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RITARDI “CANONICI”. TRENT’ANNI DOPO LA SOSPENSIONE A DIVINIS, RIABILITATO UN PRETE OPERAIO

Tratto da: Adista Notizie n° 129 del 26/12/2009

35348. BUSTO-ARSIZIO-ADISTA. Un evento inatteso e per questo ancora più gradito per la chiesa di base di Busto Arsizio e della Lombardia: dopo ben 32 anni è stata revocata la sospensione a divinis nei confronti di un prete “di frontiera”, per anni impegnato nella puntuale denuncia del malaffare politico in Regione e delle connivenze tra gerarchie e potere secolare, ma anche nella difesa dei deboli, dei migranti, dei rom. Era il 1977 quando don Marco D’Elia, coadiutore della parrocchia di San Michele a Busto Arsizio, in provincia di Varese, fu punito dall’allora cardinale di Milano Giovanni Colombo. Le sue colpe? La critica ai poteri locali (allora rappresentati dalla Dc, largamente maggioritaria in città con quote vicine al 40%) e l’incoraggiamento all’impegno dei giovani della comunità nei partiti e nei movimenti della sinistra, ma anche l’aver introdotto la “co-educazione”, fondendo le attività dell’oratorio maschile e di quello femminile; e ancora, l’invito ai fedeli a prendere la parola durante l’omelia della messa domenicale per commentare insieme il Vangelo e a condividere pubblicamente un giudizio cristiano sui fatti del mondo. Mai apertamente processato dall’autorità, don Marco aveva ricevuto più volte l’ordine di lasciare Busto, ma non aveva mai accettato di tradire il folto gruppo di giovani e adulti che si erano riuniti intorno a lui per praticare quella che allora le comunità di base chiamavano “riappropriazione della Parola”: cioè lo studio e la riflessione comunitari sulla Bibbia e la lettura dei fatti del mondo alla luce del Vangelo.

L’attività di don Marco non era gradita nemmeno alla destra democristiana che allora comandava in città (e i cui dirigenti ben presto sarebbero in gran parte confluiti nella Lega), che tentò con determinazione di liberarsi di quella presenza scomoda, capace di denunciare anche le connivenze di una parte della gerarchia locale (e nel silenzio dell’altra) con i gruppi di potere dominanti in città. Prima di don Marco, del resto, già altri 9 giovani preti erano stati rimossi da altrettante parrocchie della città, nel tentativo di mettere a tacere anche le più moderate voci di dissenso. Ultimo da eliminare, Marco rifiutò di andarsene da Busto Arsizio e comunicò alla comunità la sua intenzione di restare, dal momento che nessuno in Curia era stato in grado di dirgli quali fossero i suoi errori, tranne la disobbedienza. Giunse così la sospensione a divinis, cui fece seguito la decisione di don Marco di vivere del proprio lavoro, come commesso, bidello, elettricista, falegname: un’esperienza durata più di vent’anni, fino alla pensione. All’inizio la comunità di base riunitasi intorno a lui chiese a numerosi preti della diocesi di presiedere l’eucarestia domenicale, ma dopo qualche anno di intensa ricerca storica e teologica nella CdB prevalse l’idea della concelebrazione comunitaria, anche in assenza di preti autorizzati dall’istituzione: così dopo quella della Parola, era venuto il tempo della riappropriazione dei sacramenti.

Il gruppo è sopravvissuto fino ad oggi, nonostante gli abbandoni e la fatica di continuare a testimoniare il proprio dissenso nei confronti delle posizioni di chiusura dell’istituzione eccelesiatica su tanti temi e il proprio severo giudizio sul potere politico lasciato in eredità dalla Dc alla destra berlusconiana, ai ciellini locali, ai cattolici dell’Udc e alla Lega, sempre più spavalda nei suoi atteggiamenti xenofobi e razzisti. Nessuno si aspettava che il card. Dionigi Tettamanzi, anche su sollecitazione del nuovo decano mons. Franco Agnesi, assumesse la decisione di revocare la sospensione di Marco, al quale peraltro non è stata chiesta alcuna abiura delle proprie posizioni e delle proprie precedenti scelte. Un dono che la comunità ha festeggiato con una commossa messa di riconciliazione, presieduta da mons. Agnesi e da don Marco insieme ad altri tre preti amici. Un segno di speranza che, forse, riapre qualche spiraglio nel dialogo fra alcuni settori dell’istituzione e le comunità di base.

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