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SPERIAMO CHE SIA MASCHIO

- Famiglia, lavoro, politica: in Israele le donne continuano ad essere drammaticamente discriminate in ogni ambito

Tratto da: Adista Contesti n° 7 del 29/01/2011

Tratto dal settimanale Brasil de fato 3 gennaio 201. Titolo originale “As frágeis mulheres fortes de Israel”

Sei benevolo, Signore eterno, Dio nostro, Re del Mondo che non mi hai fatto donna”. Ogni mattina numerose ebrei praticanti ringraziano Dio nella loro preghiera di Adom Olam per averli salvati dalla schiavitù, evitato che cadessero nell’idolatria e salvati dallo stigma di essere donna, questi esseri sottomessi la cui unica funzione sulla terra è generare nuovi figli del popolo eletto.

Non tutti gli ebrei recitano questa litania, non tutti credono fermamente che essere donna è un disonore. No. Ma è erto  che in Israele la religione si mescola tanto con la vita che finisce per diventare legge. Anche se formalmente non si è dichiarato «Stato ebraico», Israele lo è nella pratica e sono le donne che patiscono di più questa realtà. Il ritratto della donna israeliana forte, ferma, imprenditrice, capace di pilotare un caccia, svanisce acquisendo altre caratteristiche, meno visibili ma ugualmente reali: quelle della donna insultata, imprigionata dalla religione, sminuita da una società mascolina. Le fragili donne forti di Israele.

 

Machismo e matrimonio

Le donne, che sono il 51% della popolazione (poco più di 3,5milioni di persone), vedono violati i loro diritti specialmente in famiglia. Si sottomettono all’obbligo generale di sposarsi con rito religioso, giacché il matrimonio civile non è contemplato e inoltre il matrimonio si può celebrare solo con il consenso del rabbino.

I problemi aumentano nel caso vogliano separarsi. Gila Adahan, avvocata di Gerusalemme specializzata in divorzi, spiega che le separazioni si reggono sulle leggi del Talmud: “Solo l’uomo può concedere il divorzio, e deve consegnarlo per iscritto personalmente alla moglie”. Questa clausola dà luogo ad un fenomeno denominato “mogli ancorate”che non ottengono il divorzio se il marito non lo vuole, e addirittura se egli è fisicamente impedito di apporre la firma di suo pugno.

La soluzione, spiega la specialista, passa per una lunga attesa, visto che la media del tempo per ottenere il divorzio in Israele è di dieci anni, secondo ong, e due secondo il governo. Esistono donne che cercano un’altra soluzione: pagano i loro mariti perché le lascino separare. “Non è insolito che per questo rinuncino alla casa o al mantenimento dei figli. Arrivano ad una vera disperazione”.

 

Criteri bizzarri

Kaveh Shafran, portavoce dell’associazione Rabbini per i Diritti Umani, spiega che le sinagoghe cercano di aiutare queste donne convincendo i loro mariti a desistere. Li minacciano di “ripudio” da parte della comunità, di impedirgli di studiare la Torà, di retrocederli nell’organigramma della sinagoga, arrivano a denunciarli presso le autorità penali. Nel 2007, 80 uomini hanno subìto un periodo di carcerazione dopo essere stati presi di mira dai loro rabbini, secondo quanto riporta l’agenzia Efe. Capita perfino che paghino un detective privato per andar dietro ad un marito fuggito. I rabbini si coinvolgono se c’è una «giusta causa»  per il divorzio, ma qui risiede un atro degli inconvenienti: la stravaganza di questi criteri.

Shafran spiega che il Talmud non considera  “cause sufficientemente argomentate” l’infedeltà, la violenza o l’assenza prolungata da casa. Per questo, se un uomo assale a pugnalate la moglie può finire in carcere, ma non deve concedere il divorzio. Si accetta come causa giusta l’alito cattivo o il non compimento dei doveri coniugali. “Un uomo può ripudiare la moglie se lei non cucina bene, se incontra un’altra che lo soddisfa di più o se la coppia non ha figli”, dice il rabbino.

