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LA LEZIONE DI UN GESUITA AL GOVERNO VENEZUELANO. NEL NOME DEGLI INDIGENI E DELLA RIVOLUZIONE

Tratto da: Adista Notizie n° 84 del 06/11/2010

35847. CARACAS-ADISTA. Con un atto di fiducia nelle promesse del presidente Hugo Chávez, il gesuita ottantunenne di origine basca José María Korta ha interrotto il 25 ottobre lo sciopero della fame che aveva iniziato sette giorni prima in solidarietà con gli indigeni yupka della Sierra de Perijá, una riserva forestale di 300mila ettari nello Stato di Zulia, ricca tra l’altro di coltan e uranio.

Fondatore dell’Università Indigena del Venezuela, Korta chiedeva l’immediata scarcerazione di Sabino Romero, uno dei principali leader yukpa, e dei suoi collaboratori Alexander Fernández e Olegario Romero, arrestati in seguito al violento scontro avvenuto il 13 ottobre del 2009 fra le comunità indigene yukpa di Chaktapa e Guamo Pamocha, conclusosi con la morte di due indigeni: uno scontro presentato come una “semplice lotta fra indios”, ma che è in realtà il prodotto dei soprusi, della dislocazione forzata, della spoliazione di terre a cui è stato sottoposto il popolo yupka da parte di allevatori di bestiame e imprese minerarie. Da qui la richiesta di Korta al governo perché accolga le proposte di demarcazione territoriale presentate alle Commissioni di Demarcazione dagli indigeni yukpa e da tutti i popoli e le comunità indie, secondo quanto previsto dal capitolo VIII della Costituzione e in particolare dall’articolo 119 (ad oggi completamente disatteso), e riconosca il diritto delle autorità indigene, garantito dall’articolo 260 della Carta costituzionale, di “applicare nelle loro comunità istanze di giustizia in base alle tradizioni ancestrali”, “secondo le loro proprie norme e i propri procedimenti, purché non siano contrari a questa Costituzione, alla legge e all'ordine pubblico”.

La decisione di porre fine allo sciopero della fame è stata presa da Korta nel momento in cui il presidente Chávez, informato, mentre si trovava all’estero, dell’azione radicale intrapresa dal gesuita, si è impegnato, attraverso il suo portavoce Elias Jaua, a incontrarsi con lui e a dare seguito alle sue richieste, a condizione che sospendesse la sua protesta: un gesto che, aveva peraltro chiarito Korta, non aveva l’obiettivo di “contrastare la rivoluzione”, ma, al contrario, di “realizzarla e rafforzarla pienamente in relazione ai diritti dei popoli originari”.

 

Una vita per gli indigeni

“Giovane gesuita di 81 anni”, come lo definisce affettuosamente Antonio Pérez Esclarín (El pueblo soberano, 25/10), José María Korta è da 45 anni impegnato nella difesa delle comunità indigene, affinché siano loro a decidere del proprio sviluppo, e per questo avversato, spiega Pérez Esclarín, dagli organismi che dovrebbero lavorare a favore degli indigeni ma che in realtà prendono le decisioni sulle loro spalle senza neppure consultarli. “La sua ultima opera – prosegue Esclarín – è stata la creazione dell’Università Indigena, un’università ‘non per gli indigeni’ ma genuinamente indigena”, dove a insegnare sono per lo più gli stessi anziani leader custodi della saggezza ancestrale. Grande sostenitore della Rivoluzione Bolivariana, Korta, ribattezzato Ajishäma (“airone che mostra il cammino”) dagli indigeni Ye’kwana, sperava che i diritti dei popoli originari venissero finalmente riconosciuti. Ed è stata proprio l’estrema lentezza di tale riconoscimento a indurlo a intraprendere lo sciopero della fame. “Se nessuno ha un amore più grande di chi dà la vita per gli amici – conclude Esclarín – Korta l’ha data goccia a goccia da molti anni ai suoi fratelli indigeni”.

Ed è proprio grazie alla sua azione che il Ministero dell’Ambiente si è impegnato a dare inizio al processo nazionale di demarcazione dei territori indigeni e il Tribunale Supremo di Giustizia provvederà a “rivedere con attenzione” il caso di Sabino Romero e dei suoi collaboratori perché possano venir giudicati dalla giustizia ancestrale. Si tratta ora, secondo quanto ha affermato Julio Ávalos della Fundación Causa Amerindia, che ha accompagnato Korta durante la sua settimana di sciopero della fame, di studiare direttamente con il presidente Chávez “i meccanismi necessari per concretizzare le richieste”.

