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MAESTRI NELLA FEDE, PROFETI E MARTIRI: I “PADRI DELLA CHIESA IN AMERICA LATINA” SECONDO CONCILIUM

Tratto da: Adista Notizie n° 5 del 23/01/2010

35396. BRESCIA-ADISTA. Non può in alcun modo essere considerato una forzatura l’accostamento di diversi vescovi latinoamericani della generazione del Concilio, di Medellín e di Puebla ai “Padri della Chiesa” orientali e occidentali del IV e V secolo. Un accostamento ripreso pienamente dalla prestigiosa rivista internazionale di teologia Concilium (edita dalla Queriniana di Brescia), che al tema dei “Padri della Chiesa in America Latina” dedica l’ultimo numero del 2009, nella convinzione che l’insegnamento e la testimonianza di questi “maestri nella fede” - diventati fondamentali punti di riferimento “per l’ambiente di fede che hanno generato, gli stili e le pratiche che hanno suscitato, la solidarietà che hanno creato, le eredità che hanno lasciato nella successiva stagione ecclesiale e teologica” - “non appartengano ad una fase cronologicamente chiusa”, ma siano “fonte di ispirazione di nuovi percorsi di sequela evangelica non solo in America Latina”.

Fra le molte figure di vescovi a cui guardare come “Padri” di una nuova Chiesa latinoamericana, la scelta dei curatori del numero, Silvia Scatena, Jon Sobrino e Luiz Carlos Susin – scelta tutt’altro che facile, come essi ammettono nell’editoriale –, è caduta su cinque di loro: Hélder Câmara, di cui nel 2009 si è celebrato il centenario della nascita (v. Adista n. 6/10 allegato a questo) e della cui esemplarità riferisce, nel suo articolo, Luiz Carlos Luz Marques; Leónidas Proaño, “vescovo degli indios”, che, come ricorda Giancarlo Collet, “al posto dell’abito ecclesiastico portava il poncho, il vestito dei poveri, e in tal modo dava un segno, indicando a chi egli si sentiva di appartenere”; Sergio Méndez Arceo, vescovo di Cuernavaca, di cui Alicia Puente Lutteroth ricorda il cammino episcopale di “conversione permanente”, “alle frontiere del pensiero e delle prassi socio religiose” e sempre dalla parte degli esclusi (“Mi fa paura – diceva – essere cane muto, mi tocca profondamente l’impotenza, la frustrazione, la ribellione di fronte alle strutture ingiuste”); Aloísio Lorscheider, segretario e poi presidente della Cnbb (la Conferenza dei vescovi del Brasile) e presidente del Celam (Consiglio episcopale latinoamericano) dal ’76 e al ’79, duro avversario della dittatura, più di una volta minacciato di morte e chiamato “vescovo rosso” e, d’altra parte, “uomo del dialogo”, considerando il dialogo, sottolinea Tâania Maria Couto Maia, “l’aspetto più importante nella costruzione della comunione”; e, infine, Oscar Arnulfo Romero, di cui Jon Sobrino ricorda il contributo alla teologia (“vedere Dio a partire dal povero e il povero a partire da Dio”), alla cristologia (guardare ai contadini e alle contadine perseguitati e assassinati come il corpus Christi, e al popolo come “servo sofferente di Jahvé”), all’ecclesiologia (“essere vescovo a modo di pastore, non di re, né tanto meno di mercenario”) e il suo modo unico di tradurre nella vita le celebri parole di Pedro Casaldáliga: “Tutto è relativo meno Dio e la fame”.


Con Medellín o contro Medellín

Molti altri vescovi, tuttavia, vengono ricordati nell’articolo introduttivo di José Comblin, che, di tutti loro, ricorda le qualità proprie dei Padri della Chiesa: la “santità evidente” (per fare solo un esempio, Helder Câmara “viveva realmente povero. Abitava nella sacrestia di una vecchia cappella dei tempi della colonia. Non aveva automobile, non aveva un inserviente. Pranzava al bar dell’angolo, dove mangiano gli operai che lavorano nella zona. Apriva lui la porta e accudiva tutti i mendicanti che passavano di là”); la fedeltà al Vangelo con tutto il rigore possibile; la comprensione profonda dei segni del loro tempo; la venerazione di cui furono e sono oggetto da parte di chi li ha conosciuti; la persecuzione da parte del potere civile ed ecclesiastico. “Varie volte”, scrive Comblin, “ho sentito mons. Proaño, tornando dalla Conferenza episcopale dove aveva difeso la causa degli indigeni, dire ‘Mi hanno lasciato solo!’”.

