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Storiografia e mercato Il Novecento della Chiesa tra banalizzazione e ideologia

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 131 del 26/12/2009

L’uso pubblico della storia del cristianesimo del ‘900 è stato il tema del convegno promosso dalla Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale e dalla Pontificia Università Gregoriana, a Napoli, lo scorso 1-2 dicembre: un confronto fra storici di differente formazione sulla necessità di riappropriarsi della ricerca storica, liberandola dalle ideologie e sottraendola al mercato. Pubblichiamo una parte della relazione di Daniele Menozzi

 

In questi ultimi anni si sono fatti ancora più difficili gli sforzi per gli studiosi di storia di far entrare nel discorso pubblico una considerazione del passato fondata sul criterio che consente alla storiografia di rivendicare un carattere scientifico (naturalmente nei limiti propri delle scienze umane), vale a dire la formulazione di asserzioni fondate su puntuali rinvii a documenti considerati secondo le regole del metodo critico. Le ragioni sono certo molteplici. Tra queste mi pare non si possa sottovalutare l’affermarsi delle regole del mercato negli strumenti di comunicazione di massa: dal momento che le condizioni della loro esistenza si legano al conseguimento di un adeguato profitto, diventa ovvia l’esigenza di incrementarne la vendita attraverso una presentazione dei prodotti offerti che richiami l’attenzione di un numero sempre più elevato di potenziali acquirenti. Sotto questa luce trovano spiegazione alcuni aspetti dell’informazione storiografica sui media: la banalizzazione della complessità del discorso storico, la ricerca degli effetti sensazionali a scapito della ricostruzione oggettiva, una sorta di scandalismo culturale volto al programmatico capovolgimento dei risultati della consolidata tradizione storiografica. Si tratta insomma di sollecitare gli appetiti di un pubblico largo e sprovveduto, cui ci si rivolge come consumatore, anziché come soggetto da avviare alla conoscenza. […]

Tale tendenza espansiva investe anche la storia della Chiesa […].

Il primo tema su cui mi soffermo è la questione dell’atteggiamento della Chiesa verso gli ebrei al momento della persecuzione avviata dal regimi totalitari di destra nel corso degli anni Trenta e Quaranta del Novecento. Si tratta di un argomento su cui sono stati versati fiumi d’inchiostro, ma che vede ancora […] la riproposizione mediatica di un equivoco che la storiografia ha ormai da decenni chiarito. Non si tratta infatti di stabilire se Pacelli abbia favorito e forse persino promosso (anche se a quest’ultimo riguardo non è evidentemente corretto, in mancanza di documenti, passare dalle illazioni alle certezze) un’azione caritatevole a favore degli ebrei. Sarebbe infatti privo di ogni fondamento disconoscere lo sforzo compiuto dalle istituzioni ecclesiastiche o da singoli cattolici per sottrarre, con tutti rischi del caso, ad una barbarica persecuzione vite umane, offrendo una via di scampo a chi probabilmente era destinato alla morte. Ma il punto non sta qui. […] Occorre infatti sapere se a Roma era nota o meno la macchina dello sterminio, quale  posizione il papato ha assunto in rapporto ad essa e le ragioni per cui quell’atteggiamento fu preso. L’obiettivo non è quello di formulare un giudizio morale sulle linee di politica ecclesiastica via via adottate, né quello di rivendicare la preferibilità di una strada diversa da quella che fu effettivamente seguita. […]

È in primo luogo dimostrato che a Roma erano arrivate da più parti notizie certe ed attendibili sulla “Soluzione finale: dunque si sapeva cosa stava accadendo agli ebrei. Anche se gli esatti termini quantitativi dello sterminio non erano noti, non ci poteva essere alcun dubbio che fosse in atto un genocidio. […] Pio XII non prese pubblica posizione, nonostante gli arrivassero diverse sollecitazioni a questo scopo, sulla tragedia che si sapeva essere in atto. […] Naturalmente ciò non toglie che sul piano dei riservati rapporti diplomatici la Santa Sede abbia innalzato la sua protesta, anche vigorosa, per la persecuzione degli ebrei; ma non si può far passare – come qualche autore scrive e come i media ripetono – per una condanna pubblica l’intervento svolto nel riserbo che accompagna ogni azione diplomatica. Constatare il silenzio di Pacelli sulla Shoah non vuol dire che non ne fosse intimamente inorridito, né che non la condannasse e nemmeno che non cercasse di limitarne, tramite la via politico-diplomatica, le spaventose conseguenze. Significa solo che non prese pubblica posizione su di essa. […]  

