnicomprensiva e riduttiva, chiamiamo da anni Terzo settore, così, per negazione, perché non è né impresa privata profit, né Stato.

Un paese normale, ma con quei problematici connotati, lo considererebbe un tesoro a cui attingere a mani basse nei momenti difficili, darebbe alle organizzazioni che ne fanno parte tutti gli onori di casa, provando a capire di cosa ha bisogno per svilupparsi, progredire, rendere sempre al meglio. E non solo per questioni economiche e sociali, per l’efficacia nell’offrire concrete risposte ai problemi, (perché, come sostengono alcuni, si veda anche l’ultimo premio Nobel per l’economia la statunitense Elinor Ostrom, la gestione dei beni collettivi funziona meglio con forme organizzate dal basso dagli stessi utenti e cittadini). Sì, soprattutto, per questo. Ma anche perché è generatore e moltiplicatore di fiducia, di rispetto reciproco, di dialogo, di capacità inclusive, di accompagnamento dei più deboli. In una parola, che si ha quasi vergogna a pronunciare in campo sociale, di amore. La cooperazione, il volontariato, le mutue, l’impresa sociale, la semplice associazione culturale sono le sinapsi neuronali di cui un cervello sociale in attività ha bisogno per produrre pensiero collettivo duraturo e solidamente fondato.

Ebbene negli ultimi anni, invece, da noi sembra sia accaduto tutt’altro. Basta ascoltare le parole di sconforto di don Vinicio Albanesi nell’introduzione del convegno “Terzo settore: gli errori, il futuro. Le prospettive dell’impegno sociale”, di cui parliamo all’interno del giornale: “Noi del sociale siamo rimasti fuori dalle mura del castello, addetti tutt’al più a tenere puliti i dintorni. In questo clima gaudente, noi siamo rimasti eccezioni nemmeno lodevoli: ci hanno assimilato a soggetti negativi. Siamo rimasti soli, con pochi e fidati amici. La città è lontana, affannata a rincorrere la felicità, diffidente verso chi sembra impedirla”. Le parole del cofondatore e animatore della Comunità di Capodarco sembrano non lasciare spazio alla speranza. Di cosa vogliamo parlare, dice, se la società oggi va in tutt’altra direzione?

Ecco, caro don Vinicio: non nonostante, ma proprio perché questo è il quadro che ci si presenta davanti ogni volta che mettiamo il naso fuori dalla porta, dobbiamo credere che il ruolo del Terzo settore sia fondamentale. Certo, gli errori vanno analizzati, riconosciuti e corretti. Ma senza depressione e senza far vincere la logica (pur importante ma non determinante) dell’efficacia organizzativa. C’è una dimensione profetica di cui bisogna salvaguardare l’integrità. Ricominciando dall’orgoglio di pensarla diversamente, dalla convinzione che sull’amore e la gratuità saranno sempre fondati i gesti e i comportamenti di chi condivide questi percorsi. Perché l’amore conta. Ed è l’unico modo di “fregare la morte”. Sia pure soltanto quella civile di un Paese che intristisce non riuscendo a riconoscere la parte migliore di sé.

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