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La pace va in guerra

- La dottrina della guerra "giusta" e "infinita" secondo il premio Nobel per la pace, Barack Obama

Tratto da: Adista Contesti n° 130 del 26/12/2009

Tratto dal quotidiano argentino “Página/12” (14/12/2009). Titolo originale: “Obama, reprobado en teoría política

 

Obama ha seguito alcuni corsi di teoria politica ad Harvard ma il discorso che ha pronunciato nel ricevere il Premio Nobel per la Pace - immeritata onorificenza che suscita reazioni che vanno dall’ilarità all’indignazione - dimostra che non ha appreso bene la lezione e che la sua interpretazione viziata della dottrina della “Guerra giusta” giustifica il fatto che lo si deplori.

Come afferma una delle più rigorose esperte sul tema, Ellen Meiksins Wood, questa dottrina è da sempre caratterizzata da una enorme elasticità, per adattarsi alle necessità delle classi dominanti nelle loro diverse imprese di conquista. Sebbene la sua formulazione originale si possa far risalire a Sant’Agostino e San Tommaso, fu la penna del domenicano spagnolo Francisco de Vitoria a generare un’opportuna giustificazione della conquista dell’America e della sottomissione dei popoli indigeni, mentre il giurista olandese Ugo Grozio fece la sua parte con i saccheggi praticati dalle compagnie commerciali lanciate a spartirsi il nuovo mondo.

Cercando sostegno in questa tradizione Obama ha sentenziato che una guerra è giusta “se si utilizza come ultima possibilità o in propria difesa; se la forza usata è proporzionata; e se, quando possibile, i civili sono tenuti al margine della violenza”. In questo modo la versione originale della dottrina sperimenta una nuova ridefinizione per meglio rispondere alle necessità dell’impero e culmina mimetizzandosi con la teoria della “Guerra infinita” perseguita dai reazionari teorici del “Nuovo Secolo americano” e ardentemente adottata da George W. Bush per giustificare i suoi soprusi in tutto il Pianeta. È che dopo i successivi logoramenti gli imperialisti diffidavano della dottrina della “Guerra giusta” perché non credevano che fosse sufficientemente flessibile da giustificare eticamente la loro rapina. Bisognava andare più in là e la teoria della “Guerra infinita” fu la risposta.

A dispetto dei cambiamenti che hanno indebolito la sua tesi, la “Guerra giusta” sosteneva la necessità di soddisfare certi requisiti prima di andare in guerra: 1. bisogna avere una giusta causa; 2. la guerra deve essere dichiarata da un’autorità competente, con intento corretto e una volta scartati tutti gli altri mezzi; 3. ci deve essere un’elevata possibilità di conseguire gli scopi perseguiti; 4. i mezzi devono essere proporzionati a questi fini. Durante i secoli i periodici aggiornamenti introdotti dai teorici della “Guerra giusta” hanno ammorbidito queste condizioni al punto che hanno perso ogni importanza pratica.

Nel suo discorso Obama ha strenuamente difeso la guerra in Afghanistan - sostenuta, ha detto, da più di 42 Paesi, tra cui la Norvegia - al punto che in uno sfoggio di ottimismo ha dichiarato che la guerra in Iraq è vicina alla sua fine. Evidentemente l’interminabile successione di morti, soprattutto civili innocenti, che ogni giorno ha luogo in questo Paese a causa della presenza nordamericana, è per l’inquilino della Casa Bianca una minuzia che non può adombrare la diagnosi trionfalista che l’establishment e la stampa divulgano negli Usa con l’intento di manipolare l’opinione pubblica di questo Paese.

Però anche lasciando da parte queste considerazioni è evidente che neanche gli amplissimi criteri abbozzati da Obama nel suo discorso sono rispettati da Washington nel caso della guerra in Iraq e Afghanistan: l’occupazione militare non era l’ultima possibilità, tanto che la quasi totalità della comunità internazionale insisteva - e continua a farlo oggi - sulla possibilità di trovare una soluzione diplomatica del conflitto; non si può parlare di legittima difesa quando il nemico dal quale devi difenderti - il terrorismo internazionale - è definito in modo talmente vago che è impossibile identificare precisamente esso e la natura della sua minaccia; la mancanza di proporzione tra vittime e aggressori acquisisce dimensioni astronomiche, ogni volta che la maggiore potenza militare della storia dell’umanità si accanisce contro popolazioni indifese, impoverite e dotate di equipaggiamenti bellici rudimentali; infine, se c’è qualcuno che non è stato tenuto al margine della furia distruttiva delle forze armate degli Usa è la popolazione civile di Iraq e Afghanistan.

In sintesi: non c’era e non c’è una causa giusta per scatenare questi massacri, punto cruciale per la teoria tradizionale. Salvo che Obama creda ancora che ci siano “armi di distruzione di massa in Iraq” (una perversa menzogna architettata da Bush Jr., Cheney, Rumsfeld e compagnia con la complicità della classe politica dirigente e della “stampa libera” degli Stati Uniti); o che Osama Bin Laden e Saddam Hussein - nemici mortali - condividessero un progetto antimperialista; o che la popolazione afghana abbia commissionato al primo gli attentati dell’11 settembre e che per questo meriti di essere punita.

Non c’è giusta causa per nessuna di queste avventure militari degli Usa - come non c’era in Vietnam, Corea, Granada, Panama, Repubblica Dominicana - e non è una mera casualità che Obama abbia evitato nel suo discorso qualsiasi menzione a questa tradizionale clausola. Nella sua peculiare visione - che è la visione dei circoli dominanti dell’impero - la “Guerra giusta” si converte in “Guerra infinita”.

