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NON ESISTONO ISOLE DI SALVEZZA IN UN MARE DI CAPITALISMO

- Intervista ai rappresentanti della Campagna in difesa del fiume São Francisco

Tratto da: Adista Documenti n° 15 del 20/02/2010

In quali condizioni si trova oggi il Rio São Francisco?

Manoel: Il Rio São Francisco ha subito negli anni parecchie aggressioni: lungo il suo corso, per esempio, sono già state costruite sette centrali idroelettriche, ciascuna delle quali ha lasciato un segno irreversibile. Questi interventi hanno provocato la distruzione delle foreste che proteggevano gli argini, per non parlare dello scarico dei rifiuti agricoli nel fiume. Ma anche la distruzione, ugualmente irreversibile, dei valori e dei principi etici, religiosi e culturali dei popoli indigeni. Ora il progetto di trasposizione minaccia l’esistenza stessa del fiume. Secondo gli studi effettuati, se tale progetto verrà eseguito il fiume non resisterà più di venti anni. E la società ribeirinha è fortemente preoccupata, perché il fiume è fondamentale per l’economia delle famiglie che abitano all’interno del suo bacino idrografico. Eppure, il governo preferisce chiudere gli occhi.

 

A che punto sono i lavori?

Manoel: I lavori, avviati nel 2007, si sono svolti all’inizio a un ritmo accelerato, ma poi hanno subito un rallentamento a causa di problemi amministrativi, compresa un’accusa di sottrazione indebita di denaro pubblico. E vi sono cause civili registrate presso il Supremo Tribunale Federale che contestano l’esecuzione del progetto. Noi siamo decisi a portare avanti la nostra mobilitazione e vogliamo far sentire la nostra voce anche in Europa, per far conoscere l’impatto devastante di questo progetto e le violazioni da parte del governo tanto della legislazione indigenista brasiliana, che riconosce i diritti dei popoli indigeni, quanto della Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, che stabilisce l’obbligo di consultazione delle comunità indigene ogni qualvolta vengano varati progetti con un impatto sulle loro vite e sulle loro terre.

 

Qual è la situazione dei popoli indigeni nella regione?

Edilene: Siamo tutti preoccupati per la situazione, perché i danni all’ambiente e ai nostri popoli saranno irreparabili. Il progetto di trasposizione minaccia l’integrità dei territori indigeni e sta distruggendo la foresta nativa. E noi sappiamo bene che non beneficerà la popolazione che ha bisogno di acqua, perché per avere accesso all’acqua si dovrà pagare. Sarà la grande industria ad arricchirsi, mentre alla popolazione più povera non resteranno che i danni. Oggi il territorio indigeno truká si trova invaso dall’esercito e dalla polizia militare, che vigilano affinché nessuno si avvicini al canale di deviazione delle acque. E noi non siamo più liberi neppure di percorrere il nostro territorio. Recentemente Lula si è recato sul luogo dei lavori ma non ha voluto incontrare nessun movimento sociale. Ha parlato solo con le autorità dello Stato. Abbiamo molta difficoltà a parlare con il governo sul tema della trasposizione.

 

La Chiesa brasiliana appare divisa sul progetto. Non tutti condividono le posizioni di dom Cappio...

Saulo: Per quanto la presidenza della Conferenza episco-pale abbia appoggiato dom Cappio, continuano ad esistere all’interno della Chiesa posizioni divergenti, anche tra i vescovi della regione del Nordest. Il discorso di forte impatto mediatico portato avanti dal governo crea confusione nel-l’opinione pubblica, perché fa passare l’idea che il progetto risolverà il problema della siccità del Nordest, portando l’acqua a 12 milioni di persone. Noi contestiamo gli argomenti governativi sulla base di un’altra proposta dello stesso governo, quella presentata dall’Agenzia Nazionale delle Acque (Ana): è l’Atlante del Nordest, che, per il problema del semi-arido nordestino, offre una soluzione che interesserebbe 50 milioni di persone, basata su investimenti di tipo diverso, senza grande impatto ambientale, come la costruzione di piccole dighe, la raccolta dell’acqua piovana, la creazione di pozzi artesiani. Esiste, insomma, un’alternativa per rispondere alla domanda di acqua del semi-arido nordestino. Ma questa alternativa, che è più economica e raggiunge un maggior numero di persone, non ha un grande fascino mediatico e non risponde agli interessi delle grandi imprese responsabili della costruzione dei canali. Se, tra le due proposte, il governo brasiliano opta per quella che è più cara e che beneficia meno gente, è perché si è accordato con le imprese, con la cosiddetta industria della siccità, quell’industria che un tempo rispondeva solo agli interessi dei grandi proprietari terrieri del Nordest mentre oggi è legata agli interessi delle grandi imprese nazionali e internazionali.

 

Dom Cappio è stato molto duro nei confronti del governo Lula. Voi condividete le sue critiche?

