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Un assedio genocida. A due anni dall’operazione “Piombo fuso”

Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 4 del 22/01/2011

Quando d’estate l’acqua non scende dal cielo, quando l’arida terra sembra non dare nutrimento ai suoi figli e da madre diventa matrigna, come si può far rinascere la vita? Si attivano iniziative, si adottano strategie alternative, si ‘opera’ con messe a punto speciali e straordinarie. Questo devono aver pensato gli strateghi israeliani quando, dopo lo sgombero dei coloni israeliani dalla Striscia di Gaza, nell’agosto 2005, si son trovati a voler gestire una terra non loro. Una terra che è considerata ostile, dura. Terra da domare, ma forse non da far rifiorire. Ed ecco, allora, che si moltiplicano una serie di ‘operazioni’: “Prime Piogge” (settembre 2005), “Piogge estive” (giugno-novembre 2006), “Nuvole d’autunno” (novembre 2006). Perché avranno pensato, se non è la pioggia che bagna e livella e riduce la terra ribelle a miti consigli, che siano le armi di distruzione di massa a cadere dal cielo!
Un’escalation di morte si è riversata in questi ultimi anni a Gaza, un genocidio incalzante che ha visto in “Piombo fuso” l’espressione estrema di questa lucida follia, in cui via via è scomparsa la distinzione tra obiettivi civili e non civili e le armi utilizzate da Israele si sono fatte sempre più distruttive, provocando sempre più morti e feriti.
Da prima del dicembre 2008, Gaza era una prigione per il suo milione e mezzo di abitanti: circondata da filo spinato e muri, soffocata da un sistema di controlli militari che impediscono tuttora l’accesso ai beni primari, Gaza ha subìto, negli anni dell’embargo, come afferma lo storico israeliano Ilan Pappe in Ultima fermata Gaza, «molto più che un’azione punitiva. Date le condizioni demografiche della Striscia, si tratta di una linea di condotta che ha provocato un genocidio: mancanza di alimenti essenziali, assenza di medicinali di base e nessuna fonte di impiego». Ma, come purtroppo molti ormai hanno dimenticato, il 27 dicembre 2008 Israele è andato oltre tutto questo, dando inizio all’operazione “Piombo fuso”, di cui oggi ricordiamo: 1.366 palestinesi uccisi (tra questi, 6 giornalisti, 6 medici, 2 operatori Onu); 13 israeliani uccisi e 200 feriti; 5.360 palestinesi feriti; 152 palestinesi resi disabili permanenti; oltre 258 palestinesi morti perché le forze israeliane ne hanno impedito il soccorso; 519 persone fatte a pezzi dai droni e 473 dagli aerei; 50mila sfollati (di cui 20mila ancora senza tetto); più di 3.600 abitazioni distrutte e 11mila parzialmente; il bombardamento anche di ospedali, scuole, luoghi di culto, infrastrutture, industrie, campi e addirittura acquedotti.
Almeno un terzo delle vittime erano bambini e, come sempre accade nei tempi delle guerre umanitarie e chirurgiche, oltre l’80% erano civili inermi, intrappolati nei 360 km quadrati della Striscia, per i quali non esisteva alcun rifugio sicuro.
Lo scopo dichiarato da Tel Aviv era rendere inoffensivo il movimento islamico Hamas, per bloccare il lancio di razzi verso il sud di Israele. Con questa scusa, l’esercito israeliano non ha esitato ad utilizzare il fosforo bianco e l’uranio impoverito colpendo i civili e contaminando il terreno e le acque.