Il secondo nodo su cui vorrei avanzare qualche considerazione riguarda la presentazione del Concilio Vaticano II come una svolta epocale nella storia della Chiesa. Si tratta di un terreno scivoloso, dal momento che la questione della continuità e della rottura rappresentata dall’assise ecumenica è diventata nell’ultimo mezzo secolo il punto focale di un intenso dibattito intraecclesiale su cui si sono giocate le linee di governo impresse da Roma alla Chiesa universale. […] Non è superfluo ricordare che il Vaticano II ha effettivamente rappresentato un cambiamento di indirizzi della Chiesa romana […]. In effetti largamente condivisa risultava l’esigenza di superare gli ostacoli di tutta una strumentazione culturale ereditata dal passato che rendevano difficoltoso comunicare all’uomo moderno il messaggio della Chiesa. Si può poi aggiungere che per alcuni dei protagonisti era necessaria una riforma profonda: lo stesso Giovanni XXIII, collegando nell’allocuzione di apertura le finalità del Concilio non solo ad un “balzo in avanti” della Chiesa, ma persino ad una “nuova Pentecoste”, aveva lasciato intravedere la possibilità che si operasse un vero e proprio “nuovo inizio” nel cammino del cattolicesimo.

Ma, al di là delle intenzioni dei vari protagonisti, quel che sul piano storico conta sono gli esiti concreti; ed essi non possono che essere misurati sui documenti. E credo sia qui opportuno ricordare che - naturalmente se ci si vuole mantenere sul piano scientifico - non è lecito superare gli scogli della filologia appellandosi ad uno “spirito” del Concilio che ne rappresenterebbe le autentiche aspirazioni non pienamente espresse nel corpo delle sue deliberazioni. È in effetti fin troppo evidente che in questa operazione ermeneutica lo spirito del Concilio, slegato dal riferimento oggettivo alle carte, corre il rischio di coincidere con l’ideologia dell’interprete, relegando la lettera dei documenti ufficiali a trascurabile contingenza accidentale, anziché considerarla per quello che deve essere: insopprimibile punto di partenza dell’esercizio di comprensione critica.

Ora credo si possa dire che in ciascuna delle decisioni conciliari – Costituzioni, Decreti, Dichiarazioni – si trovano formulazioni in cui si manifesta una volontà, più o meno netta di rinnovamento; ma si presentano anche locuzioni in cui si ribadisce per contro la continuità con il passato. Del resto, questo andamento oscillatorio dei testi corrisponde alla dinamica stessa di un’assemblea in cui si confrontarono – pur variamente aggregatesi a seconda dei vari documenti – una maggioranza novatrice ed una minoranza conservatrice, sicché la ferma volontà di Paolo VI di giungere ad una approvazione tendenzialmente unanime delle deliberazioni si realizzò al prezzo di giustapporre tesi gradite ad entrambi gli schieramenti. […]

In questa prospettiva mi pare non corrisponda alla realtà la rappresentazione pubblica dell’assise ecumenica come una svolta epocale: le effettive aperture al rinnovamento […] sono accompagnate da condizionamenti che ne limitano il significato. Gli esempi sono numerosi: la Lumen gentium, in cui il riconoscimento della storicità della Chiesa come popolo di Dio in cammino nel tempo è controbilanciato dall’attribuzione al papato della facoltà di proclamare in via definitiva – e perciò atemporale - verità concernenti non solo la fede ma anche la morale; la Dignitatis Humanae, dove l’accettazione, dopo una secolare opposizione, del diritto alla libertà religiosa come assenza di coercizione pubblica alla coscienza si scontra con la riproposizione dell’auspicio di un riconoscimento sociale della verità detenuta dalla Chiesa; la trattazione dei temi ecumenici in cui alla dichiarazione che la Chiesa di Cristo sussiste nella Chiesa cattolica si accompagna l’asserzione dell’unicità della via di salvezza offerta dal cattolicesimo, rendendo così problematica la possibilità di un cammino comune delle chiese cristiane separate nella conversione alla perfezione dell’unica Chiesa di Cristo. […] 

 

Docente di Storia contemporanea alla Scuola normale superiore di Pisa, coodinatore della Rivista di Storia del cristianesimo

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