Manoel: Noi condividiamo la valutazione di dom Cappio in relazione alla posizione autoritaria del governo federale. Al momento solo noi del Nordest ci stiamo mobilitando, ma da qui a poco buona parte della società amazzonica protesterà, perché vi sono altri progetti di costruzione di idroelettriche che non sono passati per un processo legale di consultazione dei popoli indigeni. In generale, il governo Lula ha ottenuto risultati importanti, ma dal punto di vista economico ha adottato misure non rispettose dei diritti umani della società brasiliana.

 

Edilene: Siamo delusi. Quante volte Lula si è incontrato in passato con la popolazione indigena criticando il progetto di trasposizione? Proprio quando pensavamo potesse fare qualcosa, egli ci ha voltato le spalle. Senza contare che il suo governo è quello che ha effettuato il minor numero di demarcazioni di terre indigene in Brasile. Noi speravamo ben altro da Lula, tanto più considerando le sue origini. È stata un’amara sorpresa.

 

Come valutate l’azione del governo in materia di riforma agraria e di ambiente?

Saulo: Riguardo alla riforma agraria, non c’è stato alcun progresso. Questo governo ha portato avanti un suo discorso sociale, per esempio attraverso un sistema di quote (cioè una riserva di posti in istituzioni pubbliche e private) per neri, quilombolas (discendenti di schiavi neri che, fuggiti dalle piantagioni, diedero vita a comunità chiamate quilombos, ndt) e indigeni. Ma il problema dell’identificazione dei territori tradizionali quilombolas, come della demarcazione delle terre indigene, non è stato affatto risolto. Si tratta, insomma, di programmi caratterizzati da un approccio meramente congiunturale, mentre noi ci aspettavamo dal governo Lula cambiamenti strutturali: non si risolve il problema delle disuguaglianze e dell’esclusione con politiche legate alla congiuntura. Rispetto all’ambiente, è assai significativo che Marina Silva, sostenitrice della prima ora e amica di lunga data di Lula, abbia lasciato il Ministero dell’Ambiente. L’opzione di Lula per l’agrobusiness è evidente, come indicano gli investimenti negli agrocombustibili o nella produzione per l’esportazione (per esempio della soia, diretta al mercato europeo). Ma oggi l’oggetto della propaganda del governo è il pre-sal, la grande riserva di petrolio individuata nell’Ocea-no Atlantico, e noi sappiamo cosa comporta l’investimento su questa matrice energetica. Quella di Lula è una visione centrata sullo sviluppo che non si differenzia da quella di chi lo ha preceduto. Ed è molto grave che il presidente sia arrivato a dire che gli indios sono un ostacolo allo sviluppo:  ci colpisce enormemente che popoli impegnati in una lotta di resistenza vengano considerati da un presidente di origine popolare un ostacolo. E questo è tanto più grave in quanto, allo stesso tempo, Lula definisce gli usineiros, i grandi produttori di canna, “eroi” del Brasile. Soprattutto noi che lavoriamo nella Chiesa conosciamo bene la storia dello sfruttamento dei lavoratori della canna, a cominciare dallo Stato del Pernambuco che ha dato i natali a Lula: basti pensare alla quantità di lavoratori assassinati nelle usinas (stabilimenti per la lavorazione della canna, ndt) e all’esistenza di lavoro schiavo che la Chiesa denuncia ogni anno e contro cui lo stesso governo ha creato un gruppo di lavoro... E che fa Lula? Definisce eroi i produttori di canna, i grandi latifondisti, e considera i poveri un ostacolo al progresso! Non lo avremmo mai potuto immaginare.

 

Ciononostante Lula ha una popolarità altissima!

Saulo: Sì, e anche tra gli stessi indigeni!

 

Manoel: La popolarità di Lula si deve in gran parte a programmi e progetti puntuali, di natura assistenziale, che alimentano false speranze nella società brasiliana. Io penso che Lula, nei suoi 8 anni di governo, sia riuscito a indebolire il movimento sociale brasiliano. Quello che sta portando avanti come capo di Stato è esattamente quello che egli combatteva quando era parte del movimento sociale. Io sono affiliato al Partito dei Lavoratori, da cui ho ricevuto una prospettiva ideologica di lotta, di resistenza, di opposizione al potere dominante, e dunque mi sento frustrato di fronte alla scomparsa di ogni ideologia di partito che Lula sta ad indicare. Chi ha creduto in un governo diverso, in un Paese diverso, si è reso conto che il governo Lula è uguale a quelli che lo hanno preceduto e che la sua bandiera principale non è quella dei diritti umani del popolo brasiliano, ma quella degli interessi della classe dominante.

 

In ogni caso, malgrado la popolarità di Lula, la candidata del Pt alla presidenza, Dilma Roussef, è in grave ritardo in tutti i sondaggi. Una candidatura sbagliata?

