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IL PARTO DI UNA CHIESA AUTOCTONA

Tratto da: Adista Documenti n° 20 del 06/03/2010

C’è molto per cui ringraziare!

La diocesi di San Cristóbal de las Casas deve essere molto grata a Dio per i doni ricevuti durante la lunga traiettoria della sua nascita, del suo sviluppo e della maturazione della sua identità e della sua missione, che ne ha fatto una porzione della Chiesa di Dio con volto e cuore propri e con una ricca tradizione profetica e di lotta a favore del povero e soprattutto degli indigeni. Tradizione e lotta che non sempre sono state giustamente comprese e rispettate dal resto della società e della Chiesa.

La bella geografia chiapaneca è stata benedetta abbondantemente da Dio, non solo per la sua natura piena di vita, la cui impressionante biodiversità evoca il paradiso terrestre, ma soprattutto perché Dio ha seminato qui generosamente, prima dell’azione missionaria, i “Semi della sua Parola” e della sua azione di salvezza, che hanno prodotto nelle culture di questi popoli maya meravigliosi frutti di civiltà, artistici, scientifici e religiosi. (...).

 

Un po’ di storia

Nel XVI secolo, insieme alla spada del conquistatore, giunse qui anche la croce del missionario e con essa alcuni insigni profeti e pastori che sfidarono l’impietosa distruzione di popoli e culture: frati e vescovi come Fray Bartolomé de las Casas che, dopo un processo di conversione personale e purificazione dei propri schemi coloniali, si pose al lato degli indigeni denunciando come peccati gravissimi la sottomissione e la schiavitù a cui furono costretti gli indios con l’avvento della società coloniale, chiamata anche “cristianità”. (...).

Nel corso del tempo il Chiapas ha perduto importanza economica, sociale e religiosa, fino a diventare l’anello debole della nazione messicana, dove le trasformazioni sociali determinate dall’indipendenza e dalla rivoluzione non incontravano la minimo eco.

Mons. Lucio Torreblanca arriva nel 1942 in questa Chie-sa segnata dalla povertà estrema della sua gente e dagli enormi limiti della struttura ecclesiastica. (...). Dopo ripetute richieste di aiuto all’episcopato messicano, don Lucio si convince che non avrebbe potuto aspettarsi molto dall’appoggio esterno. Per questo si affida a un’intuizione, che alla fine sarebbe risultata felice: appoggiarsi alla gente del posto, soprattutto alla maggioranza degli indigeni, che egli inizia a formare come leader comunitari. E ben presto appaiono innumerevoli catechisti, specialmente uomini, disposti non solo a lavorare per la Chiesa ma anche a dare la vita perché il loro popolo conoscesse meglio Dio e il suo progetto di salvezza.

Quando mons. Torreblanca viene trasferito a Durango, è inviato qui don Samuel Ruíz García (1960-2000) a cui tocca, per disegno divino, ampliare e approfondire il processo avviato dal predecessore, iniettandovi l’energia della gioventù e quella generata dal Concilio Vaticano II, a cui egli prende parte attiva, il “Kairós” che apre le porte e le finestre della Chiesa per farla reincontrare con gli uomini del nostro tempo e con i poveri della terra.

 

San Cristóbal, una Chiesa profetica e martiriale

Lo spirito del Concilio assunto intensamente dal jTatic Samuel ha generato in questa diocesi (...) la creazione di strutture ecclesiali rinnovate, i cui frutti si esprimono oggi nella vitalità e nella ricchezza del processo di liberazione e inculturazione portato avanti nella diocesi di San Cristóbal su una solida base biblica, patristica e del Magistero postconciliare. Tutto ciò sistematizzato ed espresso nel III Sinodo di questa Chiesa particolare (1995-1999).

Le prime idee teologiche che hanno ispirato l’azione pastorale derivano dalle implicazioni dell’Incarnazione del Verbo. Di grande aiuto è stata la frase di S. Ireneo “Ciò che non si assume non si redime”, perché se il Figlio di Dio ha assunto tutta la nostra realtà umana, facendosi simile a noi in tutto fuorché nel peccato, noi che siamo la sua Chiesa dobbiamo assumere allo stesso modo ciò che di “buono e nobile” c’è nella storia e nelle culture dei popoli. Questa rivalutazione della storia e delle culture, che don Samuel ha considerato prioritaria nell’evangelizzazione e nella pastorale, ha condotto ben presto all’impegno per la trasformazione delle strutture di peccato e alla necessità dell’incultura-zione del Vangelo e della Chiesa.

