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CANCUN: NAZIONI UNITE CONTRO IL PIANETA. SOLO LA BOLIVIA SI SCHIERA CON I MOVIMENTI

Tratto da: Adista Notizie n° 99 del 25/12/2010

35919. CANCUN-ADISTA. Se, come dice un proverbio cinese, un viaggio di mille leghe comincia con un passo, a Cancun l’umanità è rimasta ferma al nastro di partenza. Al di là della scontata - ma non per questo meno eclatante - manipolazione della verità da parte dei governi prima e dei mezzi di comunicazione poi, la 16.ma Conferenza delle Parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (Cop 16) ha consumato l’ennesimo crimine nei confronti del pianeta. “La storia giudicherà severamente”, ha denunciato la delegazione della Bolivia, unico tra 194 Paesi ad essersi opposto all’accordo approvato.


Un nuovo multilateralismo?

È stato salutato con grande enfasi, un po’ da ogni parte, il rilancio del multilateralismo, a cui la precedente Conferenza di Copenhagen aveva inferto colpi mortali. In realtà, come ha evidenziato l’Alleanza Sociale Continentale (composta da movimenti, reti e organizzazioni delle Americhe), l’accordo è stato raggiunto “attraverso negoziati condotti in gruppi piccoli e in riunioni informali, che hanno facilitato la divisione dei Paesi più poveri”. Questa presunta rivincita del multilateralismo, dunque, altro non sarebbe, secondo la delegazione boliviana, che la “vittoria delle Nazioni più ricche, che hanno intimidito e forzato altre Nazioni ad accettare un accordo nei termini per esse più convenienti”. I Paesi industrializzati – si legge nel comunicato della delegazione boliviana – “non hanno offerto nulla di nuovo a livello di riduzione di emissioni e di finanziamento”, tentando anzi di arretrare rispetto agli impegni esistenti. Per contro, sono state sistematicamente escluse le proposte, realmente efficaci, presentate dalla Bolivia sulla base dell’“Accordo dei Popoli” della Conferenza di Cochabamba sui cambiamenti climatici e i diritti della Madre Terra, svoltasi nell’aprile scorso in funzione anti-Copenhagen, che pure erano state integrate nel testo di negoziazione delle parti (v. Adista nn. 32 e 38/10).

Se di multilateralismo si tratta, insomma, è di sicuro una sua versione aggiornata, in cui gli accordi vengono conclusi, come ha sottolineato la delegazione boliviana, sempre “a spese delle vittime”. Non a caso, i movimenti sociali hanno ribattezzato la Conferenza “Cancunhagen”.

 

Verso la catastrofe

Secondo il governo boliviano, c’è una sola maniera di misurare il successo o meno di un accordo sul clima: quella che passa per l’effettiva riduzione delle emissioni di gas a effetto serra per prevenire il riscaldamento globale. Ed è su tale e decisivo punto che la Cop 16 rivela l’entità del suo fallimento. Per prima cosa, il testo della Conferenza fissa a 2 gradi centigradi il limite massimo di aumento della temperatura del pianeta, quando già l’aumento attuale di 0,76 gradi sta provocando una crescita esponenziale di fenomeni climatici estremi, con la morte di 300.000 persone ogni anno. Il limite fissato dal testo della Conferenza, in realtà, significherebbe per l’Africa un incremento di tre gradi - con conseguenze gravissime a livello di desertificazione e di accesso all’acqua -, e per gli Stati insulari la loro definitiva scomparsa sotto le acque oceaniche. “Per noi - ha detto il capodelegazione della Bolivia Pablo Solon nel suo discorso finale - la ‘linea rossa’ è garantire che, da qui alla fine del secolo, nessuno degli Stati cessi di esistere”.

Di certo non sono mancati gli appelli accorati dei Paesi più vulnerabili, i quali, come ha ricordato il presidente di Palau Johnson Toribiong, sono proprio quelli meno responsabili del cambiamento climatico. “La situazione - aveva denunciato Bruno Sekoli, capo dell'Ufficio di Controllo del Clima del Lesotho e portavoce del gruppo dei Paesi meno sviluppati - per noi è disperata. I nostri Paesi stanno già lottando per la sopravvivenza. Tuvalu potrebbe scomparire sott’acqua in qualunque momento”. E il presidente guatemalteco Álvaro Colom, ricordando come il suo Paese abbia vissuto 109 giorni di emergenza sotto la pioggia, con danni materiali pari a un quarto del bilancio annuale dello Stato, ha invitato i delegati a ragionare in termini non di emissioni da ridurre ma di morti da evitare: “Dio ha dato agli esseri umani la capacità di perdonare e di dimenticare, ma alla natura non ha dato tale capacità”.