Essere single “è il male peggiore per una donna israeliana”, afferma uno de rabbini più conservatori del Paese Ovadia Yosef, e non è una soluzione: le donne single sono condannate all’ostracismo nella comunità. Bisogna sposarsi, e presto (24,5 anni le  ebree, 20,5 le arabe) e avere molti figli (tre in media). Neanche rimane loro la consolazione della antica Spagna: farsi suora. Al contrario: la donna partecipa e pochissimi atti delle cerimonie liturgiche e solo in un pugno di sinagoghe più aperte.

 

Eredità della religione

Sigal Ronen-Katz, assistente legale dell’Israel Women’s Network (IWN, una delle principali organizzazioni femministe del Paese), sostiene che la religione contraddistingue una società patriarcale che finisce per generare maltrattamenti. Si è sempre diffusa l’idea della israeliana coraggiosa, pioniera, combattente, creatrice dello Stato, pilastro della società, «ma dietro tutto questo ci sono pressioni psicologiche e fisiche molto forti, specialmente di ordine religioso».

Secondo i suoi dati, il 42% delle donne ultraortodosse le prende dai mariti e il 24% è vittima di violenza sessuale. Negli ultimi 20 anni, 378 donne sono state assassinate dal partner. La metà era formata da ebree e arabe di età matura residenti in zone di forte radicalizzazione.

Quasi il 36% di esse erano non native, poiché il numero totale di questo segmento non supera un sesto della popolazione totale del Paese. Il 2010 è stato l’anno peggiore dal 2004, con 18 donne morte, il doppio del 2009. Il primo ministro Benjamin Netanyahu, nella Giornata mondiale contro la violenza alle donne (25 novembre), informava che 200 mila donne israeliane e 600 mila bambini sono vittime di violenza fisica o affettiva e, quando arrivano alla denuncia, hanno alle spalle in media cinque anni di calvario. Ha detto questo abbassando la testa davanti alle donne che gli rimproveravano la sua debolezza con gli aggressori: è un anno che ha promesso cinque milioni di shekel [moneta israeliana] in aiuti e investimenti in rifugi, ma non ha ancora,ma non ha dato ancora nulla. Le richieste di aiuto al servizio di assistenza della IWN sono cresciute fra il 30 e il 50% nell’ultimo anno.

Fra le non native soggette a maltrattamenti si trovano soprattutto le russe e le etiopi, cioè le minoranze più presenti nel mondo della prostituzione. La Divisione per l’Avanzamento della Donna (DAW) sostiene che circa 3 mila donne sono vittime di sfruttamento sessuale, malgrado la religione dovrebbe essere un freno per la maggioranza degli israeliani.

Non è così. “La prostituzione è una forma moderna di schiavitù,anche in questo Paese nato facendo uguali uomini e donne e distante da colonialismi e oppressioni. In 15 anni sono state deportate 5 mila donne”, afferma Ronen-Katz. L’Onu calcola che ogni trafficante guadagna all’anno più di 60 mila dollari per ragazza, ognuna comprata con una spesa fra i 7 e i 25 mila dollari. Un bordello piccolo, con dieci donne, può rendere 250 mila dollari al mese. Il 70% delle giovani è dedito alla droga.

Lavoro

«Le israeliane si muovono in una realtà maschile sotto la falsa apparenza dell’uguaglianza”, scriveva già nel 1978 la femminista Lesley Hazleton. La situazione non è cambiata molto, come rivela ogni anno la commissione sulla donna creata nell’ambito del Parlamento israeliano.