Saulo: Il punto centrale è l’allontanamento di Lula da una proposta di trasformazione interna a un partito. Lula è ormai al di là di qualsiasi forza politica. È una figura che, grazie al suo indubbio carisma, gestisce in maniera molto efficace la relazione con la popolazione e sa anche presentarsi bene all’e-stero, conquistando una grande popolarità internazionale. Va anche riconosciuto che qualche cambiamento il suo governo lo ha prodotto. Per esempio, in politica estera, è cambiato il modo con cui il Brasile si relaziona ai Paesi del continente, stimolando la creazione di articolazioni alternative in America Latina. Sul piano interno, le politiche adottate dal governo, benché di natura assistenziale, hanno interessato un grande numero di persone e sono state portate avanti con continuità, per tutti gli anni dei due mandati di Lula, diversamente da quanto accadeva in passato, quando venivano applicate solo durante il periodo elettorale. Si tratta di un cambiamento concreto che produce un grande impatto sulla popolazione. Il fatto è che ci sono due modi per combattere la fame. C’è il modo adottato dal governo, che fa giungere i suoi contributi nelle case stesse dei poveri. E c’è un modo che risolve a livello strutturale il problema della fame. Noi ci aspettavamo da Lula una politica che non rendesse mai più possibile la fame nel Paese. Ma questo non è avvenuto. Se il prossimo governo non manterrà i programmi oggi esistenti, la fame potrà tornare e potrà tornare in una forma anche più devastante. Lula non ha promosso cambiamenti strutturali. La struttura fondiaria del Paese e la concentrazione di reddito sono rimaste inalterate.

I più grandi elementi di novità a livello continentale sono venuti dalle lotte dei popoli indigeni, soprattutto in quei Paesi, come la Bolivia e l’Ecuador, in cui gli indigeni costituiscono la maggioranza della popolazione. In Brasile, dove al contrario rappresentano un gruppo minoritario, quale proposta possono offrire alla popolazione?

Saulo: In Brasile la situazione è molto diversa rispetto a quella della Bolivia, dell’Ecuador o di altri Paesi. In Bolivia, per esempio, l’identità indigena e l’identità contadina si confondono. La Via Campesina in Bolivia è sostanzialmente indigena. Questa fusione di identità ha reso possibile il fatto che la popolazione indigena, che negli anni ‘60 rappresentava appena il 15% della popolazione, sia oggi diventata  maggioritaria. Il processo di recupero dell’identità etnica ha generato nella società boliviana la novità di un soggetto politico con identità e voce indigene molto forti. In Brasile assistiamo ad una diversità enorme di popoli. Esistono quasi 300 popoli indigeni con realtà molto diverse tra loro, prima di tutto in termini di distanza: vi sono indigeni in Amazzonia, nel Sud, nel Nordest, vi sono popoli costituiti da venti persone e popoli da mille. Non c’è un’identità comune come quella aymara in Bolivia. E quindi la prima sfida dei popoli indigeni del Brasile è imparare a capirsi tra di loro, perché ciascuno di essi è portatore di un’identità specifica: la forma di organizzazione, la lingua, la religione, l’esercizio del potere variano da popolo a popolo. Alcuni, per esempio, si organizzano in clan, altri presentano invece un potere centrale che orienta e coordina. Il Cimi, che accompagna da tanti anni questo processo, si rende conto della difficoltà per i popoli indigeni di costruire alleanze, anche perché, storicamente, essi sono stati messi gli uni contro gli altri. Senza contare che costituiscono realmente una minoranza. La prima sfida, allora, è intendersi tra loro e la seconda sfida è costruire alleanze con gli impoveriti del Paese, perché senza alleanze non c’è soluzione per i popoli indigeni del Brasile. E penso che in questo processo ci sia davvero tanta strada da fare. Per esempio, c’è poca articolazione tra il movimento indigeno e organismi importanti come il Movimento dei Senza Terra. Vi sono addirittura conflitti, perché i governi precedenti hanno creato alcuni insediamenti di senza terra all’interno di territori indigeni. Gli indigeni devono comprendere che non esistono isole di salvezza in un mare di capitalismo. Se non costruiscono alleanze, non potranno mai operare mutamenti nella realtà politica che oggi si trovano a vivere.

Manoel: Oggi, per esempio, stiamo unificando le organizzazioni regionali e creando una grande organizzazione indigena nazionale, l’Articolazione dei popoli indigeni del Brasile. Una delle difficoltà del movimento indigeno brasiliano è che non è riuscito a dialogare, per ragioni linguistiche, con le organizzazioni indigene latinoamericane. Hanno avuto questa opportunità soltanto i popoli amazzonici di frontiera, che parlano anch’essi spagnolo. C’è dunque, prima di tutto, un problema di comunicazione. Dobbiamo mobilitarci nella prospettiva di poterci unificare: a partire dalla diversità, costruire un’unità, sistematizzare i nostri interessi politici, proporre politiche pubbliche specifiche per i popoli indigeni del Brasile. (c. f.)

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