Ma c’è di peggio, di molto peggio, rispetto al limite fissato dalla Conferenza: non si sa, infatti, come si dovrebbe arrivare a contenere l’aumento della temperatura in ‘soli’ due gradi. L’accordo fa riferimento ad un secondo periodo di impegni all’interno del Protocollo di Kyoto, in scadenza nel 2012, rimandando la questione alla prossima Conferenza, che si terrà a Durban, in Sudafrica, nel 2011. Ma intanto lascia la porta aperta ad uno smantellamento del Protocollo - unico accordo giuridicamente vincolante sul clima che obbliga i Paesi ricchi a ridurre le loro emissioni (per quanto appena del 5% rispetto al 1990) -, includendo solamente l’adozione di impegni su base volontaria. Nient’altro, dunque, che promesse.

 

Ministri sulla luna

Eppure un segnale incoraggiante era venuto dalle potenze emergenti: la Cina (a cui in tanti avevano scaricato la responsabilità del fallimento di Copenhagen), l’India, il Brasile e il Sudafrica si erano dichiarati disponibili a tagliare le proprie emissioni attraverso impegni volontari ma legalmente vincolanti, accettando un meccanismo di misurazione e verifica delle proprie azioni di mitigazione, a condizione che i Paesi più industrializzati si impegnassero ad avviare la seconda fase del protocollo di Kyoto e ad assicurare un giusto contributo finanziario e tecnologico a favore dei Paesi in via di sviluppo. Ma se in tal modo la palla era tornata agli Stati Uniti, questi si sono ben guardati dal rilanciarla: il capo della delegazione statunitense, Todd Stern, ha detto chiaramente che il suo Paese non avrebbe sottoscritto alcun accordo giuridicamente vincolante. E non è stato da meno il negoziatore giapponese Jun Aruma, il quale ha affermato con altrettanta chiarezza che il Giappone non avrebbe fissato “i propri obiettivi all’interno del Protocollo di Kyoto a qualunque condizione e in ogni circostanza”. Non a caso, parlando a nome del “Gruppo ombrello” (di cui fanno parte, tra gli altri, gli Stati Uniti, il Giappone, la Russia, il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda), il ministro australiano dell’energia e del cambiamento climatico Greg Combet ha esaltato le virtù dell’Intesa di Copenhagen, basata proprio su un sistema di offerte volontarie.

Ed è così che il testo di Cancun si è limitato a stabilire che i Paesi industrializzati che hanno sottoscritto il Protocollo di Kyoto e gli Stati Uniti che si sono rifiutati di farlo fisseranno in una lista i propri obiettivi nazionali di riduzione delle emissioni. E i Paesi in via di sviluppo indicheranno anche loro, su una seconda lista, i propri impegni volontari, compatibilmente con le proprie esigenze di crescita economica. Peccato che, con le proposte indicate fino ad oggi, si arriverebbe, secondo gli esperti, ad un aumento di oltre 4 gradi, con conseguenze decisamente catastrofiche per l’umanità. Non a caso la Conferenza si è svolta in un lussuoso complesso alberghiero chiamato Moon Palace, il Palazzo della Luna: “Quello che i ministri stanno discutendo lì – ha commentato il dirigente di Vía Campesina Paul Nicholson – non ha niente a che vedere con la realtà. Stanno veramente sulla luna”.

 

La logica del mercato

Riguardo poi al meccanismo di finanziamento, il testo parla di un fondo globale di 100 miliardi di dollari a partire dal 2020, ma non dice chi provvederà a sborsarli, né come. Nulla garantisce, insomma, che tali aiuti siano, come chiedeva la Dichiarazione del Forum Internazionale di Giustizia Climatica, “non prestiti ma rimborsi, riconoscimenti del debito ambientale contratto da chi ha maggiormente danneggiato la Madre Terra”, e diretti unicamente a “mitigare il cambiamento climatico e fronteggiare i danni sociali, economici e ambientali da esso provocati”.

Inoltre, per quanto non sia detto in maniera esplicita, il fondo dovrebbe essere gestito almeno temporaneamente dalla Banca Mondiale, cioè proprio da quell’organismo, dominato dai Paesi ricchi, che si è reso responsabile dei progetti più devastanti a livello ambientale, che ha promosso l’indebitamento dei Paesi del Sud e che ha sponsorizzato il modello neoliberista in tutto il mondo.

