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Quale idea di giustizia?

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 128 del 12/12/2009

È noto che la giustizia non funziona; è noto che i tentativi di aggiustamenti che potessero accelerarne i tempi o sono falliti o sono semplicemente stati un autoinganno del legislatore; e se i governi di centro sinistra non hanno fatto nulla di positivo per la giustizia, certamente i propositi del governo Berlusconi suscitano le più gravi perplessità e paure, non tanto e non solo per la Giustizia, ma prima e più ancora per la stessa Democrazia. Mi sembra di tutta evidenza che la proposta di separazione delle carriere dei magistrati come pure la riforma del Csm hanno un forte odore di controllo e di sottomissione al potere politico della Magistratura. Dopo il Lodo Alfano, che introduceva un’odiosa immunità a favore delle più alte cariche dello Stato (che già godono di ampi privilegi) ora si parla del “processo breve”, a proposito del quale è netta la sensazione che l’appello alla brevità sostanziale sia affrontato tramite un criterio di brevità solamente temporale, senza cioè garantire mezzi e strumenti per velocizzare un processo, ma solo dare limiti temporali con una norma che garantisce tutto meno che un processo giusto, dando in realtà corpo ad una sostanziale depenalizzazione. I due anni previsti sono in realtà una scimitarra che non abbrevia il processo, ma si risolve in una depenalizzazione di fatto: la sanzione, scaduti i due anni, è un “addio” all’imputato, all’imputazione e soprattutto alla giustizia per le vittime dei reati. E il primo reato impunito riguarderebbe innanzitutto i reati di corruzione, per i quali l’Italia è sotto osservazione da parte dell’Europa. Per non dire della evidente e ormai cronica necessità del presidente del Consiglio di sottrarsi a numerosi e incancreniti procedimenti giudiziari. È perciò un’astrazione puramente teorica discettare sulla “riforma della giustizia”, quando il problema vero è quello ancor più sostanziale della democrazia e della fedeltà alla Costituzione.

L’art. 1 della Costituzione stabilisce che “la sovranità appartiene al popolo”. Così è stato fino a quando alla politica corrispondevano interessi e idee forti, contrapposizioni chiare, schieramenti immediatamente comprensibili dal “popolo sovrano”, che infatti partecipava, discuteva, si organizzava, lottava. Le idee e i programmi della cultura cattolica, di quella comunista, di quella socialdemocratica e liberale, di quella di destra, erano immediatamente percepiti dagli elettori. Alle idee forti e alle contrapposizioni chiare è subentrata la confusione, la futilità, la rissa da cortile, la verbosità inconcludente, gli insulti e gli “sgarbi quotidiani”, la facile battuta invece dell’argomentare politico. Inoltre, la sovranità popolare può esistere concretamente solo in presenza di una libera informazione che, svolgendo senza condizionamenti il proprio ruolo, informa i cittadini sull’attività dei propri rappresentanti, ne valuta il lavoro, esprime opinioni, promuove dibattiti. E ancora: se l’intervento dei cittadini viene richiesto solo nella fase dell’espressione del consenso elettorale siamo di fronte ad una democrazia a metà, in cui il ceto politico, una volta ottenuto il voto degli elettori, si ritiene in diritto di fare e disfare a proprio piacimento. L’assolutizzazione del principio della legittimazione popolare tende in realtà a ridurre la democrazia al momento elettorale, mentre la mette tra parentesi nel tempo che intercorre tra l’una e l’altra elezione. Così, la stessa caratteristica ‘costituzionale’ della nostra democrazia è nella sostanza strumentalizzata.

Solo una volta risolta questa contraddizione si potrà accogliere l’appello di chi grida “giustizia!”, perché solo allora potrà emergere, come chiedeva il card. Martini, una nuova liberante prospettiva che fa della giustizia non solo qualcosa da esigere, ma soprattutto una virtù fondamentale che innerva tutti gli ambiti dell’esistenza, dalla sicurezza dei cittadini alla pena per i colpevoli, dai giusti processi alla drammatica realtà del carcere, dalla ricerca del profitto alla tutela dei deboli, tutti temi cari all’agonizzante “cattolicesimo democratico”. Ma per questo bisogna, politicamente (ed ecclesialmente), girare pagina.

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