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SAMUEL RUIZ, DA 50 ANNI VESCOVO COL POPOLO DEL CHIAPAS: IL LUNGO CAMMINO DI UNA CHIESA AUTOCTONA E LIBERATRICE

Tratto da: Adista Documenti n° 20 del 06/03/2010

DOC-2244. SAN CRISTÓBAL DE LAS CASAS-ADISTA. Sono giunti in 30mila da ogni angolo della diocesi di San Cristóbal de Las Casas per celebrare, lo scorso 25 gennaio, il cinquantesimo anniversario episcopale di Samuel Ruiz, jTatic (padre) Samuel, come tutti lo chiamano nella diocesi. 50 anni “di ricerca, di inquietudine, di dolore e di dono di sé”, come ha ricordato il vescovo ausiliare mons. Enrique Díaz Díaz, chiudendo il congresso teologico-pastorale che, dal 20 al 23 gennaio, ha voluto rendere omaggio a don Samuel (per le cui “nozze d’oro episcopali” la diocesi ha anche voluto indire un anno giubilare, per “rendere grazie a Dio Padre per il dono della sua vita e della sua dedizione generosa a questo popolo”).

“Celebriamo con gioia e gratitudine - ha dichiarato il vescovo di San Cristóbal Felipe Arizmendi Esquivel - i suoi 50 anni di ministero episcopale” (aveva appena 35 anni quando è stato consacrato vescovo), quaranta dei quali alla guida della diocesi di San Cristobal, nella consapevolezza che non vi è modo migliore per rendergli omaggio che “quello di consolidare e favorire il cammino di questa Chiesa” a cui egli stesso ha dato impulso, e che “non si può né si deve perdere o stravolgere”, deviando dalle sue opzioni fondamentali, a cominciare da quella per i poveri. Un’opzione, ha precisato il vescovo, che “non è congiunturale e neppure facoltativa”, ma è costitutiva dell’essenza stessa della Chiesa “qui e in tutto il mondo”, cosicché “chi non l’assume non è cristiano, non è membro autentico della Chiesa di Cristo, né qui né da nessuna parte”. “Essere fedeli al Vangelo di Gesù - ha proseguito Arizmendi rivolgendosi a don Samuel – è servire integralmente i poveri, per quanto ciò comporti persecuzioni e incomprensioni, come le tante che tu hai sperimentato”. Ed è proprio in nome di questa fedeltà al Vangelo che la diocesi, ha concluso il vescovo, ribadisce l’impegno a “essere la Chiesa che tu hai sognato, ispirato, promosso e accompagnato: una Chiesa autoctona, liberatrice, evangelizzatrice, serva, in comunione e sotto la guida dello Spirito”. Sono, questi, i sei tratti distintivi della Chiesa chapaneca fissati dal Terzo Sinodo Diocesano, convocato da Ruiz nel 1995 e conclusosi nel 1999, sullo sfondo delle grandi opzioni pastorali della diocesi: la creazione, nello spirito della collegialità conciliare, di strutture di comunione più vicine allo spirito evangelico; l’accompagnamento pastorale integrale al popolo di Dio nella concretezza della sua realtà terrena; la ricerca del dialogo e della riconciliazione come unico cammino per risolvere i conflitti. È in questo cammino diocesano che ha deciso di inserirsi mons. Arizmendi (di cui il prossimo primo maggio ricorre il decimo anniversario del suo arrivo a San Cristóbal): prima assai timidamente, partendo da posizioni ecclesiologico-pastorali molto distanti, poi con sempre maggiore impegno a favore della causa degli impoveriti e della teologia india.  

E questo impegno vale, come ha sottolineato Gustavo Gutiérrez, uno dei padri della Teologia della Liberazione, indipendentemente dalle “qualità umane, etiche o religiose” del povero, peraltro presenti spesso in abbondanza: “Il ferito ai margini della strada della parabola del buon samaritano è semplicemente qualcuno in stato di bisogno, qualunque sia la sua identità e qualunque cosa abbia fatto nella sua vita”. E anche gli stessi poveri, ha proseguito Gutiérrez, sono chiamati a fare questa opzione “per i propri fratelli e sorelle di cultura, classe sociale, genere, Paese”: “È un impegno che non nasce per generazione spontanea, ma che richiede da tutti, poveri compresi, un discernimento, una decisione libera”, con tutto ciò che ne consegue, a partire dalla convinzione che i poveri debbano essere gli artefici del loro destino. Non si tratta, insomma “di essere ‘la voce dei senza voce’”, ma della necessità che quanti non hanno voce possano oggi parlare: “Per questo, dobbiamo saper tacere per ascoltare una parola che combatte per essere udita”. E, per questo, si deve riconoscere “il diritto del povero a pensare la sua fede e ad esprimere la sua speranza”: un processo, questo, attualmente in corso e i cui primi passi, per quanto vengano a volte ostacolati, “aprono prospettive teologiche a partire dal mondo dell’insignificanza sociale”.

Sul riscatto della parola dei “senza voce” si è soffermato anche mons. Víctor Corral Mantilla, successore di mons. Leónidas Proaño a Riobamba, sottolineando la necessità della costruzione di una Chiesa autoctona in cui “gli evangelizzati si appropriano del messaggio, lo assimilano, lo fanno proprio, diventando così soggetti di evangelizzazione e animatori di piccole comunità ecclesiali di base”. “20 anni fa - ha proseguito il vescovo - la Chiesa aveva il compito di essere la voce dei senza voce. Oggi questi hanno una voce propria e alla Chiesa spetta il compito di amplificarla”. Un compito che significa, per esempio, “conoscere e rispettare la cultura e la spiritualità indigene”, promuovendo “il dialogo tra teologia cattolica e teologia indigena”; “formare laici indigeni al servizio della Chiesa e del loro popolo, istituzionalizzando ministeri e servizi propri”; “condurre uno studio serio sulla ricca simbologia dei popoli indigeni al fine di scoprire quanto di questa può essere assunto nella liturgia cattolica”; “promuovere le vocazioni e la formazione specifica di sacerdoti indigeni con una solida preparazione teologica”.

Il Vaticano II, ha concluso Samuel Ruiz, “continua a dare impulso con il suo spirito al lungo cammino di costruzione di Chiese autoctone in cui i valori evangelici si incarnino nella cultura”. Così, le comunità africane che ripetevano ‘Venga il tuo Regno’ senza capirne il significato, hanno potuto assimilarlo traducendo “Il tuo tamburo, Signore, risuoni attraverso la selva” (quando il re si recava in una comunità, infatti, era preceduto e annunciato dal suono dei tamburi). “Diventiamo noi - ha concluso don Samuel - i tamburi che precedono l’arrivo del Regno, non annunciandolo solamente, ma inaugurandolo”.

Di seguito, in una nostra traduzione dallo spagnolo, ampi stralci degli interventi del teologo zapoteca Eleazar López, esponente di punta della teologia indigena, e della teologa messicana Mariana Gómez Alvarez Icaza. (claudia fanti)

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