Con questi principi, a poco a poco si è andata costruendo, sotto la guida dello Spirito, una Chiesa autoctona con un volto proprio, arricchita dalle diverse presenze e azioni del Verbo nelle culture locali e dall’unità dei popoli che abitano qui. (...). È un processo che si svolge attraverso il dialogo tra tutti gli attori di questa Chiesa e con gli altri fratelli e sorelle nella fede. Un dialogo rispettoso della diversità, che a volte comporta tensioni, ma che non vuole rotture, bensì la comunione nel seno di tutta la Chiesa fondata da Gesù Cristo.

Per grazia e dono di Dio, la diocesi di San Cristóbal continua ad essere una Chiesa profetica, martiriale e sofferente; una Chiesa che ha potuto aprire un cammino paradigmatico di inculturazione del Vangelo e di liberazione del popolo e che per questo ha dovuto affrontare le molteplici crisi sociali ed ecclesiali del tempo. I suoi responsabili sanno che non è facile superare le sfide legate al processo di liberazione e inculturazione e mantenere al tempo stesso l’unità e la comunione ecclesiale. Gli ostacoli incontrati, a volte assai dolorosi quando posti da quanti ci si aspettava che mostras-sero maggiore comprensione, non solo non hanno prodotto la cancellazione definitiva di questo progetto ecclesiale, ma hanno anche creato meccanismi di interlocuzione più attenti, per dar ragione della speranza che orienta il cammino e anche per dissolvere i timori, fondati o meno, di chi guarda le cose da fuori. (...).

 

I diversi animatori di questo cammino ecclesiale

Tatic Samuel non è il creatore di quest’opera, in quanto prima e dopo di lui ci sono stati e continuano ad esserci molti altri strumenti umani dell’azione di Dio. Ma certamente don Samuel ha il merito di aver dato ad essa l’impulso maggiore, come pastore e profeta inclaudicabile, che ha conquistato il cuore di questo popolo e si è lasciato guidare dal Signore della storia. Ciò che jTatic Samuel ha seminato va avanti, contro vento e marea, perché è opera dello Spirito di Dio. Il suo coadiutore, don Raúl Vera López, molto presto si è convinto di ciò e ha aderito con tutto il cuore a questo cammino. L’attuale vescovo, don Felipe Arizmendi Esquivel, e il suo ausiliare, don Enrique Díaz, sono ora la garanzia di continuità di questo processo ecclesiale, affermando, come già prima don Samuel, che esso deve svolgersi all’interno della comunione con la Chiesa universale e specialmente con Pietro che ne è il fondamento visibile.

Tra i molti altri attori di quest’opera possiamo ricordare i padri del Sacro Cuore, i fratelli maristi, i gesuiti, i domenicani e un gran numero di missionari/e laici/e che, come Gesù, hanno creduto che Lazzaro, l’indigeno, non era morto e che bisognava richiamarlo dalla tomba e liberarlo dalle bende, affinché potesse camminare e operare liberamente. Ma soprattutto occorre sottolineare il ruolo centrale dei soggetti locali: i catechisti indigeni, i diaconi e le loro spose, gli anziani o “tatuches” e i loro giovani accompagnatori, i quali hanno creduto nella Parola divina e in se stessi, superando il loro complesso di vittime per diventare martiri o testimoni del Regno di Dio sognato anche dai loro antenati. (...).

 

Dio e l’umanità nella Chiesa

L’esistenza della Chiesa nella storia poggia su due interlocutori o due poli di interlocuzione: Dio che chiama e tende la mano, da tutta l’eternità, e l’umanità che, in tempi e luoghi concreti, risponde alla chiamata prendendo la mano di Dio per collaborare con Lui nella redenzione e liberazione del mondo. (...). Qui si trova la base della Chiesa autoctona: da un lato Dio che vuole costruire la sua (e nostra) casa, dall’altro noi che ci associamo all’opera e offriamo i nostri materiali. Il risultato è sempre la casa di Dio inculturata nel popolo e con il popolo. E quando questa alleanza interessa gli indigeni, allora sorge la Chiesa autoctona indigena. Si realizza qui l’incarnazione del Verbo che pone la sua tenda in mezzo a noi assumendo pienamente la realtà storica e culturale del popolo. (...).

 

Caratteristiche della Chiesa autoctona

Evidenzierò solo alcuni elementi di quanto espresso nel Terzo Sinodo Diocesano di San Cristóbal.

- La Chiesa autoctona non è un’altra Chiesa, né una Chiesa etnica, una setta, un ramo o una succursale nativa della Chiesa universale. È la stessa Chiesa fondata da Cristo, unita nella stessa fede e speranza degli apostoli ed estesa su tutta la terra.