In due anni...
Dopo il terribile attacco terminato il 18 gennaio 2009, molte organizzazioni hanno promosso inchieste su quanto avvenuto a Gaza (ad esempio Amnesty International, Human Rights Watch, il Comitato Indipendente di Inchiesta della Lega Araba-Iffc presieduto da John Dugard), che hanno accertato violazioni dei diritti umani e crimini di guerra. Infine il Rapporto Goldstone, frutto di una missione Onu guidata dal giudice ebreo sudafricano Richard Goldston, ha analizzato 180 interviste, 10 mila pagine di documenti, 1.200 fotografie (anche satellitari), 30 video.
Nei mesi scorsi sono state varie invece le iniziative della società civile internazionale per porre fine all’assedio: una decina di missioni via mare, oltre a vari convogli terrestri, con aiuti umanitari che, passando direttamente da acque internazionali ad acque palestinesi, hanno cercato di raggiungere il porto di Gaza, oltre alla Gaza Freedom March che, lo scorso anno in questi giorni, ha visto migliaia di attivisti da tutto il mondo impegnati nel tentativo di attraversare il valico di Rafah che separa l’Egitto dalla Striscia.
Oggi la gente è scoraggiata. La popolazione palestinese della Striscia di Gaza è stanca e depressa: sui volti si legge chiaramente i segni dello scoramento e di una vita sotto assedio. I più restano per strada, senza un’occupazione. Le donne umiliate e disperate perché non dispongono di acqua pulita o latte per i più piccoli. I palestinesi di Gaza sostengono che merce e beni “legali” non sono adatti nemmeno per il bestiame. Ad eccezione di pochi edifici, tutto ciò che è stato devastato dalla furia di Israele resta come due anni fa, perchè i materiali da costruzione continuano ad essere proibiti.
Due anni dopo, la Striscia è ancora sotto assedio, nonostante le rassicurazioni giunte da Tel Aviv all’indomani del massacro ai danni degli attivisti della Freedom Flotilla. Solo il 7% dei materiali necessari per la ricostruzione hanno attraversato la frontiera e quindi sono in molti a vivere ancora nelle tende o nelle macerie delle loro case, così come molti sono gli alunni che non hanno una scuola da frequentare. Il 93% delle attività produttive ha chiuso i battenti, ai pescatori è “concesso” lavorare solo nelle 3 miglia nautiche di fronte alle coste (cioè nelle aree inquinate dall’attacco ed ormai quasi prive di pesce), circa il 35% delle terre arabili non è accessibile perché, trovandosi a ridosso dei confini, è sotto il tiro dei cecchini israeliani che solo nelle ultime settimane hanno fatto 10 vittime e 80 feriti tra i pastori ed i contadini gazawi. A questo si aggiunge lo stillicidio degli attacchi aerei che si è molto intensificato dallo scorso mese di novembre e che ha causato, in dicembre, 16 vittime palestinesi.

Prospettive e speranze
Ci si domanda, di fronte a questo immenso sfacelo di vite e di luoghi, quale sia ora la “nuova strategia” israeliana per quella terra e per la gente che la abita, visto che la chiave d’accesso alla loro libertà e alla loro vita la detiene lo Stato d’Israele. Israele ha dimostrato di non nutrire un vero desiderio di occupare la Striscia, contrariamente a quanto dimostra per i Territori palestinesi occupati, né di porla sotto diretto controllo israeliano.
Sembra quasi che l’unica intenzione sia quella di distruggere la Striscia e uccidere, ferirne e affamarne la popolazione, come dimostrano i recenti bombardamenti e una politica che tenta di provocare Hamas, così da giustificare un maggior numero di attacchi.
È per questo che i gazawi oggi più che mai hanno bisogno di noi di una voce che si levi alta in loro difesa. Il problema più urgente è porre Israele di fronte alle sue responsabilità nei confronti del diritto internazionale e dei diritti umani. Un modo per iniziare ad inchiodare Israele alle sue responsabilità è attraverso la testimonianza diretta e la solidarietà della società civile.
È questo che chiedono alla comunità internazionale, con grande forza e dignità, decine di ong e associazioni della Striscia, attraverso il seguente appello, diffuso a ridosso dell’anniversario del massacro:
«Noi palestinesi della striscia di Gaza sotto assedio, oggi, a 2 anni dall’attacco genocida di Israele alle nostre famiglie, alle nostre case, alle nostre fabbriche e scuole, stiamo dicendo basta passività, basta discussione, basta aspettare.
È giunto il momento di obbligare Israele a rendere conto dei suoi continui crimini contro di noi. (...) Noi palestinesi di Gaza vogliamo vivere in libertà e incontrare amici palestinesi o famiglie da, Gerusalemme o Nazareth, vogliamo avere il diritto di viaggiare e muoverci liberamente. Vogliamo vivere senza la paura di altri bombardamenti (...).
Vogliamo vivere senza essere umiliati ai checkpoint israeliani, senza la vergogna di non poter provvedere alle nostre famiglie a causa della disoccupazione portata dal controllo economico e dall’assedio illegale. Chiediamo la fine del razzismo che è a fondamento di quest’oppressione. (...)
Boicotta, disinvesti e sanziona, unisciti a molti sindacati in tutto il mondo, università, supermercati, artisti e scrittori che rifiutano di sostenere l’apartheid di Israele.
Parla della Palestina, per Gaza, e soprattutto agisci. Il tempo è adesso».

* Saggista, Campagna “Ponti e non muri”, Pax Christi

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