DOPO IL TERREMOTO: AIUTI O CAMBIAMENTO?
Tratto da: Adista Documenti n° 11 del 06/02/2010
Il primo novembre del 1755, Lisbona fu devastata da un terremoto in cui morirono più di 90mila persone, su una popolazione che era allora di 275mila abitanti. Quella spaventosa disgrazia, come è noto, rappresentò un fattore determinante nel processo dell’Illuminismo. Basta leggere Voltaire o Kant per farsene un’idea. Scrivo questo mentre si stanno ancora tirando fuori cadaveri dalle macerie di Port-au-Prince, dove, secondo i dati finora disponibili, le vittime mortali del disastro potrebbero arrivare a 150mila.
In questo quadro, la questione da affrontare è chiara: aiuti o cambiamento? Naturalmente, gli aiuti sono la cosa più urgente. Mentre migliaia di bambini muoiono di fame e di sete e i feriti lottano tra la vita e la morte, sarebbe insensato e folle centrare le nostre preoccupazioni sulle cause ultime dell’esistenza del male nel mondo. Quello che importa, in questo momento, è aiutare quanti hanno subito danni a uscire quanto prima dalla situazione disperata in cui si trovano. Per questo, tutto quello che possiamo offrire sarà sempre poco se teniamo conto di ciò che serve urgentemente al Paese più povero dell’America.
Ma è altrettanto vero che con il solo aiuto non affronteremo responsabilmente il problema posto dalla catastrofe di Haiti. La mia idea è che se il terremoto di Lisbona ha offerto un altro argomento alla presa di coscienza che il mondo non poteva continuare come prima, qualcosa di simile ci sta dicendo in questo momento il terremoto di Haiti.
Un’ecatombe di questo tipo ci pone problemi che toccano la vita in profondità. Penso oggi come la pensava non molto tempo fa Johan Baptist Metz, uno dei grandi della teologia ancora viventi. Metz parlava di come situarsi “in mezzo alle storie di sofferenza e alle catastrofi della nostra epoca”. Da questo punto di vista, diceva con ogni ragione il noto professore dell’Università di Münster, lo spaventoso spettacolo di Auschwitz è per i cittadini del nostro tempo un autentico “ultimatum”. Auschwitz (e ora Haiti, come prima lo tsunami dell’Indonesia) “indica un orrore situato al di là di ogni teologia conosciuta, un orrore che fa sì che ogni discorso decontestualizzato su Dio appaia vuoto e cieco”.
Se qualcosa di chiaro hanno visto gli uomini più lucidi del XVIII secolo, è che con le idee che si avevano in quei tempi sul potere e sulla vita, su Dio e sulla religione, sulla politica e sul diritto, non si sarebbe potuto andare da nessuna parte. Per questo essi compresero che era necessario cambiare, dare alla società e alla storia un movimento nuovo, un orientamento distinto. Senza dubbio, quegli uomini sbagliarono a concedere tanto valore alla ragione, considerando che vi è ancora gente che trova “ragionevole” l’Olocausto nazista, come “ragionevoli” sono stati visti tanti altri olocausti di cui ora ci vergogniamo.
Però, in ogni caso, la cosa più evidente in questo momento è che un mondo con tanto potere, come quello che c’è ora, e con tante poche idee per gestire e orientare questo potere, come avviene in questo momento, senza istituzioni che amministrino efficacemente il diritto e l’economia, la politica e la scienza, la religione e la convivenza, la giustizia e la dignità delle persone, è destinato rapidamente a precipitare in un vuoto senza soluzione e senza ritorno.
La catastrofe di Haiti è venuta a dire a tutti che non sono solo gli abitanti di quel Paese ad affondare in una situazione disperata. No. Siamo tutti noi abitanti del mondo intero a vagare ora senza direzione, per quante certezze ci offrano i politici ottimisti. E per quante minacce avanzino i vescovi disorientati. Non è con il potere di questi politici, né con il Dio di certi teologi che potremo dare a tutto questo una svolta di speranza per le generazioni che verranno dopo di noi.
C’è soluzione? Abbiamo una pista per orientarci? Ci resta la nostra stessa umanità. Quello di cui abbiamo più bisogno è umanizzarci, essere più profondamente umani, superando la disumanizzazione che ci porta dritti al disastro. Non è pessimismo. Né amarezza. E ancora meno risentimento. È esattamente il contrario: se siamo fedeli alla nostra umanità, abbiamo i mezzi per far sì che il mondo futuro sia più abitabile e incoraggiante.
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