- È una categoria teologico-pastorale del Vaticano II (...) per rispondere alle sfide della diversità umana geografica e culturale dei tempi moderni. Tuttavia la sua radice più antica è nella pluralità delle prime comunità cristiane, che dalla cultura ebrea si erano aperte alle culture del mondo greco-romano.

- Secondo il Concilio, le Chiese particolari si sviluppano a partire dai Logoi Spermatikoi o Semi della Parola, seminati da Dio dall’antichità in tutti i popoli e in tutte le culture.

- Sono sufficientemente fondate e dotate di proprie e mature energie; sono provviste di gerarchia propria, unita al popolo dei fedeli; contano su mezzi appropriati per condurre una vita pienamente cristiana; contribuiscono, nella parte che spetta loro, al bene di tutta la Chiesa; sono profondamente radicate nella vita sociale e nella ricchezza culturale della nazione; contano su sacerdoti nativi, con ministeri e istituzioni propri; sono guidate da un proprio vescovo; hanno una propria identità; sono frutto dell’inculturazione del Vangelo.

 

Contesto delle Chiese autoctone

- Ci troviamo di fronte all’esaurimento del modello di società in cui viviamo e alla crisi della globalizzazione economica e della cultura dominante.

- Stanno emergendo i popoli periferici con le loro culture sopraffatte. Questi popoli perseguono un nuovo modello più degno ed umano: una nuova globalizzazione dal basso, dai poveri, dagli esclusi. Una nuova civiltà della speranza, delle utopie ancestrali.

- La Chiesa, interpellata da questa profonda diversità cattolica, deve abbandonare la barca in cui è insediata perché rischia di colare a picco con essa.

- La Chiesa ha mosso importanti passi verso quanti perseguono una nuova e umana civiltà: le donne e gli uomini del nostro tempo, i laici, i poveri, gli indigeni...

- Il Vaticano II è espressione di questo cambiamento. Le Chiese particolari (locali e autoctone) sono parte di questo cambiamento di paradigma nella Chiesa. Unità nella diversità.

- È urgente tradurre, adattare, adeguare, autoctonizzare, travasare, inculturare la Verità unica del Vangelo e della Chiesa affinché la vera umanità si manifesti nella vera Chiesa. (...).

- Iniziamo a parlare di Chiese al plurale, Chiese che sono diverse nelle loro identità culturali, ma unite nella comunione universale della stessa fede in Gesù Cristo. (...).

 

Sfide della Chiesa autoctona

Molte sfide nascono dalla prassi (non dalla teoria) della Chiesa autoctona, come quella di prendere sul serio i laici adulti nella Chiesa - che luogo devono occupare e quale deve essere la loro partecipazione senza che entrino in conflitto o competizione con i ministri ordinati? -; di armonizzare una legittima diversità ma non a scapito dell’unità; di valorizzare l’autoctono senza cadere in idealismi, romanticismi ed etnocentrismi che incapsulano le culture indigene in direzione della creazione di Chiese puramente etniche; di passare da Chiese clonate (fatte a immagine e somiglianza del missionario) a Chiese veramente autoctone; di dialogare con  chi pensa e agisce in modo diverso da quello degli indigeni; di non provocare paralisi per paura dell’ignoto o del diverso o per troppa prudenza; di saper dare ragione delle Chiese autoctone di fronte a quanti le considerano a volte modelli spuri o segnati da ideologie estranee alla fede.

 

Alcune conclusioni

(...). I nostri pastori riconoscono che nella storia dell’e-vangelizzazione in America Latina esiste un debito della Chiesa con i popoli originari, poiché le loro culture e religioni, anziché essere riconosciute come luogo in cui identificare e accogliere i “Semi del Verbo”, sono state demonizzate e attaccate dalla maggioranza dei missionari. Oggi la proposta della Chiesa autoctona tra gli indigeni va aprendosi la strada come sforzo di un settore della Chiesa per portare avanti un’evangelizzazione in chiave interculturale e interreligiosa e soprattutto in chiave di pluriculturalità ecclesiale. Noi indigeni abbiamo molto da dire agli altri, in relazione all’umano e alla cura della vita e del mondo, ma anche in relazione a Dio stesso, giacché i nostri popoli nel loro lungo processo di vita si sono sentiti animati dalla presenza multiforme di Dio, la ragione d’essere dei loro sforzi e delle loro lotte.