A tutti loro, sottolinea Comblin, il Vaticano II offrì l’opportunità di incontrarsi e di arrivare a una vera sintonia intorno al tema della povertà della Chiesa, di cui il “Patto delle catacombe della Chiesa serva e povera”, firmato il 16 novembre 1965, nelle catacombe di S. Domitilla, da un gruppo di 40 vescovi (a cui poi se ne aggiunsero diversi altri) costituisce una delle espressioni più alte. “C’è già qui – scrive Comblin – tutto lo spirito di Medellín. Come a Medellín, i vescovi dicono per prima cosa gli impegni che ‘loro stessi’ si assumeranno”. Ed è Medellín (la seconda Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e caraibico, nel 1968) che rappresenta il vero “avvenimento fondante” della nuova Chiesa latinoamericana, pur se inscritto, come spiega José Oscar Beozzo, in una traiettoria le cui radici affondano, oltre che nel Vaticano II (“quando venne stabilito il vincolo tra collegialità e magistero episcopale”), anche nella prima evangelizzazione nel XVI secolo (“Quando l’annuncio del vangelo venne vincolato con l’impegno per la giustizia”): “Da allora - sottolinea Comblin - il mondo si divide in due opzioni: con Medellín o contro Medellín”. Anche se alla fine sembra essere stata questa seconda opzione ad imporsi: “A Medellín - riassume telegraficamente Jon Sobrino - la conversione ecclesiale avvenne audacemente. A Puebla si mantenne sufficientemente. A Santo Domingo scomparve. E ad Aparecida si frenò soltanto un po’ l’arretramento e si ottenne qualche miglioramento”. Prosegue Sobrino: “Allo stato in cui è la Chiesa, è importante ritornare al Vaticano II, e magari con buone conseguenze. Allo stato in cui è il nostro mondo dei poveri, bisogna risalire a Giovanni XXIII, Lercaro, Himmer e alla Chiesa dei poveri, di cui soltanto nel Concilio v’è traccia. Ma allo stato in cui è un mondo di vittime, bisogna andare a monsignor Romero e alla Chiesa dei martiri”.

 

La patristica latinoamericana

Non ci sono, però, solo i “Padri”: bisogna ricordare anche le “Madri”, quelle donne cristiane che hanno preso su di sé, come si legge nell’articolo di Ana María Bidegain e María Clara Bingemer, “una porzione maggioritaria del lavoro ecclesiale in America Latina”. E tanto più occorre ricordarle in quanto la natura stessa del loro pensiero teologico e del loro lavoro ecclesiale – “inter-soggettivo, relazionale, dialogico e comunitario” – favorisce “una certa tendenza all’anonimato”, contribuendo (malgrado l’esistenza di grandi figure, “con voci chiare, forti e profonde”) alla “grande disparità tra il lavoro che hanno svolto e svolgono le donne nella Chiesa e la scarsità del riconoscimento dato loro come edificatrici della comunità ecclesiale”. Eppure, come chiarisce l’articolo, il contributo delle donne alla teologia latinoamericana è tutt’altro che secondario: se la TdL, come ha spiegato Ivone Gebara, aveva lasciato di fatto inalterate “l’antropologia e la cosmologia patriarcali sulle quali si basa il cristianesimo”, è stato compito delle teologhe mettere in discussione l’insieme della teologia dominante, patriarcale e machista, reimpostando non solo il modo di pensare, il dato della rivelazione e il testo delle Scritture, ma anche quello “di pensare il mondo, le relazioni delle persone con la natura e con la divinità”. (claudia fanti)

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