Infine, come evidenzia la Rete italiana per la Giustizia ambientale e sociale, “Cancun conferma sostanzialmente il consolidamento della logica emersa a Copenaghen”, permettendo ai Paesi industrializzati di evadere le proprie responsabilità di riduzione delle emissioni e assicurando la continuità e l’espansione dei meccanismi basati sul mercato. Il fondo verde, i mercati di carbonio e il meccanismo dei Redd+ (Riduzione delle Emissioni contro Degrado e la Deforestazione), che introduce di fatto la privatizzazione delle foreste, “non sono altro che false soluzioni che istituiscono una sorta di ‘diritto di inquinare’”, compensando l’inadempienza degli impegni di riduzione delle emissioni da parte dei Paesi del nord con l’acquisto di diritti di emissione di altri Paesi. Non a caso, ha denunciato ancora Solon, sono state escluse dal documento tutte le opzioni estranee al mercato di carbonio, come quella, avanzata dall’Ecuador, di un meccanismo di compensazione per “emissioni nette evitate”: la rinuncia, cioè, allo sfruttamento di giacimenti petroliferi in cambio di un contributo economico (è il caso del progetto ecuadoriano del Parco Yasuní). Eppure, “strumenti come una tassa sulle transazioni finanziarie, una tassa sulle emissioni di carbonio o una conversione dei sussidi all'industria estrattiva potrebbero già oggi fare la differenza”, ha dichiarato Elena Gerebizza della Campagna per la Riforma della Banca Mondiale.

 

Quale consenso? Quale entusiasmo?

Ce ne è più che abbastanza, dunque, per giustificare il rifiuto della Bolivia, unico Paese a dire no all’accordo (incomprensibilmente, neppure il blocco dell’Alba si è schierato al suo fianco). Fossero stati gli Usa ad opporsi al documento, di sicuro nessuno avrebbe parlato di consenso. Ma, si sa, i Paesi non sono tutti uguali. E così, la presidenza messicana si è limitata a “prendere nota” delle riserve della delegazione della Bolivia, criticando la pretesa di questa di voler imporre il diritto di veto su un accordo “che con tanto lavoro hanno raggiunto gli altri partecipanti”. “Il precedente è funesto”, ha dichiarato Solon, annunciando che la Bolivia presenterà un reclamo formale per il modo in cui si è adottato l’accordo: “Non possiamo in alcun modo liquidare ciò che significa la regola del consenso”. “La regola del consenso non significa unanimità”, ha ribattuto la presidente della Conferenza Patricia Espinosa, sostenuta dai partecipanti alla sessione plenaria, che applaudivano gli interventi della messicana e tacevano di fronte ai reclami del boliviano.

Entusiasta il presidente messicano Felipe Calderón, secondo il quale la Conferenza ha ristabilito la fiducia della comunità internazionale nel multilateralismo, dando inizio a “una nuova era di lotta giusta e corresponsabile al cambiamento climatico”. Quanto agli Stati insulari, che di certo hanno pochi motivi per entusiasmarsi, Calderón ha assicurato loro che non verranno abbandonati alla loro sorte: “Saremo con voi fino a trovare la soluzione comune per la casa comune”. Non si sa, però, se le parole di Calderón siano bastate a rassicurare gli Stati insulari di fronte alle proiezioni dell'Unep (Programma delle Nazioni Unite sull’ambiente) che parlano di una crescita del livello dei mari di 3.3 mm all'anno di media, o di fronte all'ultimo rapporto dell'Organizzazione Metereologica Mondiale, secondo cui i depositi di metano sotto il permafrost (terreno perennemente ghiacciato) artico stanno progressivamente liberando gas in atmosfera, un fenomeno che non si è mai visto fino ad alcuni anni fa. Ed è bene ricordare che il metano ha un potenziale di effetto serra 23 volte maggiore che l’anidride carbonica.

Per i mezzi di comunicazione, però, è tutto sotto controllo: di “un capolavoro di diplomazia” parla ad esempio Antonio Cianciullo su Repubblica.it (11/12), affermando che “il testo dell'accordo, approvato con il dissenso della sola Bolivia messo agli atti, fa dimenticare l'incubo del fallimento di Copenaghen e traccia la strada per un'intesa contro il caos climatico a cui dovrà essere data forma definitiva il prossimo anno”. “L'obiettivo era recuperare l'idea di un processo comune che ha per posta la salvaguardia degli ecosistemi su cui poggia la sicurezza di tutti. E questo obiettivo è stato raggiunto, come hanno dimostrato i ripetuti applausi e le dichiarazioni emozionate dei capi delegazione durante il rush finale notturno”. Certo, ammette Cianciullo, la somma degli sforzi volontari indicati da ogni Paese è circa la metà di quanto i climatologi delle Nazioni Unite avevano considerato necessario. “Serviranno dunque altre due mosse. La prima è incassare le cambiali già firmate rendendo obbligatori questi impegni in un accordo da siglare il prossimo anno. La seconda è rilanciare spingendo sulla green economy e magari ricorrendo anche a una carbon tax”. Più facile di così. (claudia fanti)

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