In Chiapas si è manifestato quello che anche in altri angoli della Patria Latinoamericana Dio sta ispirando. Il grande difensore o Taita degli indios in Ecuador, mons. Leonidas Proaño, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, lo aveva percepito chiaramente prima di morire, affermando che gli indigeni “hanno cominciato ad aprire gli occhi, hanno cominciato a vedere, hanno cominciato a sciogliere la loro lingua, hanno cominciato a recuperare la parola, hanno cominciato a pronunciarla con audacia, hanno cominciato a mettersi in piedi, hanno cominciato a camminare, hanno cominciato a organizzarsi, a realizzare azioni che possono diventare di trascendentale importanza per loro, per i Paesi dell’America, per molti Paesi del mondo”.

E nel 1996 un altro profeta, mons. Gerardo Flores, vescovo di Verapaz en Guatemala, presentava di fronte all’al-lora card. Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, questa esortazione: “Se la Chiesa vuole portare il messaggio salvifico nel cuore dei popoli in-digeni e non indigeni dell’America Latina - obiettivo non raggiunto nella prima evangelizzazione a causa dell’imposi-zione violenta di forme ed espressioni culturali del cristianesimo europeo - deve farlo passare attraverso le culture indoamericane. E questo potrà farlo solo ascoltando con attenzione la voce di questi popoli millenari (...)”. E aggiungeva: “Sono convinto... che vi sia una grande quantità di indigeni autenticamente cristiani, per i quali Cristo è il centro della vita e il Vangelo la norma della condotta. Comunità intere che (...) si sono lasciate distruggere per fedeltà alla fede cristiana, come testimoniano gli innumerevoli martiri degli ultimi anni in Guatemala. Non ci si fa uccidere per una ‘verniciatura di cristianesimo’. Sono loro e non noi - che per quanto nativi siamo considerati stranieri - che devono operare la grande sintesi per dare una fisonomia indigena alla Chiesa nelle loro regioni, mantenendo la perfetta unità nella ricchezza delle forme culturali... A noi tocca accompagnare con rispettosa, attenta e prudente aspettativa e chiara apertura all’impulso dello Spirito questo delicato cammino che si va percorrendo e che, speriamo, condurrà a una realtà di piena evangelizzazione dei nostri popoli. Non spaventiamoci per il fatto di non trovare elaborazioni complete e un corpus dottrinale scientificamente organizzato. Qualcuno mi ha detto una cosa che mi ha commosso: “Gli indios non parlano di Dio, parlano con Dio”. (...).

L’azione evangelizzatrice, nel suo senso più autenticamente cristiano, non ha a che vedere con l’imposizione di alcun progetto politico o religioso colonizzatore o proselitista (severamente condannato da Cristo, cfr Mt 23,15); né con l’introduzione di un modello specifico di vita ecclesiale. (...). I miracoli di Gesù sono la risposta a una domanda che egli pone a chi lo segue: “Che vuoi che io ti faccia?” (Mc 10,51). Evangelizzare non significa rendere l’altro quello che voglio che sia, ma rispondere a partire dal Vangelo a quello che egli vuole o necessita che gli si faccia secondo il progetto di Dio, che già sta operando in lui prima dell’arrivo dei missionari e della Chiesa.

Questa è stata precisamente, dal mio punto di vista, la prospettiva assunta a San Cristóbal. E in ciò, non c’è dubbio, l’esperienza chiapaneca è diventata uno specchio in cui possono mirarsi non solo gli altri membri della Chiesa e della società messicana e latinoamericana, ma anche il resto del mondo, poiché quanti di noi cercano alternative di vita a livello sociale ed ecclesiale, di fronte alla crisi imperante, possono apprendere qui i modi pratici e concreti di trasformare in realtà questi sogni e queste utopie di una nuova maniera di vivere e di credere a partire dalla diversità umana, nell’armonia dell’universo. (...).

Quasi 500 anni fa intrepidi missionari si posero il problema, controcorrente, della necessità di una Chiesa indigena e lanciarono il progetto che l’avrebbe resa possibile, quello del Seminario Indigeno della Santa Croce (1535-1575), che doveva formare i ministri nativi di questa Chiesa. Ma le voci contrarie, che facevano eco agli interessi della società coloniale, fecero fallire tale esperienza, lasciando incompleta l’opera evangelizzatrice. Oggi nuovi profeti e pastori della statura di mons. Samuel Ruíz García hanno osato, anche loro controcorrente, rilanciare quella proposta. Le voci contrarie continuano ad essere attive e possono di nuovo far abortire il processo, con i costi che ciò avrebbe soprattutto per la Chiesa. Ma in molti in Chiapas puntiamo ad evitare che si ripetano gli errori del passato, perché possa  trionfare l’opera di Dio. E in ciò noi indgeni siamo pienamente impegnati. (...).

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