In linea con questa dottrina Obama viola anche la clausola tradizionale che stabilisce che entrando in guerra una nazione deve avere una ragionevole probabilità di raggiungere l’obiettivo prefissatosi. E se c’è qualcosa che la storia recente ha dimostrato fino alla sazietà è che il terrorismo non sparirà dalla faccia della terra facendogli la guerra. Obama nel suo discorso ha citato un passaggio di Martin Luther King: “La violenza non porterà mai alla pace permanente. Non risolve alcun problema sociale: solo ne crea di nuovi e più complicati”. Ma immediatamente dopo ha detto che come capo di Stato, avendo prestato giuramento per proteggere e difendere il suo Paese, non può lasciarsi guidare soltanto dagli insegnamenti di King o del Mahatma Gandhi di fronte alle minacce che preoccupano gli statunitensi.

Il discorso paranoico, patologico fino al midollo, degli ideologi neoconservatori riappare sulle labbra del paladino del progressismo americano: sempre la minaccia, che sia dei comunisti, dei populisti, del narcotraffico, del fondamentalismo islamico o del terrorismo internazionale. Ma queste minacce, più immaginarie che reali, sono un ingrediente necessario per giustificare l’illimitato incremento delle spese militari e l’enorme redditività che ne deriva per i giganteschi oligopoli che girano intorno al grande affare della guerra. Senza queste minacce sarebbe impossibile giustificare il predominio del complesso militare-industriale e i sussidi da capogiro che riceve, anno dopo anno, dalle tasse pagate dai contribuenti statunitensi.

E neanche sarebbe stata possibile l’esorbitante militarizzazione della società nordamericana che si proietta verso l’esterno con la sua aggressiva politica estera e verso l’interno con la soffocante presenza delle forse repressive e di intelligence, facilitata dalla legislazione “antiterrorista” di Bush jr che ha calpestato buona parte delle libertà civili e politiche esistenti negli Usa.

Il risultato di questa indifferenza di fronte alla clausola tradizionale che esige che l’azione bellica abbia alte probabilità di ottenere i risultati sperati, altro non è che la autonomizzazione dell’iniziativa militare. Come acutamente segnala Meiksins Wood in Empire of Capital in questa nuova versione della teoria la risposta militare si giustifica anche quando non esiste alcuna possibilità che la stessa abbia successo.

O, il che è ancora peggio, con queste nuove condizioni l’aggressione militare dell’imperialismo non richiede alcuna meta specifica e nessun nemico chiaramente definito e identificato.

La guerra non necessita di obiettivi chiaramente definiti e diviene un fine in sé; un fine irraggiungibile e quindi infinito. Lungi dall’essere una situazione eccezionale la guerra si trasforma in un’attività permanente: una guerra infinita contro un nemico non identificabile i cui cangianti contorni - oggi un comunista, domani un populista, poi, il “terrorismo internazionale”, ecc… - li disegna, con assoluta arbitrarietà, il Ministero della Verità dell’impero, la cui missione non è altro che falsare la realtà e costruire il consenso che serve ai dominanti. Non sarebbe esagerato dire che le peggiori predizioni di George Orwell circa la produzione di disinformazione non solo si sono viste confermate ma superate dall’apparato culturale nordamericano. Grazie a questo dispositivo di manipolazione e controllo ideologico il grande affare della produzione e vendita degli armamenti diventa immune alle crisi del ciclo economico. Guerra infinita è un altro modo per dire entrate infinite e permanenti.

L’acido commento dell’ex segretaria di Stato di Bill Clinton, Madeleine Albright, sintetizza bene lo spirito e le premesse che soggiacciono a quest’ultimo scadimento della dottrina tradizionale: “A che serve avere un esercito così formidabile se non lo possiamo usare?”. Di questo si tratta, per cui l’uso e la periodica distruzione di questa impressionante macchina militare è ciò di cui si ha bisogno affinché prosperino gli affari del complesso militare-industriale. Con la sua esternazione superba la Albright ha rivelato ciò che molti ideologi dell’impero stanno ben attenti a celare.

Il discorso di Obama è stato deludente. Per quanto il premio Nobel per la Pace sia svalutato - ricordiamoci che lo consegnarono a un criminale di guerra come Henry Kissinger - il presidente degli Usa avrebbe dovuto essere capace di elaborare un testo che, senza cadere in un inverosimile pacifismo, si distaccasse per lo meno in qualcosa dalla robusta ideologia imposta da Bush jr e dai suoi amiconi. Non lo ha fatto. In più: esistono fondati sospetti che alcuni dei sui speech writers (consiglieri che hanno il compito di scrivere i discorsi del presidente, ndt) siano gli stessi del suo nefasto predecessore.

Non ci sarebbe da meravigliarsi di questa continuità. Obama ha confermato nel suo incarico il segretario della Difesa designato da Bush jr, Robert Gates e, recentemente, ha proposto come segretario di Stato aggiunto per le indagini e l’intelligence Philip Goldberg, espulso dalla Bolivia dal presidente Evo Morales il 10 settembre del 2008 per la sua sfacciata partecipazione ai tentativi separatisti del prefetto del Dipartimento di Santa Cruz, Rubén Costas. Stando così le cose, le speranze alimentate dall’irrazionale “Obamamania” coltivata dalle buone anime progressiste sembrano oggi più illusorie e assurde che mai.

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