Ruhama Avraham Balila, deputata del partito Kadima e ex ministra del Turismo, ripassa i dati desolata. È una delle 23 donne su 120 parlamentari di una Camera che oscilla sempre fra il 7 e il 10% della rappresentanza femminile, generalmente di partiti di centro e di sinistra. Fra i dati che sottolinea, ce n’è uno dal quale risulta che le donne hanno una migliore formazione degli uomini, con 2 punti percentuali in più di laureate (22%) e 9 punti in più relativamente all’istruzione media. Il 55,9% degli studenti dei corsi superiore è donna (la settima migliore cifra del mondo), ma malgrado questo la disoccupazione femminile è di due punti superiore a quella maschile (dal  6,1all’8,3%). “È disperante: siamo un quarto dei docenti universitari e la pressione familiare e religiosa tiene lontane le ragazze dalle carriere tecniche. E siamo maggioranza da sempre:  nell’educazione, nel lavoro sociale, sanità, segretariato… Dove siamo nel campo dell’economia o della difesa? In nessun posto ci promuovono, ci vedono come uguali”, dice una signora che ha maggiore spazio nella stampa perché eletta una delle politiche più brave del mondo per il suo lavoro.

Non è stato mai visto di buon occhio che le donne abbiano autonomia nell’impiego, così che il 91,4% delle impiegate esercitano funzioni di subordinazione contro l’80% degli uomini. Non arriva al 4,5 la percentuale di coloro che hanno incarichi esecutivi (7 punti meno degli uomini) e, in politica, sono appena un terzo le donne nelle Prefetture potenti come quella della capitale Tel Aviv.

“Solo nove hanno ricoperto l’incarico di Prefetti nel nostro Paese”, denuncia Avraham. Nella Corte Suprema, in 62 anni di esistenza dello Stato israeliano, ci sono state solo tre donne. Negli ultimi giorni, il dibattito in Parlamento si è concentrato sulla legge di uguaglianza dei salari, che arrivano a differenze di oltre il 38%, e sulla apertura a tutti i lavori, perché molti sono vietati «essendo perniciosi per la salute della donna», come i lavori notturni. “Non ci lasciano essere le ebree forti della shoah, o quelle che apparivano nel film Exodus. Ci rabboniscono nella direzione sbagliata. Abbiamo piccole cose: un anno di licenza di maternità, una legge contro le molestie sessuali molto forte, aiuti alla scolarizzazione. E intanto essere donna qui è molto difficile”.

 

Minoranza dimenticata

La discriminazione generale della donna israeliana si somma, nel caso delle arabe, al fatto di appartenere a una minoranza dimenticata. Fadwa Lesine,  imprenditrice, si vede come una vittima tripla: “È araba in uno Stato ebraico, è in una società patriarcale che trasuda machismo e non può ricevere la qualificazione necessaria per salire nella scala dell’economia liberale”. Parte dello scarso 3% di lavoratrici autonome, Lesine è un’eccezione che sopravvive nel suo ufficio di design di interni. Secondo l’Ufficio Centrale di Statistica di Israele, solo il 18,6%  delle donne arabe lavorano fuori casa, mentre sono il 56% le ebree.

Le donne arabe puliscono Israele, fondamentalmente. O insegnano nelle scuole della loro stessa minoranza. O cucinano. Lavorano per un salario che è del 47% in meno di quello di una israeliana ebrea. Si sposano prima, hanno più figli e, benché la Palestina sia una delle comunità più progressiste del Medio Oriente, sono sotto il peso del rigore dell’islam. “Ho studiato in  un centro arabo, non ho avuto alcuna sovvenzione per aprire la mia impresa, ho ricevuto pressioni dal municipio perché assumessi ebrei. Anche così, sono la prima imprenditrice della mia famiglia, ne sono orgogliosa”, afferma difendendo la sua scelta. Collabora ad una associazione di donne e afferma che un quinto delle donne di Israele vive nella povertà e quasi un terzo non mangia tutti i giorni perché niente manchi alla famiglia. “È una tragedia, non abbiamo potere, ma povertà, e questo circolo vizioso non si spezza”, lamenta. La crescente radicalizzazione religiosa del Paese complica solo le cose. “Brutti tempi, è sempre un male nascere  donne  in questa terra».

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