 

Cambiare sistema

La vicenda, tuttavia, ha evidenziato molte ombre nell’azione governativa. “Abbiamo una delle Costituzioni più avanzate in materia di diritti indigeni”, ha commentato Clodovaldo Hernández su El Universal del 22/10. “Abbiamo un Ministero ad hoc. Abbiamo deputati eletti da popoli originari. Abbiamo una Commissione parlamentare su questo tema. Abbiamo leggi innovative a favore delle etnie ancestrali. Abbiamo ribattezzato il 12 ottobre con l’irriverente nome di Giornata della Resistenza Indigena. Ma al momento della verità la difesa della causa ha dovuto assumerla una specie di nuovo fray Bartolomé de las Casas, che ha scritto un capitolo del XXI secolo della Breve relazione della distruzione delle Indie”.

Chiarissime, infatti, sono le responsabilità di funzionari e funzionarie del governo (sotto accusa, in particolare, sono finiti la ministra dei Popoli indigeni Nicia Maldonado e il ministro dell’Interno e della Giustizia Tarek El Aisami), colpevoli di dividere le comunità grazie all’uso clientelare dei programmi per le abitazioni, l’acquisto di camion, l’assegnazione di crediti attraverso i Consigli Comunali che fanno parte del “Plan Yukpa”, allo scopo di ottenerne l’appoggio per la firma di alcune proposte di demarcazione favorevoli agli allevatori di bestiame. Una politica che ha determinato il conflitto tra le comunità yukpa che hanno accettato i lotti assegnati dallo Stato e quelle, come la comunità Chaktapa di Sabino Romero, che si sono rifiutate di finire, secondo l’espressione dell’antropologo Lusbi Portillo, “come il prosciutto in un panino”, cioè nello spazio limitato tra la fascia di frontiera riservata ad uso militare e le fertili pianure del lago Maracaibo sfruttate dagli allevatori.

In questo quadro, sottolinea l’editoriale del 25 ottobre della rivista militante El Pueblo Soberano (www.elpueblosoberano.net), le promesse di Chávez non sono sufficienti a risolvere definitivamente la questione del debito sociale e politico contratto con i popoli originari (in Venezuela vivono 600mila indigeni suddivisi in 36 etnie): “Sarà necessario cambiare il sistema”, dove per sistema si intende “il modello di sviluppo che pone l’estrazione mineraria al di sopra dei diritti, della vita, dell’agricoltura contadina e della sovranità dei popoli”. Quel modello estrattivista che il giornalista e scrittore uruguayano Raúl Zibechi definisce (Alai, 27/10) come “appropriazione dei beni comuni, in modo diretto o indiretto, per trasformali in merce”: una fase del modello neoliberista successiva alla prima tappa caratterizzata da “privatizzazioni, apertura commerciale e finanziaria e deregolamentazione del lavoro”. Quel modello, basato sull’esportazione di materie prime non lavorate e su ampie concessioni minerarie a società transnazionali, che il governo Chávez non è ancora riuscito a intaccare, così come non è riuscito a farlo il governo ecuadoriano di Rafael Correa, entrato per questo in rotta di collisione con i movimenti indigeni e altre organizzazioni sociali, e neppure - malgrado le sue coraggiose prese di posizione in difesa della Madre Terra - quello boliviano di Evo Morales, il quale anzi, secondo l’agenzia Bolpress, ha appena ampliato da 33 a 56 il numero di aree di sfruttamento di idrocarburi concesse a Yacimientos Petrolíferos Fiscales Bolivianos (Ypfb), diverse delle quali ubicate in territorio indigeno. Una politica, questa, che ben si presta alla controffensiva delle destre, come ha evidenziato il sociologo argentino Atilio Boron affermando che, se i processi politici di cambiamento in America Latina non faranno un salto di qualità, “la restaurazione conservatrice sarà inevitabile” (Cronicon.net/Rebelión, 25/10).

Pertanto, come evidenzia l’editoriale di El Pueblo Soberano, al di là dei risultati ottenuti grazie allo sciopero della fame di José María Korta, e al di là di quello che sarà l’esito della riunione con il presidente Chávez, la questione di fondo è destinata a rimanere: quella dei grandi affari interni al modello estrattivista di cui hanno offerto l’ennesimo esempio proprio gli ultimi accordi firmati da Chávez con il governo russo in materia di energia nucleare, “senza consultare e informare quelli che più saranno colpiti da questi progetti e l’insieme del nostro popolo”. (claudia fanti)

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